Biografie letterarie essenziali

Biografie essenziali di letterati italiani e stranieri: Dante Borges D’Annunzio Foscolo Gozzano Guareschi Joyce Kavàfis Levi Pascoli Quasimodo Saba Tennyson Ungaretti

Alighieri Dante

Firenze, 29 maggio 1265

+ Ravenna, 23 – 24 settembre 1321

La vita di Dante Alighieri è strettamente legata agli avvenimenti politici fiorentini. Alla sua nascita, Firenze era in procinto di diventare la città più potente, economicamente e politicamente, dell’Italia centrale. Il conflitto tra guelfi, fedeli all’autorità temporale dei papi, e ghibellini, difensori del primato politico degli imperatori, era soprattutto una guerra tra nobili e borghesi simile alle guerre di supremazia tra città vicine o rivali. Alla nascita di Dante, la città era ormai da più di cinque anni nelle mani dei ghibellini. Nel 1266, Firenze ritornò nelle mani dei guelfi e i ghibellini vennero espulsi a loro volta. A questo punto, il partito dei guelfi, si divise in due fazioni: bianchi e neri.

Dante Alighieri nasce il 29 maggio 1265 a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà. Nel 1274, secondo la sua opera in versi e prosa Vita Nuova, vede per la prima volta Beatrice (Bice di Folco Portinari) della quale si innamora subito e perdutamente, trasformandola poi in simbolo-protagonista delle sue opere. Quando muore sua madre, la «madre Bella», Dante ha circa dieci anni. A 17, nel 1283, quando muore anche suo padre Alighiero di Bellincione, commerciante, Dante diventa il capofamiglia.

Il giovane Alighieri segue gli insegnamenti filosofici e teologici delle scuole francescana e domenicana. In questo periodo stringe amicizie e inizia una corrispondenza con i giovani poeti che si fanno chiamare «stilnovisti». A 20 anni sposa Gemma Donati, dalla quale ha quattro figli, Jacopo, Pietro, Giovanni e Antonia.

Dante si consacra molto presto completamente alla poesia, studiando filosofia e teologia, in particolare Aristotele e San Tommaso.Rimane affascinato dalla lotta politica caratteristica del periodo e costruisce tutta la sua opera attorno alla figura dell’Imperatore, mito di un’unità politica che si rivelerà impossibile. Nel 1293, in seguito a un decreto che esclude i nobili dalla vita politica fiorentina, il giovane Dante deveoccuparsi solo degli studi.Nel 1295, un’ordinanza decreta che i nobili riottengano i diritti civici, purché appartengano a una corporazione. Dante si iscrive a quella dei medici e dei farmacisti, che è la stessa dei bibliotecari, con la menzione di «poeta». Quando la lotta tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fa più aspra, Dante si schiera col partito dei Bianchi che cercano di difendere l’indipendenza della città opponendosi alle tendenze egemoniche di Bonifacio VIII, Papa dal dicembre 1294 al 1303.

Nel 1300 Dante viene eletto tra i sei «Priori» — custodi del potere esecutivo, i più alti magistrati del governo di Firenze — che, per attenuare la faziosità della lotta politica, prendono la difficile decisione di fare arrestare i più scalmanati tra i leader dei due schieramenti. Ma nel 1301, proprio mentre a Firenze arriva Carlo di Valois e il partito dei Neri, sostenuto dal papato, prende il sopravvento, Dante viene chiamato a Roma alla corte di Bonifacio VIII. Quando iniziano i processi politici, accusato ingiustamente di corruzione, viene sospeso dai pubblici uffici e condannato al pagamento di una pesante ammenda. Essendo in viaggio non si presenta ai giudici e perciò viene condannato alla confisca dei beni e ad essere ucciso se fosse tornato a Firenze. È così costretto all’esilio immeritato (a partire dal 1302), nel corso del quale viene sempre accolto con favore: Verona, Lucca, forse anche Parigi.

Scrive opere importantissime perché sintesi e al tempo stesso superamento del pensiero medioevale (sulla lingua, sulla filosofia, sulla politica); a partire dal 1306-7 si dedica alla scrittura delle tre cantiche della Divina Commedia, alla quale lavora per tutta la vita.

Rinuncia ai tentativi di rientrare a Firenze con la forza come fanno altri Bianchi (sconfitti nella sanguinosa battaglia della Lastra, 1304), prende coscienza della propria solitudine e si stacca dalla realtà contemporanea che ritiene dominata da vizio, ingiustizia, corruzione e ineguaglianza.

Nel 1310, con l’arrivo in Italia dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, Dante spera nella restaurazione del potere imperiale, il che gli permetterebbe anche di rientrare a Firenze, ma Enrico muore improvvisamente. Verso il 1315, a Dante viene offerto di ritornare a Firenze, ma a condizioni che il suo orgoglio ritiene troppo umilianti. Nel 1319, viene invitato a Ravenna da Guido Novello da Polenta, signore della città, che, due anni più tardi, lo invia a Venezia come ambasciatore. Rientrando da questa ambasciata, Dante viene colpito da un attacco di malaria e muore a Ravenna, dove si trova la sua tomba, a 56 anni, nella notte tra il 23 e 24 settembre 1321. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Luis Borges

Buenos Aires (Argentina), 24 agosto 1899

+ Ginevra (Svizzera), 14 giugno 1986

Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, Argentina 24 agosto 1899 – Ginevra, Svizzera 14 giugno 1986) è stato uno scrittore e poeta argentino ritenuto dalla critica uno dei più importanti e influenti scrittori del XX secolo. Narratore, poeta e saggista, è famoso sia per i suoi racconti fantastici, in cui ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali), sia per la sua più ampia produzione poetica, dove si manifesta “l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto”, come scriverà Montale.

