“A peste … libera nos Domine”

Le epidemie non sono l’eccezione ma la regola nella storia dell’umanità. Il progresso medico scientifico e la scoperta dei vaccini ne hanno limitate molte e qualcuna l’hanno annientata, come il vaiolo, che dopo essere stata una delle cause più frequenti di morte, mezzo miliardo di persone ancora nel 1900, è stato dichiarato estinto nel 1979. Dimenticata la “Spagnola”, che imperversò cent’anni fa, poco letali la “Asiatica” e la “Hong Kong” del 1958 e del 1968, ci siamo sentiti immuni da epidemie, che associavamo al Terzo Mondo. L’impatto del Covid è stato tremendo anche per questo e la reiterazione delle “ondate” è inquietante. Un anno fa avevo fatto una breve ricerca, per il bollettino del 2020 della Sezione CAI di Giaveno, sulle epidemie giavenesi dei secoli passati.  Non pensavo tornasse di attualità, ma ripropongo l’articolo, anche perché le analogie col passato fanno riflettere.

Epidemie a Giaveno nei secoli XVI e XVII

 “Capperi!” è la traduzione che Camillo Brero dà all’esclamazione “contacc” nel suo dizionario piemontese. Un’esclamazione di stupore o per una sorpresa poco gradevole in uso anche nel patuà francoprovenzale di Coazze, ma in origine ben più drammatica, usata per lanciare l’allarme di fronte a un rischio di pestilenza e di contagio, contro cui la difesa più immediata e quasi unica era l’isolamento. Era un grido che risuonava ricorrentemente.

Le grandi pestilenze italiane che quasi tutti conoscono sono due, quella del 1347 e quella del 1630. La loro fama è dovuta purtroppo al numero dei morti, ma anche a Boccaccio e Manzoni che le hanno descritte nel Decameron e nei Promessi sposi. Ma, come confermano le ricerche di Guido Lussiana nell’archivio di Coazze e le ricerche storiche locali, in quell’arco di tempo le ondate epidemiche si sono susseguite, soprattutto a partire dal Cinquecento, quando il Piemonte divenne campo di battaglia di Francia e Spagna e purtroppo anche terra di conquista delle carestie e pestilenze che la rapacità e la sporcizia dei soldati portavano con sé. Non si ha documentazione locale sulla “peste nera”, che, arrivata dal Mar Nero con le pulci dei ratti, sconvolse l’Europa stroncando oltre un terzo della sua popolazione. Torino registrò dall’estate del 1348 ai primi del 1400 cinque ondate epidemiche che ridussero i suoi abitanti da 4500 a 3000.

Il primo riferimento ad un contagio nei documenti dell’archivio coazzese è del 1501.  Per quanto riguarda il territorio giavenese, Gaudenzio Claretta nella sua Cronistoria del Municipio di Giaveno – cui farò riferimento per gran parte dei dati e delle citazioni di questo lavoro – trova il primo riferimento indiretto alla peste solo nel 1562: nei registri dell’anno si annotano 48 fiorini mandati dal presidente Ludovico Dalpozzo, conservatore della peste, per la quarantena di due persone.

Il Goffi risanava, ma non così Pietro Colombato, stato confinato alla grangia di Alessio e mandato a visitare dal presidente Dalpozzo da due medici, ancorché n’avesse cura per ordine del municipio il chirurgo di Giaveno Barolomeo Sala. Pare che a Giaveno non siasi avuta a deplorare gran strage, la quale colpì invece Avigliana e S. Ambrogio, come tolgo dagli stessi interessantissimi conti. Qui però evvi motivo a rendere elogi al presidente Dalpozzo, che non fu sonnacchioso, e provvide con savii regolamenti ad impedire la propagazione di quel terribile morbo. Ma quel che non si poteva impedire era la malattia dei cervelli, e nello stesso conto all’anno vegnente leggo queste memorabili parole: “Più per quattro notti vacate per occasione della peste e per il dubbio che quelli di Avigliana quali si diceva venivano unger li ussi in Giaveno”. Parole abbastanza esplicite che non richiedono commenti. (Cronistoria del Municipio di Giaveno, pagg. 113,114)