Oggi l’aggettivo «borgesiano» definisce una concezione della vita come storia, come menzogna, come opera contraffatta spacciata per veritiera (come nelle sue famose recensioni di libri immaginari), in cui è necessario alzare il velo per rivelare la realtà autentica e profonda. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Gabriele D’Annunzio

Pescara, 12 marzo 1863

+ Gardone Riviera, 1 marzo1938

Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo1938) è stato scrittore, poeta, soldato e uomo politico italiano. Soprannominato il Vate cioè “il profeta”, occupa una posizione importante nella letteratura e nella vita di inizio Novecento.

Nato a Pescara nel 1863 da famiglia della media borghesia, studia fino alla licenza liceale al collegio Cicognini di Prato: a 16 anni pubblica la prima raccolta di poesie.

Iscrittosi alla facoltà di lettere a Roma, egli conduce una vita brillante e movimentata, tra avventure mondane e duelli: sotto il profilo artistico, i fermenti del decadentismo europeo paiono evidenti nel suo primo romanzo, Il piacere (1889). Andrea Sperelli, il protagonista del libro, incarna una sorta di “nuovo eroe” gelido ed amante del bello, disprezzatore di tutto ciò che è mediocre ed ordinario, poco incline a scrupoli morali; tuttavia, D’Annunzio ama restare in superficie, con una prosa più attenta all’artificio linguistico che non all’approfondimento delle tematiche decadenti, superficiale anche nell’affrontare il male e il dolore.

Aperto alle più varie suggestioni culturali, D’Annunzio scrive molte raccolte di poesie e molti romanzi di diversa ispirazione; s’imbeve delle teorie superomistiche di Friedrich Nietzsche: se Andrea Sperelli era mosso esclusivamente da motivazioni estetiche, il protagonista de Le vergini delle rocce (1895), Claudio Cantelmo, iniziatore della infinita galleria di superuomini dannunziani, teorizza il diritto al dominio delle classi superiori sulle masse. Coerente con l’ideologia espressa nei propri testi, nella vita pubblica D’Annunzio si fa eleggere deputato per la destra nel 1897 e sostiene una convinta propaganda interventista per la I Guerra mondiale. L’attività di scrittore, intanto, prosegue con esiti alterni, divisa fra romanzi e tragedie, concepiti nella splendida residenza della Capponcina, vicino a Firenze, dove nel frattempo si è ritirato. Qui nascono pure i primi tre libri (Maya, Elettra ed Alcyone editi nel 1903) delle Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, la sua opera in versi più importante, piena di vitalismo e di amore panico per la natura.

Riparato in Francia in “volontario” esilio, dopo aver perduto la villa toscana per debiti, D’Annunzio torna in patria all’esplodere del primo conflitto mondiale; si distingue per le sue imprese belliche (celebre la “beffa di Buccari” del 10 febbraio 1918): ferito ad un occhio, scrive le pagine del Notturno, opera più profonda e meditata, percorsa da cupi presagi d’imminente fine e da una angosciata coscienza della morte.

Scrive di tutto e di più: prose, confessioni e ricordi che vengono pubblicati su quotidiani e riviste. Ideatore, terminata la guerra, della fallita difesa di Fiume, si ritira nella residenza di Gardone, da lui denominata il “Vittoriale degli Italiani”, confinato qui da un Mussolini che, dopo aver tentato di utilizzare e a favore del Fascismo il suo spirito, temeva i risvolti negativi dei suoi interventi troppo liberi e trasgressivi; qui muore nel 1938, dopo un lungo periodo d’isolamento. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Ugo Foscolo

Zante, 6 febbraio 1778

+ Londra, 10 settembre 1827

Niccolò Ugo Foscolo nacque nel 1778 a Zante, un’isoletta greca dello Ionio, all’epoca appartenente alla Repubblica di Venezia, che egli chiamò affettuosamente Zacinto.Vita breve la sua (morì non ancora cinquantenne), ma densa di passioni e di eventi, di intemperanze e tumulti, d’impeti generosi e superbi ardimenti che dovevano comporsi in un’Arte molto controllata e perfetta nella forma, dove trovavano pace e compostezza gli ardori esistenziali.

Della sua vita dobbiamo ricordare i seguenti fatti che segnarono anche la sua scrittura: la nascita in un luogo greco gli fece amare il mondo classico; la sua partecipazione alla vita militare in cui applicò i suoi ideali della Rivoluzione Francese; la speranza, presto delusa, in Napoleone liberatore.

Quando muore il padre si trasferisce a Venezia con la madre, ma quando con il Trattato di Campoformio Venezia viene ceduta all’Austria si allontana dalla città e a Firenze s’innamora di Isabella Roncioni, a Milano di Antonietta Fagnani Arese e in Francia, da una inglese, ha la figlia Floriana. Muore a Londra, esule, nel 1827, stanco, ammalato e povero. Ora le sue ceneri sono nella chiesa di Santa Croce a Firenze, che egli aveva cantato nei Sepolcri. Le opere maggiori del Foscolo sono, in prosa, il romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis; in versi: le due Odi, i Sonetti maggiori (trai quali A Zacinto), il carme Dei Sepolcri e il poemetto Le Grazie. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa) – Per approfondire UGO FOSCOLO

Guido Gozzano

Torino, 19 dicembre 1883

+Torino, 9 agosto 1916

Guido Gozzano nasce a Torino il 19 dicembre 1883. Di famiglia borghese benestante, trascorre i suoi primi vent’anni tra le numerose proprietà familiari, sparse tra Torino ed Agliè, nel Canavese. Frequenta l’università senza mai laurearsi in giurisprudenza.

Collabora, poco più che ventenne, a varie riviste con prose e racconti, riscuotendo un discreto successo. Inizialmente ammiratore del D’Annunzio, Gozzano scrive nel 1907 “La via del rifugio”, in cui imita chiaramente lo stile del Vate, seppur già attenuato da una certa aria malinconica, un po’ annoiata e un po’ ironica.
Le cose cambiano radicalmente dopo questa data: scopre d’avere la tisi, allora malattia quasi incurabile, e questo suo appuntamento con la morte incide profondamente nella seconda raccolta di poesie, che pubblica nel 1911. “I Colloqui” riscuotono maggior successo della raccolta precedente, anche se spiacciono a molti critici, che vi intuiscono un amaro di fondo ed allo stesso tempo una leggerezza svogliata che disturba non poco gli animi ottimisti ma chiusi dei piemontesi d’inizio secolo.

Gozzano non assume pose da letterato e scrive le sue rime, segnate dalla tristezza e dal sentimento della morte, con ironico distacco. Alla base dei suoi versi vi è un romantico desiderio di felicità e di amore che si scontra presto con la quotidiana presenza della malattia, della delusione amorosa, della malinconia che lo porta a desiderare vite appartate e ombrose e tranquilli interni casalinghi. Il suo sguardo sul mondo è sempre ironico e disincantato, proprio per questo profondo e acuto.

Tra il 1907 ed il 1909 vive la relazione con la poetessa Amalia Guglielminetti; tale relazione ha un carattere soprattutto mondano e letterario, più che di una vera relazione amorosa.

La malinconica rassegnazione alla morte viene spazzata via da un breve miraggio di guarigione o di miglioramento, quando, all’età di trent’anni, compie un lungo viaggio in India; tiene in questi giorni una sorta di diario di bordo, del quale manda le pagine a pubblicare, a beneficio della Stampa torinese (“Verso la cuna del mondo”, pubblicato postumo). Tuttavia l’agognata guarigione si rivela ben presto illusoria e Gozzano deve interrompere il viaggio, tornando in patria più malato e più rasserenato di prima.

Il poeta si spegne a Torino il 9 agosto 1916; due giorni dopo viene seppellito nel cimitero di Agliè. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Giovannino Guareschi

Fontanelle di Roccabianca, 1 maggio 1908

+ Cervia, 22 luglio 1968

Lo scrittore e giornalista Giovannino Guareschi nacque a Fontanelle, frazione di Roccabianca, (Parma) il 1° maggio 1908. Il padre, Primo Augusto, era sindacalista e negoziante di biciclette e macchine agricole; la madre, Lina Maghenzani, pia e devota, era la maestra elementare del paese. Nel 1914 la famiglia Guareschi si trasferì a Parma, dove Giovannino frequentò le scuole elementari. Poi venne iscritto al convitto nazionale Maria Luigia di Parma, l’antico collegio dei nobili, dove venne notato da Cesare Zavattini, all’epoca istitutore. In questo periodo cominciò ad emergere la vocazione precoce per la scrittura di Guareschi, che creò il giornale della scuola. Fu coadiuvato da Zavattini, i cui insegnamenti furono decisivi per lo sviluppo della sua tecnica e del suo stile. Nel frattempo, l’attività del padre fallì, e Giovannino fu costretto ad abbandonare il convitto e a studiare da privatista. Un’altra presenza importante nella sua formazione, fu quella del parroco di Marore, Lamberto Torricelli, i cui modi bruschi, ma contemperati da una fondamentale bonomia, sarebbero più tardi confluiti nel carattere del suo personaggio più celebre, don Camillo.

Conseguita la maturità classica Guareschi cominciò a svolgere diversi lavori precari, descritti da lui stesso con ironia: “mi davo da fare o come portinaio in uno zuccherificio, o come tenutario di un parco di custodia per le biciclette: pure ignorando nel modo più assoluto la musica, impartii anche lezioni di mandolino ad alcuni ragazzi di campagna”. Per volontà del padre si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, ma solo per ottenere il rinvio del servizio militare. Dal 1929 iniziò a collaborare al settimanale La Voce di Parma  con i suoi primi scritti (articoli, corsivi e poesie). In breve tempo, estese le sue collaborazioni a diversi altri periodici. Affiancò alla professione di giornalista-scrittore quella  di disegnatore, perlopiù con lo pseudonimo Michelaccio, producendo una cospicua mole di disegni.

Nel 1933, a Parma, Guareschi conobbe Ennia Pallini, commessa in un negozio di scarpe, e se ne innamorò. L’anno successivo partì per assolvere il servizio militare, continuando con la sua attività di giornalista. Ottenuto il congedo, nel settembre 1936 lo scrittore si trasferì a Milano insieme con Ennia, che sposò nel 1940; la moglie, la Margherita protagonista di molti suoi romanzi, in seguito gli diede due figli, Alberto e Carlotta. Furono anni di soddisfazioni familiari, ma anche di intenso lavoro: Guareschi fu chiamato a collaborare al Bertoldo, quindicinale di satira diretto da Zavattini. Inizialmente fu assunto come illustratore, poi, come racconta lo stesso scrittore,  “io sono nato nella bassa Parmense, vicino al Po: e la gente che nasce in quei posti ha la testa dura come la ghisa: arrivai a diventare redattore capo del Bertoldo”. Il primo romanzo di Guareschi, La scoperta di Milano, uscì a puntate sul Bertoldo, e poi in volume nel 1941; seguirà Il destino si chiama Clotilde (1942). Nel frattempo lo scrittore, che continuava a lavorare per il Bertoldo, collaborò anche con testate giornalistiche prestigiose e quotidiani; inoltre, partecipò a programmi radiofonici e si dedicò alla stesura di sceneggiature cinematografiche. Questa intensa attività subì una battuta d’arresto alla fine del 1942 quando Guareschi, afflitto per la falsa notizia della morte del fratello in Russia, durante una sbornia pronunciò frasi poco riguardose nei confronti di Mussolini e del regime. Fu arrestato e rilasciato, ma venne richiamato alle armi per punizione e distaccato ad Alessandria, dove riuscì comunque a terminare il suo terzo romanzo, Il marito in collegio (1944).