Questo brano rivela quanta cura ci fosse per contenere i contagi, mandando degli specialisti oltre al medico locale e puntando sull’isolamento dei contagiati. Il lazzaretto si allestiva solo in caso di epidemie diffuse, le baite solitarie si prestavano bene all’isolamento per casi sporadici. A Coazze questo sistema venne abbondantemente usato e non fu mai necessario allestire un lazzaretto. Nonostante le visite mediche e l’isolamento, il Colombato si è conquistato lo sgradito onore di esser la prima vittima documentata della peste a Giaveno.

Claretta annota poi con sconforto e, oserei dire con manzoniana ironia, la spesa per impedire agli “untori” aviglianesi di contaminare Giaveno. L’epidemia che devastava ben più gravemente Avigliana suscitava timore invece di pietà. Campanilismo e bisogno di trovare una causa concreta del morbo, contro cui si potesse combattere, avevano trovato i colpevoli.

I colpevoli erano invece i soldati.  Francesco I d’Orléans, in lotta contro Carlo V d’Asburgo, aveva occupato il Piemonte nel 1536; la sconfitta di San Quintino nel 1557 aveva costretto i francesi a restituire i suoi domini al vincitore, Emanuele Filiberto di Savoia ‘Testa di ferro’, ma ci vollero anni prima che le truppe straniere lasciassero il Piemonte. I soldati con la loro mobilità, la scarsa igiene erano veicoli di contagio da cui era praticamente impossibile difendersi. Le razzie e i saccheggi portavano alla fame la popolazione e sugli organismi indeboliti trionfava la malattia. Non restava che la preghiera. L’invocazione “A peste, fame et bello libera nos Domineevidenzia la richiesta a Dio di fermare questa tragica concatenazione.

Dalla Cronistoria del Claretta desumiamo che la peste bubbonica:

… di nuovo afflisse il Piemonte tra il 1588 e il 1599, menando strage e facendo sentire ancora il danno maggiore, per la nota favola degli untori, una delle più terribili di tutte le false immaginazioni del volgo. Poche sono le notizie rimasteci, e mentre si sa che Rivoli ed Avigliana, dove in un sol giorno morirono 75 persone, ne furono orrendamente travagliate, ritrovo pure che Giaveno stesso, ancorché distinto per maggior bontà di clima non ne fu immune.

… Saviamente il nostro municipio, nel sindacato di Giuseppe Molines e Gian Giorgio Gianotti, deputava conservatori della sanità pubblica i capitani Matteo de Jacobis, Gian Maria Valentini ed il nobile Bartolomeo Valentini, sotto la presidenza del castellano del borgo, Ottavio Felisi. Vegliavano eglino con zelo, e morta repentinamente il 1° giugno una tal Margherita, figliuola di Pietro e Clara de’ Raimondi, subito commettevano al medico Sebastiano Balbo, al chirurgo Secondo Baronis e ad Ettore Bono di S. Ambrogio, specialmente esperto di curare i mali contagiosi … di ispezionare quelle spoglie. I periti medici dunque, visitato il cadavere di quella ragazza, non trovarono segno di pestilenza.

… Ma se non erasi verificata peste in quella malata, ben vi fu in un caso succeduto pochi giorni in appresso. Erano giunti da Torino Filiberto Baronis colla famiglia, Niccolò Marone orefice, ed Antonio Gianotto colla moglie, e quest’ultima precisamente alcuni giorni dopo cadde inferma. La visitò il Bono avanti gli accennati commissarii, unitamente al notaio Oliviero Valetti, e giacendo essa in una casa del seminario, fu ritrovata “nella coscia destra una codisella la qual lui giudica come esperto in ciò e per avere visitati più altri e medicati nel luogo di Rivoli ed altri, esser morbo pestifero”.