L’8 settembre 1943 rivestiva il ruolo di  ufficiale, col grado di tenente di artiglieria. Gli fu chiesto di combattere per la Repubblica Sociale, ma rifiutò “siccome non mi andava di disobbedire al mio Re”. Pagò a caro prezzo la sua coerenza: il 9 settembre 1943 fu fatto prigioniero dalle truppe tedesche nella caserma di Alessandria, quindi fu internato nel lager tedesco di Sandbostel e trasferito in vari campi di concentramento, in Germania e in Polonia, fino al settembre 1945. Nel corso della prigionia dimostrò un coraggio e una vitalità stupefacenti. “Fu il periodo della prigionia quello durante il quale svolsi la più intensa attività della mia vita: infatti dovevo innanzitutto fare in modo da rimaner vivo e ci riuscii quasi completamente essendomi fissato un preciso programma riassunto dal mio slogan: «non muoio neanche se mi ammazzano». Nel lager, insieme con alcuni compagni, organizzò addirittura iniziative di informazione e intrattenimento per gli internati: un giornale – il Bertoldo parlato, che leggeva passando di baracca in baracca -, e inoltre conferenze e spettacoli. Alcuni dei testi scritti per tali occasioni, come La favola di Natale (1945), furono ripresi e pubblicati dallo stesso Guareschi, che in seguito descrisse il periodo di prigionia nel Diario clandestino.

Tornato a Milano alla fine del 1945, nel dicembre di quell’anno fondò con G. Mosca il settimanale Candido, di cui fu condirettore, insieme con lo stesso Mosca, fino al 1950, e direttore unico fino al novembre 1957. Sul Candido Guareschi creò vignette, slogan ed epiteti di grande impatto, come il personaggio dalle “tre narici” che faceva il verso all’allora capo dei comunisti italiani, Palmiro Togliatti: quest’ultimo si infuriò e in un discorso pubblicò a La Spezia chiamò “tre volte idiota” l’autore della beffa. Guareschi, convinto monarchico, con i suoi articoli sul Candido contribuì non poco all’affermazione della Democrazia cristiana. Tuttavia, dopo il 1948 lo scrittore ritirò gradatamente il suo sostegno alle forze centriste, rifluendo su posizioni di critica sempre più aspra alla nuova classe dirigente; tale critica si trasformò ben presto in scontro diretto. Dapprima, nel 1951, Guareschi fu condannato, insieme con Carletto Manzoni, per la pubblicazione di una vignetta ritenuta offensiva nei riguardi del presidente della Repubblica Luigi Einaudi; in tale occasione non fu arrestato in quanto incensurato. Nel 1954 finì invece agli arresti in quanto, pur in buona fede, aveva pubblicato sul Candido compromettenti lettere, poi risultate false, dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Guareschi non presentò ricorso in appello poiché riteneva di essere vittima di un’ingiustizia, ma uscì dal carcere profondamente amareggiato. Nonostante i dispiaceri, l’attività del prolifico scrittore proseguiva. Guareschi infatti diede vita a due personaggi che gli diedero notorietà mondiale: Don Camillo e Peppone, le cui vicende confluirono nei volumi che compongono la saga di Mondo piccolo, tra i quali si ricordano: Don Camillo (1948), Don Camillo e il suo gregge (1953), Il compagno Don Camillo (1963). Don Camillo, sacerdote antifascista dal temperamento prorompente e collerico, che dialogava direttamente con il Cristo crocefisso, e Peppone, sindaco comunista autoritario, ma sostanzialmente buono, incarnavano due  figure contrapposte tipiche  dell’Italia post bellica, sostanzialmente divisa tra il Partito Democristiano e quello Comunista. I due personaggi, nemici-amici, sempre in competizione tra di loro, erano in realtà uniti da un comune passato partigiano e da un affetto reciproco. Le vicende di Don Camillo e Peppone ispirarono delle celeberrime trasposizioni cinematografiche, interpretate da Fernandel e Gino Cervi; Brescello, il paese della bassa padana (in provincia di Reggio Emilia) dove sono stati girati i film, divenne celebre come “patria” di Don Camillo e Peppone. A fronte del grande successo popolare di Guareschi, la critica e gli intellettuali tendevano e tendono tuttora a snobbarlo, a causa soprattutto della semplicità di linguaggio.

Giovannino Guareschi morì a Cervia per attacco cardiaco il 22 luglio 1968, dopo aver passato gli ultimi anni di attività dietro le quinte e po’ dimenticato da lettori e critica, silente in un mondo in cui si riconosceva sempre meno.

James Joyce

Dublino, 2 febbraio 1882

+ Zurigo, 13 gennaio 1941

James Joyce, scrittore irlandese nato a Dublino il 2 febbraio 1882 e morto a Zurigo il 13 gennaio 1941, studiò in collegi di gesuiti e poi all’università di Dublino, distinguendosi come linguista; nel 1902, abbandonata la religione cattolica, insofferente dei ristretti orizzonti culturali del suo paese, si recò a Parigi, dove studiò per qualche tempo medicina. Tornato a Dublino per la morte della madre, lasciò definitivamente la città nel 1904 (dopo aver conosciuto – il 16 giugno 1904 la stessa data in cui si svolge l’Ulysses –Nora Barnacle compagna di tutta la vita).

Visse a Trieste (dove conobbe Svevo e ne incoraggiò l’opera) insegnando alla Berlitz School, a Zurigo e a Parigi. Esule volontario, estraneo alla “rinascita celtica”, ha fatto di Dublino il luogo centrale dei suoi libri, descrivendola con minuziosa precisione, con amore ma anche con sguardo critico e deluso.

Esordì con un volume di versi Chamber music (1907; trad. it. 1943), secondo lo stile degli elisabettiani e dei poeti dell’ultimo Ottocento, dove è già evidente la eccezionale abilità di stilista e l’accentuata sensibilità musicale (E. Pound ne accolse un componimento nell’antologia De imagistes, 1914).

Seguì una raccolta di racconti, i Dubliners(1914; trad. it. Gente di Dublino, 1933),efficace quadro del mondo dublinese grigio e popolato di inetti alla vita, scritto in modo oggettivo tradizionale, e un romanzo a sfondo autobiografico che, rifiutato dagli editori, diede alle fiamme (parte del manoscritto, salvato dalla moglie, è stata pubblicata postuma con il titolo Stephen Hero, 1944; trad. it. 1950).

Rifatta, l’opera apparve col titolo A portrait of the artist as a young man (1916; trad. it. di C. Pavese col titolo Dedalus, 1933): qui il racconto è tutto svolto in un’unica prospettiva, quella dettata dal monologo del protagonista.

Dopo un dramma, Exiles (1918; trad. it. 1944), pubblica a Parigi nel 1922 Ulysses (trad. it. 1960) al quale lavorava dal 1914, opera in cui si allontana da ogni convenzione formale e logica; fu inizialmente giudicato opera pornografica da editori inglesi e americani. La prima edizione americana è del 1934, quella inglese del 1936. È con quest’opera che Joyce rompe ogni legame con la tradizione e porta alle estreme conseguenze la libertà dello scrittore moderno dagli scrittori modernisti come Virginia Woolf ed è il romanzo che forse più ha inciso sulla storia della letteratura europea contemporanea.

L’opera richiamò subito su Joyce l’attenzione di tutto il mondo letterario, lasciando la critica perplessa e divisa. Non soltanto Joyce si valeva della psicanalisi per sondare l’inconscio, e seguiva in tal modo la strada dei maggiori scrittori suoi contemporanei, ma cercava di bruciare ogni riconosciuta struttura tecnica, filosofica o religiosa.

Il frequente ricorso all’allegoria fa sì che una parola o un episodio non abbiano mai un unico significato; Joyce varia abilmente lo stile per ciascun personaggio, inventa parole nuove in base a sottili associazioni di idee e affinità di suoni e riesuma termini non più usati.

Questo procedimento ritorna nel libro successivo, Finnegans wakewake (1939; trad. it. di Frammenti scelti, 1961), ancora più sperimentale, con un linguaggio retto da leggi assolutamente personali fino ai limiti dell’incomprensibilità. In quest’opera, dove predominano i valori musicali e ritmici, la disintegrazione del romanzo tradizionale è completa.

Ulysses scende nell’inconscio da sveglio, Finnegans wake nel sonno; nessuno, né prima né dopo, ha colto con tanta disincantata ironia le infinite possibilità del regno onirico; tutta la cultura occidentale nei suoi elementi eroici, mitologici, teologici, razionali e umani si mescola senza soluzione di continuità se si esclude quella dettata da leggi di associazione individuale.

Tra le opere pubblicate in vita va ricordato un altro volume di versi, Pomes penyeach (1927; trad. it. Poesie da un soldo, 1949).

Postumi, oltre al citato Stephen Hero, sono apparsi, tra l’altro: un volume di Letters (1957), seguito da altri due (1966); The critical writings of J. J. (1959); il frammento narrativo Giacomo Joyce (1967; trad. it. 1968), scritto nel 1914. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Konstantinos Kavàfis

Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863

+ Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933

Konstantinos Kavàfis nacque a Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e lì morì il 29 aprile 1933.

Trascorse ad Alessandria la maggior parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte e dovendo reimparare il greco, la sua lingua poetica, durante l’adolescenza.

Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia; però, vivendo in una città di mare, meta di viaggiatori ed emigranti in cerca di fortuna, si trovò in un felice punto di incontro tra persone di diverse culture. In Europa, in campo poetico, dominavano i decadenti francesi, in Egitto vi era la grandissima tradizione della poesia araba e, per l’origine greca, Kavàfis era vicino anche alla grande poesia di Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte.

In un primo tempo compose i suoi versi in una lingua letteraria, ma dopo il 1903 si rivolse al parlato, arricchito di forme dialettali di Costantinopoli e di parole tratte dalla tradizione classica.

Le sue liriche pubblicate postume nel 1936, si possono suddividere in due gruppi: quelle scritte prima del 1910, che risentono dell’influenza dei decadenti francesi, e quelle che, composte dopo il 1910, rappresentano la parte migliore della sua produzione, poesie quasi sempre votate all’essenzialità; al moralismo che richiama ciascuno di noi alla responsabilità individuale, senza scaricare su altri i nostri doveri; all’analisi che si fa poesia, ma conserva la prospettiva storica e la concretezza del reale.

Motivi principali della sua poesia, che ha un andamento musicalmente colloquiale, sono l’amore, anche omosessuale, cantato con accenti ora violentemente sensuali ora accorati e nostalgici; l’inafferrabilità della bellezza; la storia vista come terreno di scontro tra l’uomo e la sorte e evocata con toni di stoica austerità; il ricordo; la vita che sfugge; l’ironia; il disincanto; la morte; la compassione. Al centro delle sue poesie vi sono sempre uomini e donne con i loro sentimenti, i loro dilemmi, la loro umana pietà.