Questo episodio conferma come in tempi normali ci fosse grande attenzione ad ogni minimo segnale di epidemia, mentre in tempi di guerra si era in balìa degli eventi.

Versione PDF sul sito del CAI Giaveno
Cronistoria del Municipio di Giaveno, Gaudenzio Claretta, 1875
Epidemie in Piemonte, Gianbattista Aimino, Gian Vittorio Avondo, Pino Moretti, Edizioni del Capricorno, 2020

Nel 1627 Carlo Emanuele I di Savoia entrava nella Guerra di Successione del Monferrato a fianco degli Spagnoli col risultato di vedere il Piemonte invaso e devastato dai Francesi, i quali con la Pace di Cherasco del 1631 imponevano il loro candidato Carlo di Gonzaga Nevers come duca di Mantova e del Monferrato. Vittorio Amedeo I di Savoia, in cambio di Alba e qualche territorio orientale, si vedeva costretto a cedere Pinerolo ai Francesi e a subirne l’egemonia.

Giaveno si trovò direttamente coinvolta in queste vicende belliche. Il duca Enrico II di Montmorency, da poco nominato dal Richelieu luogotenente generale dell’armata francese in Italia, dopo aver occupato senza colpo ferire Avigliana, abbandonata dagli abitanti a causa del contagio, saliva il 13 maggio 1630 a Giaveno. Il presidio di Giaveno, alle dipendenze del capitano Giovanni Andrea Battaglia, governatore di Avigliana, era formato dalla milizia paesana, ovvero da uomini reclutati sul posto, fortemente motivati e risoluti ad opporsi all’invasione nemica. Già un mese prima avevano costretto alla ritirata i soldati francesi saliti da Pinerolo a Pra l’Abbà.

Il Montmorency giunse sotto le mura di Giaveno alle quattro di sera: appena fu alla portata dei cannoni, si recò con gli aiutanti De Sourdie e De Allaye a riconoscere il punto più favorevole per sistemare le batterie che in poche ore aprirono un’ampia breccia nelle fragili mura trecentesche. Ai soldati della milizia non restò che arrendersi. Il Montmorency concesse una resa onorevole: ai due sindaci della città, preoccupati per le sorti della popolazione, venne assicurata una tregua e il mantenimento delle franchigie, dei diritti e degli statuti che già possedeva, a patto che si fosse sottomessa senza condizioni alla sovranità del re Luigi XIII e si accollasse l’ospitalità di duecento soldati al comando del maresciallo De Fargis. Fu una presenza gravosa, fatta di requisizioni e soprusi, che nel 1631 sfociarono addirittura in un’aperta ribellione, esaltata dal Claretta come “i vespri della Turinera”. Ma il vero flagello di quell’anno orribile fu la peste. Portata dai mercenari lanzichenecchi in Lombardia e poi diffusa dagli spostamenti degli eserciti, ridusse di un terzo la popolazione. Si stima che a Torino ci furono circa 10.000 morti, su una popolazione di 36.000. Giaveno, che nel 1627 contava circa 3.400 abitanti, nel 1630 ebbe – secondo il dettagliato resoconto del notaio comunale Giacomo De Jacobis, morto anch’egli del morbo con la moglie e 6 dei suoi 8 figli – 1.199 morti di peste, di cui 308 nel capoluogo, 235 alla Buffa, 318 al Paschero, 84 a Ruata Sangone, 45 al Selvaggio e 205 alla Sala.

Il Claretta gronda indignazione contro “quelle terribili masnade tedesche, feccia della milizia di ventura, non vivente che di ruba, senza patria e sentimento fuorché il bottino” e contro “i non migliori soldati” francesi, per cui “non tardò la peste a decimare e rubatori e rubati, giacché quei sozzi sul loro passaggio la regalarono, uno spruzzolo essendovene sempre nei loro eserciti”.