Nella poesia Itaca, scritta nel 1911, Kavafis conversa tranquillamente con il lettore, inducendolo al viaggio verso Itaca ed evocando, con splendore tutto mediterraneo, mattine d’estate, mercati fenici in cui si commerciano madreperle di corallo, di ebano, d’ambra. In questa poesia il viaggio non vale per la meta prestigiosa che si raggiunge, ma per le difficoltà e la crescita personale che comporta: la vita è bella e grande non perché raggiunge una “grande meta”, ma per l’impegno che l’uomo mette in essa. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Primo Levi

Torino, 31 luglio 1919

+ Torino, 11 aprile 1987

Primo Levi nasce a Torino il 31 luglio 1919 e lì si toglie la vita l’11 aprile 1987.  Di professione chimico, si rivela nel campo letterario offrendo una delle più alte testimonianze sulla tragica realtà dei lager in Se questo è un uomo (1947), dove narra, in un tono tanto più drammaticamente icastico quanto più distaccato, le sue esperienze di ebreo deportato ad Auschwitz (marzo 1944 – gennaio 1945).

La liberazione e l’avventuroso ritorno in patria sono i temi del successivo racconto La tregua (1963), mentre alla letteratura d’invenzione appartengono Storie naturali (1966, pubblicato con lo pseudonimo di Damiano Malabaila) e Vizio di forma (1971), raccolte di racconti apparentemente fantascientifici, ma sostanziati dalla medesima problematica morale dei libri precedenti.

Alla sua professione di chimico e rispettivamente alla sua esperienza del mondo della produzione industriale sono legate le due successive raccolte: Il sistema periodico (1975) e, in particolare, La chiave a stella (1978), nella quale sembra riflettersi una singolare coincidenza di atteggiamenti morali e persino di procedure tra il lavoro dello scrittore e quello dell’operaio specializzato.

Levi torna al tema delle persecuzioni razziali in alcune pagine di Lilìt e altri racconti (1981), nel romanzo Se non ora, quando? nonché in un ultimo libro denso di riflessioni, I sommersi e i salvati.

Pubblica anche libri di poesie (L’osteria di Brema, 1975; Ad ora incerta, 1984), un’antologia delle letture a lui più care (La ricerca delle radici, 1981), una traduzione del Processo di F. Kafka (1983) e due raccolte di articoli (L’altrui mestiere, 1985; Racconti e saggi, 1986), frutto della sua collaborazione al quotidiano La Stampa. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Giovanni Pascoli

San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855

+ Bologna, 6 aprile 1912

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una cavalla storna (dal manto con peli grigi, neri e bianchi), fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò impunito.

Poco dopo la morte del padre, Pascoli perse anche la madre e le due sorelle:la famiglia cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna.

Certamente le vicende tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente sulla sua poesia, segnata dal dolore, dal mistero e dalla morte.

Nella sua poesia domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto: uomini e natura. Egli accetta la realtà triste come è, e si sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime stati d’animo, meditazioni. È l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.

Da professore insegnò a Matera, quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Non fu un ribelle, anzi, alla maniera decadente, si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di rifiuto e di avversione per una società in cui era possibile uccidere impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse nella sofferenza e nella miseria.

Nel ’91 (era ancora a Livorno) pubblica il suo primo volumetto di poesie, “Myricae”, mentre l’anno seguente vince il primo premio al concorso internazionale di poesia latina ad Amsterdam (lo vincerà per altre 12 volte!). La sua fama di latinista gli permette nel ’95 di abbandonare l’insegnamento liceale per quello universitario. Diventa docente di latino e greco a Bologna, poi di latino a Messina fino al 1903. Nel 1906 ottiene la cattedra di letteratura italiana dell’ateneo bolognese, lasciata vacante dal Carducci. Muore nel 1912, a Bologna; viene sepolto a Castelvecchio di Barga (prov. di Lucca), paese in cui nel ’95 si era comprato una casa. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Salvatore Quasìmodo

Modica, 20 agosto 190

+ Amalfi, 14 giugno 1968

Salvatore Quasìmodo (un tempo Quasimòdo) nasce a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901. La nonna paterna è figlia di profughi originari di Patrasso e questa origine può avere inciso sugli interessi di Quasimodo, così come il profondo affetto che lo lega alla Sicilia, influenzata dalla cultura ellenica.

Nel 1908 la famiglia si trasferisce a Messina: proprio nei giorni immediatamente successivi al catastrofico terremoto il padre capostazione deve ridare funzionalità alla rete ferroviaria. Alloggiano per lungo tempo in un carro merci sostato in un binario morto della stazione e tanta desolazione, coi numerosi morti e la disperazione dei sopravvissuti, resta per lui un ricordo indelebile.

In quegli anni iniziano le importanti amicizie con Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti e le prime precoci esperienze letterarie in prosa e in poesia. Nel 1919, dopo il diploma di geometra, si trasferisce a Roma dove si iscrive alla facoltà di agraria, senza però mai completare gli studi. Continua a scrivere, mantenendosi con lavori precari, prima come disegnatore poi come commesso, e prendendo nel contempo lezioni di greco e latino. Nel 1926 viene assunto come geometra al Genio Civile di Reggio Calabria; alcune poesie scritte in quegli anni confluiscono nel volume Acque e terre, uscito nel 1930.

Nel 1926 si reca a Firenze ospite della sorella sposata con Elio Vittorini e tramite questi conosce esponenti del ricco ambiente letterario della rivista Solaria, tra cui Montale.

Trasferitosi in Liguria nel 1931, al Genio Civile di Imperia, ha l’occasione di incontrare altri poeti, tra cui Camillo Sbarbaro. L’anno successivo pubblica con successo il suo secondo volume Oboe sommerso, libro importante non solo per gli esiti artistici, ma perché divenuto manifesto dell’Ermetismo.

Nel 1934, dopo aver trascorso un breve periodo in Sardegna, viene trasferito al Genio Civile di Milano. Qui frequenta un ambiente culturalmente ricco, circondato da pittori e scrittori. Due anni dopo si dimette dal Genio Civile, iniziando a svolgere un’attività editoriale con Cesare Zavattini e collaborando a riviste e giornali.

Con Erato e Apollion (1936) Salvatore Quasimodo si avvicina sempre di più «ad un bisogno di essenzialità e di purezza, che accosta le nuove generazioni agli esempi antichi»,

Nel 1940 esce con successo la sua traduzione dei lirici greci (non lascerà mai più il lavoro di traduttore) e l’anno successivo, per “chiara fama”, riceve la nomina di professore di letteratura italiana presso il conservatorio musicale di Milano, dove insegnerà fino al 1968, l’anno della morte.

Nel 1942 esce Ed è subito sera, che raccoglie le poesie scritte negli anni Trenta e Le nuove poesie, composte dal 1936 al 1942. Il libro ottiene un grande successo di pubblico e di critica.

Nel 1946 muore la moglie Bice Donetti. Nel 1947 escono le poesie relative al periodo bellico col titolo Giorno dopo giorno. Nel 1948 si risposa con Maria Cumani, una danzatrice dalla cui relazione era nato, nel 1939, il figlio Alessandro. L’anno seguente viene pubblicata la raccolta La vita non è sogno. L’apprezzamento per la sua opera è testimoniato da numerosi premi anche per le raccolte che escono a metà degli anni Cinquanta.

Nel 1958 viene colpito da un infarto mentre è in visita in Unione Sovietica. Rientrato in Italia, nel 1959 riceve il premio Nobel per la letteratura. Dal 1960 al 1968, anno della sua morte, viaggia molto sia in Europa che in America, per conferenze e letture di poesia. La sua opera, tradotta in diverse lingue, si diffonde sempre più, ottenendo consensi crescenti di critica. Anche le sue traduzioni proseguono e nel 1966 esce la sua ultima raccolta di poesie, Dare e avere.

Il poeta muore il 14 giugno 1968 ad Amalfi a seguito di un’emorragia cerebrale; viene seppellito a Milano nel Cimitero Monumentale. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Umberto Saba

Trieste, 9 marzo 1883

+ Gorizia, 26 agosto 1957

Umberto Saba nacque a Trieste nel 1883 da madre ebrea e padre, Ugo Poli, di religione cristiana, che abbandonò la moglie ancora prima della nascita del figlio; per questo Umberto rifiutò il nome paterno per assumere quello di Saba. Da piccolo fu tenuto a balia da una contadina slovena, Peppa Sabaz, a cui rimase sempre legato, ma a tre anni fu riportato in famiglia. Questo ritorno a casa, unito alla separazione dalla balia, alla poca affettuosità di una madre ancora amareggiata nei confronti dell’ex-marito, causò il clima di angoscia destinato a perseguitarlo per tutta la vita. Lasciò gli studi prematuramente per la necessità di trovare un lavoro, ma continuò le sue letture autonome.

Dopo aver sposato Lina Wolfer nel 1909, fu militare durante la prima guerra mondiale, alla fine della quale divenne proprietario di una piccola bottega antiquaria a Trieste, ma per l’introduzione delle leggi razziali in Italiafu costretto a lasciare la sua bottega al suo socio e a rifugiarsi prima a Firenze e poi a Roma.

Negli ultimi anni Saba fu tormentato da mali psichici, che tentò di curare ricorrendo alla nuova psicanalisi freudiana, dalla quale venne attratto anche come metodo per la conoscenza dei fenomeni interiori dell’uomo. A Trieste passò i suoi ultimi anni, segnato dalle continue crisi nervose, dalla malattia e dalla morte della moglie, e arrivò così alla morte nel 1957 in una clinica di Gorizia.

Saba fin dall’inizio della sua vita poetica, esprime l’idea di una nuova poesia, lontanissima da quella delle tendenze dominanti del suo tempo: non approvava l’estetismo dannunziano, il modernismo dei futuristi ed anche la malinconica mediocrità dei crepuscolari. Il suo modello di poesia era una «poesia onesta», una poesia autentica, in grado di scavare in fondo l’animo, superando le ambiguità, le doppiezze, le ipocrisie dell’apparenza per arrivare direttamente al cuore delle cose e dei sentimenti, al loro essere reale. La poesia per Saba non ha solo uno scopo estetico, ma anche una funzione indagatrice e quindi curativa; Saba era convinto che, in quanto facenti parte di questo mondo, ogni persona od animale, aveva dentro di sé tutte le conoscenze, il problema stava solo nel farle uscire da quel luogo chiuso nel quale si trovavano e tradurle in un linguaggio comprensibile a tutti. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Alfred Tennyson

Somersby (Inghilterra), 6 agosto 1809

+ Aldworth (Inghilterra), 6 ottobre 1892.

Alfred Tennyson nacque a Somersby [Lincolnshire] nel 1809, figlio di un parroco anglicano, uomo colto e eccentrico da cui ricevette gran parte della sua istruzione. Studiò poi al Trinity College di Cambridge e qui fece parte della Società degli Apostoli, un gruppetto caratterizzato da vivacissimi interessi intellettuali e politici, e strinse amicizia con il coetaneo poeta Arthur H. Hallam. La morte improvvisa di Hallam nel 1833 rappresentò un evento centrale nella sua vita, accentuò la sua tendenza al pessimismo e al dubbio, e per circa un decennio rinunciò a pubblicare quanto andava scrivendo.