Positivo è invece il suo giudizio sulle autorità municipali che, pur in un frangente difficilissimo segnato dalla carestia, dalla mancanza di risorse e dalla prevaricazione francese, operarono energicamente contro il contagio del 1630:

Ed eccoci giunti all’anno terribile, in cui il Piemonte doveva essere fatto segno di mali miserandi, cagionati dalla guerra prolungata, da quella calamitosa peste accresciuta dalla incredulità, che uccise a migliaia e fu peggiorata dagli uomini, i quali la supponevano propagata da unzioni: onde furor popolare e legali iniquità, che resero vuoto e incolto il povero nostro paese, che i forestieri si disputavano.

… Il contatto con tanti soldati non salvò Giaveno, quantunque favorito dalla salubrità della sua aria e dalle sue acque. Nel manoscritto di un cappuccino riferito dal Montù nelle sue “Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630 e 1631” ritrovasi che «Giaveno era ridotto ormai al nulla, nel modo che la povera terra di Avigliana è ridotta al verde di gente». Come di quasi tutti gli altri paesi e di Torino in ispecie, i libri parrocchiali, che potrebbero fornirci un sussidio molto giovevole per dare una notizia statistica dei morti in quel contagio, sono silenziosi, e pare che interrotte le funzioni normali, si tralasciasse persino di registrare i morti che occorrevano ad ogni momento. I libri parrocchiali di Giaveno dal 1° gennaio a tutto luglio notano morti 76, poi vi è interruzione sino al 1632.

… In varie famiglie morivano sei, sette individui, in una ritrovo morti quattordici e la casa chiudevasi, in tre, dieci, in un’altra dodici. Se tanta strage menò quel flagello, non è che sonnacchiosa fosse rimasta l’autorità municipale, ancorché costituita sub hostili dominatione, né in comunicazione coll’antica capitale. Mancano bensì gli ordinati, ma per buona ventura ci vengono in sussidio i conti comunali, dai quali si possono ricavare quelle poche notizie, che gettano qualche lume su quell’anno memorando. Ricorderò anzitutto i nomi degli amministratori di quei giorni e che vanno raccomandati alla riconoscenza dei posteri per non avere abbandonato il loro ufficio, come da’ più suolevasi, e come avvenne a Torino, la cui amministrazione fu ristretta nelle mani del celebre presidente Bellezia, del vicario Ranotto e di pochi altri consiglieri.

I Sindaci Gian Andrea Sclopis Doria e Giovanni Vincenzo Gianotti, ottemperando a quanto decretavano i regolamenti del Consiglio di Sanità di Torino, facevano eseguire la guardia alle porte del paese per impedire l’introduzione di persone e vettovaglie infette, inoltre:

 … A buona distanza dell’abitato facevasi scelta di un orto, ove seppellire i corpi dei defunti pel male contagioso; con molto discernimento facevasi costrurre sulle rive del Sangone più ventilate un lazzaretto per sanare gli infetti, e si stabiliva un regolare servizio di monatti, a’ quali si distribuivano sani elementi, affine di tenerli abili al loro servizio ed impedire che danneggiassero la roba altrui, né astenevasi dal chiamare a Giaveno esperti medici, chirurgi e barbieri, come allora costumavasi, non risparmiando il denaro ricevuto. E quando uno dei medici (Coletti) ed un chirurgo, di cui non ci è rimasto il cognome, divenivano vittima del contagio, i conservatori della sanità Tommaso Molines e Valentino Sclopis ordinavano che i lenzuoli ed il loro letto di piuma fossero gettati nel rivo Olasio, poiché abbruciandoli avrebbero potuto emettere micidiali esalazioni.

Non si trova nella Cronistoria nessun accenno ad un altro lazzaretto, lungo l’Ollasio, che Luca Bramante cita ne Il feudo di Coazze come “il carnaio degli appestati”.

Il contagio arrivò anche alla Sacra di San Michele, occupata in quegli anni dai soldati francesi, come risulta dalla richiesta pervenuta al comune giavenese “di mandar homini quello che sarà necessario per nettezza et perfumar il castello di detto San Michele”.

Ma soprattutto il contagio comportò pesanti spese straordinarie, come si desume da rendiconti di medici e funzionari incaricati, che il Claretta riporta da documenti d’archivio. Eccone qualche stralcio:

Richiesta di Gio. Lorenzo Chioso “cirogico di Giaveno”: “Per fiorini 2200 per tanti pagati ad Antonio Ferrand e Giovanni Colombato cirogici e profumatori, e ciò per il stipendio di un mese. Più fiorini 80 per la fabbrica della carretta per seppellire i morti contagiosi. Fiorini 228 dati a Gio. Michele Polbot oste, per spese cibarie al signor medico Ronzino come delegato della sanità. Più fiorini 204 a Bartolomeo Forneri in tempo di contagione agente di comunità per spese dei seppellitori, barbieri e purgatori. Più giorni tre vacati a Susa per andare a prendere medicamenti. Più per giorni sette stato a condurre li barbieri per medicare gli infetti alle capanne. Più per alcune visite di cadaveri fatte nel principio della contagione, due in casa di messer Guglielmo de’ Guglielmetti, altra in casa di Gio. Portigliati, altra in casa de’ Bareti, altra in casa di Goria et altri dei quali non mi ricordo stando al giudicio di Loro Signorie. Più per altre fatiche fatte nel tempo che io fui conservatore, ordinato nel consiglio, essendo sindaci li signori Gaspardo Valetti e Gian Andrea Calcagno stando al giudicio di LL. SS.”

Parcella di Giacomo Porteglio: “… in far costrurre le cabane degli infetti sopra la rivera del Sangone, fiorini 35. Più per aver provvisto di pale, zappe e un carroccio di ferro per seppellire una vittima quale era morta in detta cabana”.

Parcella di Giuseppe Sclopi: “D’ordine di Leonardo Calcagno sindaco a Bartolomeo Forneri per i monatti una brenta e mezza vino buono, rubi 1 per salsiccia fiorini 100 alli medesimi pure a L. 1 la libbra, fiorini 7”.

Parcella di Federico De Jacobis: “Più li 2 e 3 settembre 1630 ha vacato d’ordine dei nobili sindaci in Moncalieri di compagnia del signor medico Ronzino per ottenere la liberazione della sanità per il morbo contagioso avendola ottenuta dalli eccellentissimi magistrati e duchi e vacato in Torino essi tre giorni per far stampare le bollette della sanità. Più per quelle ho pagato all’oste per due posti che il detto signor medico Ronzino era venuto meco per servizio della comunità, fiorini 7. Più per tre quinterni di bollette che feci stampare e per me fu pagato al Pizzamiglio a giorni 6 il quinterno, fiorini 18. A Giorgio Molines fiorini 32 per il cavallo in due volte per essere andato a Susa per far venire il signor medico”.

Dalla parcella di Giacomo Morone: “Più un letto di piuma dato d’ordine delli suddetti Tommaso Molines e Valentino Sclopis e conservatori alli cirogici con due lenzuoli di stoppa insieme una coperta di catalogna bianca fina, qual letto fu dopo la morte di monsieur Giuseppe cirogico, dalli sotterratori gittato nel rivo Olasio, ed essi lenzuoli gli messero intorno, cioè uno a m. Giuseppe con la coperta per essere tutti morti dentro ed averli sperduto ogni cosa, qual letto di piuma fu allora giudicato essere rubi 4 ed altra roba, cioè lenzuoli e coperta che i sotterratori gli messero intorno d’essi cirogici morti.

Gio. Michele Valetti deve avere per quello che Gio. Giorgio ha vacato giorni 52 in visitare gli infermi di contagione f. 228.

Luigi Merlo creditore per quello che suo figlio ha servito per guida ai monatti che andarono a visitare gli infermi di contagione per giorni 5 f. 3”.

Dai conti del 1631: “Più pagato a Claudio Genta per sue fatiche di spazzare e profumare la casa della prevostura, come per mandato 25 gennaio.

Più pagato al signor canonico Gio. Michele Valetti per spese somministrate al signor auditore Vignale qua venuto per benedire il cimitero di questo loco come per parcella 4 febbraio 1632, f.228. Più pagato a Bernardino Amprimo per prezzo di un orto sin dal 1630 venduto per seppellire i morti del mal contagioso.”

Henri II de Montmorency, duca e maresciallo di Francia
Via Teresa Marchini era Via della Breccia, caratterizzata dal platano secolare e dal mercato dei funghi. Si chiamava via della Breccia perché corre lungo le mura dove i cannoni del Montmorency avevano aperto una breccia nel corso della battaglia di Giaveno, durata poche ore.

Per porre fine all’epidemia, non bastando i provvedimenti concreti, ci si rivolse al soprannaturale. Nel 1630 le comunità di Coazze, Giaveno e Cumiana fecero solenne voto perpetuo di effettuare un pellegrinaggio al Santuario della Madonna dei Laghi di Avigliana. Ancora oggi la domenica successiva alla Pasqua parte dalla chiesa parrocchiale di Coazze (anticamente dalla Cappella della Confraternita) la “pusiùń d’Aviëńa”. È invece caduta in disuso l’altra parte del voto, per cui lo stesso giorno le donne di Giaveno avrebbero dovuto recarsi in processione al Santuario della Madonna del Bussone in Villa.

Il 28 luglio dello stesso anno il Comune di Giaveno aveva, con tanto di delibera redatta dal segretario Valentino Sclopis, fatto solenne voto alla Beata Vergine Maria ed ai santi Rocco, Carlo e Sebastiano di fabbricare una chiesa in loro lode nel borgo. Ci vollero sedici anni e le sollecitazioni del Cardinal Maurizio per cominciare la costruzione della cappella nel cuore del centro storico di Giaveno. Essa vanta ricche decorazioni barocche e opere del pittore Alessandro Trono, fa da ancona all’altare un anonimo e curioso dipinto monocromo dove sotto la Vergine con Bambino sono effigiati i tre santi dedicatari della chiesa, Sebastiano, Rocco e Carlo Borromeo, mentre solo San Rocco campeggia sulla sbiadita facciata accanto a San Francesco d’Assisi.

L’abbondante documentazione che abbiamo sulla peste del 1630 consente un interessante raffronto con l’epidemia di Covid 19 con cui abbiamo oggi a che fare. A parte il paradosso che proprio il cosiddetto lockdown della scorsa primavera ha impedito che si effettuasse il pellegrinaggio ad Avigliana che a memoria d’uomo si era sempre tenuto, ci sono interessanti correlazioni tra le due epidemie.

Non occorre scomodare i corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico per vedere come secoli di storia e di progressi medico-scientifici ripieghino, di fronte ad una epidemia nuova e travolgente, sui vecchi rimedi dell’isolamento e del distanziamento. In un’Italia con meno mobilità e con meno di un quarto della popolazione attuale questi provvedimenti erano più facili da imporre e da gestire. Si mettevano guardie ai confini del borgo e gli infetti venivano relegati in baite isolate, capanne in riva al fiume, avvallamenti naturali.

In Val Sangone non resta memoria di questi luoghi, in Val Susa sì: oltre all’Orrido di Chianocco, si ricorda la Barma Contagiòn (nome evocativo), una specie di grotta che si trova in una località molto appartata a circa 1000 metri di altitudine nel vallone di Supita (Cumba dë Sëpita), sopra la borgata Costa di Venaus. La tradizione orale riferisce che nei momenti di pestilenza, per evitare il contagio, il cibo veniva sporto ai malati in quarantena su una lunga pertica (si dà il caso che fossero più pertiche unite) dal lato del valloncello opposto alla grotta.

La chiesa di San Rocco ospita questo anonimo dipinto monocromo dove, sotto la Vergine con Bambino, sono effigiati i tre santi dedicatari della chiesa, Sebastiano, Rocco e Carlo Borromeo.

Allora come ora

I medici si abbigliavano anche allora per proteggersi e indossavano una curiosa maschera dal lungo becco, dove mettevano profumi e la “triaca”, un misto di decine di aromi ed erbe, convinti che essi assorbissero i miasmi della peste.

Resta il dato che allora come adesso le persone che per il loro ruolo maggiormente interagiscono con la popolazione (medici, infermieri, amministratori, clero) pagano un alto contributo di contagi e di morti.

Allora come adesso c’erano gli sciacalli e gli eroi. A Torino, mentre la corte reale e uno sciame di nobili si erano rintanati a Cherasco, il sindaco Bellezia e il protomedico Fiocchetto si prodigarono senza sosta. Il primo dalla camera da letto guidava il consiglio comunale dislocato in cortile, il secondo è anche l’autore del Trattato della peste et pestifero contagio di Torino (1631), che relaziona sull’epidemia e contiene un capitolo sul modo di procedere “in tempo di sospetto mal pestifero contagioso o già scoperto” con prescrizioni di sorprendente attualità sulle modalità di isolamento e quarantena degli infetti.

Anche allora c’erano i complottisti, bisognosi di una causa e un nemico concreto contro cui combattere, e ne fecero le spese gli ebrei ed i presunti untori.

Anche allora c’erano i negazionisti: il più celebre è il Don Ferrante manzoniano, qui accanto nella illustrazione di Francesco Gonin. Dopo aver dimostrato con logica sillogistica che il morbo, non essendo né accidente né sostanza, non esisteva e che le morti erano dovute alla congiunzione di Giove con Saturno, “su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”.

Anche la micidiale sinergia tra guerra, carestia e peste trova oggi qualche eco; è indubbio che la violenza sia in aumento e che l’epidemia stia impoverendo larghi strati della popolazione.

Col passato ci sono analogie, ma anche profonde diversità. Per fortuna. La mortalità è molto ridotta rispetto al 30% del 1630 e la medicina, che ha debellato il batterio della peste, sta facendo progressi nell’affrontare il virus.

Ma aiutiamo il vaccino rispettando le prescrizioni secentesche del protomedico del ducato sabaudo, il vigonese Giovanni Francesco Fiocchetto: igiene, distanziamento, isolamento degli infetti, sanificazione degli ambienti.

Il medico Fiocchetto si prodigò contro la peste a Torino e il suo trattato contiene prescrizioni sagge e attuali.
Don Ferrante, nella illustrazione di Francesco Gonin per i Promessi Sposi

Riferimenti bibliografici

Aimino Gianbattista – Avondo Gian Vittorio – Moretti Pino, Epidemie in Piemonte, Edizioni del Capricorno, 2020

Bramante Luca, Il feudo di Coazze, Periale Edizioni, 2018

Brero Camillo – Bertodatti Remo, Grammatica della lingua piemontese, Ed. Piemont/Europa, 1988

Centini Massimo, La peste in Piemonte, Priuli & Verlucca, 2008

Claretta Gaudenzio, Cronistoria del Municipio di Giaveno, 1875

Claretta Gaudenzio, Di Giaveno Coazze e Valgioie, 1859

Fiocchetto Giovanni Francesco, Trattato della peste et pestifero contagio di Torino, 1631

Massa Giuseppe, Valle e Pianura del Sangone, Dalmasso, 1985.

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