Nel 1850 sposò Emily Sellwood, ed ebbe l’ambito titolo di poeta laureato, succedendo a Wordsworth e grazie all’ammirazione della corte inglese per il poemetto in ricordo di Hallam, “In memoria”; nel 1851 fu in Italia insieme alla moglie.

Si ritirò nel 1853 nell’isola di Wight, pur rimanendo una figura pubblica di grande rilievo.

Nel 1883 ebbe il titolo di pari (barone Tennyson di Aldworth e Farringford), che accettò non senza esitazioni. Nel 1886 gli morì il secondogenito Lionel. Morì a Aldworth [Surrey] nel 1892.

La maggior parte dei suoi versi fu ispirata a temi classici o mitologici, anche se la sua più celebre poesia In memoriam fu scritta per commemorare Hallam e pubblicata anonima nel 1850. Si tratta di una elegia funebre, in cui il poeta tenta di sublimare e racchiudere in una visione consolatoria le contraddizioni del suo tempo.

Del 1847 è il poemetto narrativo La principessa, racconto fiabesco in versi, che fa dell’ironia sull’emancipazione femminile e sul movimento femminista.

Una delle opere più famose di Tennyson è una raccolta di poesie interamente basate su Re Artù e sui cavalieri della Tavola Rotonda. Nel corso della sua carriera Tennyson si cimentò anche nella composizione di drammi teatrali, ma in questo campo i suoi lavori riscossero uno scarso successo.

Tennyson è il poeta più rappresentativo dell’epoca vittoriana. Espresse con ricchezza di toni e acutezza di visione la fiducia nei valori riconosciuti, ma anche gli intimi conflitti tensioni e lacerazioni.

Caratteristico è il suo sforzo di conciliare istanze diverse e contraddittorie, come quelle della fede, dell’umanesimo e della conoscenza scientifica della natura.

La poesia di Tennyson ha squisita perfezione formale ed è notevole per la maestria nel suscitare uno stato d’animo o creare una atmosfera con la melodiosa musicalità del verso.

Fu bardo vittoriano, dotato di grazia elegiaca e sorprendente qualità evocativa del linguaggio.

Fu creatore di un mondo fiabesco e decorativo incrinato dallo sgomento dinnanzi ai progressi scientifici, che lo portò al pessimismo e al dubbio. Con l’inizio del XX secolo la fama di Tennyson declinò per l’impopolarità dell’ideologia conservatrice sottesa a molte sue opere. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

Giuseppe Ungaretti

Alessandria d’Egitto, 10 febbraio 1888

+ Milano, 1° giugno 1970

Giuseppe Ungaretti nasce il 10 febbraio 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi, trasferiti in Africa per lavorare alla costruzione del canale di Suez. A due anni muore suo padre. Il periodo egiziano lascia nella mente di Ungaretti ricordi esotici, uniti a esperienze giovanili di consolidate amicizie, come quella con il compatriota Enrico Pea, fondatore del circolo anarchico la «Baracca rossa».Nel 1912 Ungaretti si trasferisce a Parigi: studia per due anni alla Sorbona, segue le lezioni di filosofia di Bergson, ma non si laurea. Frequenta gli ambienti dell’avanguardia, venendo a contatto con Apollinaire, Picasso, Braque, e con gli italiani De Chirico, Modigliani, Soffici, Papini, Palazzeschi, Marinetti e Boccioni.

Rientra in Italia nel 1914 ed allo scoppio della guerra è attivo come interventista, si arruola come volontario ed è mandato a combattere sul fronte del Carso. Questa esperienza di trincea spinge Ungaretti a una profonda riflessione sull’effimera condizione umana e sul valore della fratellanza tra gli uomini: nasce la sua prima raccolta (Il porto sepolto, 1916).

Dal 1918 al 1921 vive a Parigi, lavora presso l’Ambasciata italiana ed è corrispondente per il giornale fascista il «Popolo d’Italia». Durante il suo soggiorno francese sposa Jeanne Dupoix e pubblica con Vallecchi la prima edizione di Allegria di Naufragi (1919). Il nome della raccolta indica la gioia del sopravvissuto alla tempesta, di colui che, avendo visto la morte vicina, sa apprezzare la vita. Ungaretti per esprimere forti emozioniricerca un’immediatezza espositiva, con l’impiego di analogie ela rottura delle regole della metrica tradizionale. La punteggiatura è annullata, la disposizione della parola nello spazio bianco del foglio assume un’importanza fondamentale che concorre a scandire il ritmo nella declamazione poetica. Ogni parola racchiude in sé un concetto: per rendere con pienezza amarezza e dolore opera un’attenta scelta lessicale.

Nel 1923 si trasferisce vicino Roma, a Marino, dove ha trovato lavoro come impiegato al Ministero degli Esteri. Nel 1925, Ungaretti firma il Manifesto degli intellettuali fascisti.

Nel 1931 esce l’edizione definitiva, de l’Allegria, il volume pubblicato originariamente nel 1916 con il titolo Il Porto Sepolto, quindi nel 1919 con il titolo Allegria di naufragi e di nuovo nel 1923 con la prefazione di Benito Mussolini.

La raccoltaSentimento del tempo, 1933, segna l’inizio dell’avvicinamento alla fede religiosa, che rappresenta per lo scrittore l’ultimo appiglio dell’uomo smarrito di fronte alle angosce esistenziali e al dolore della morte. Tale raccolta vede la ripresa di una metrica più tradizionale (endecasillabo e settenario).

Nel 1936 Ungaretti è chiamato in Brasile a insegnare letteratura italiana all’Università di San Paolo. Durante il soggiorno americano, il poeta, che in pochi anni aveva visto la morte della madre e del fratello, è ora colpito dalla morte del figlio di nove anni. A questo tragico evento sono dedicati molti dei versi raccolti nella prima parte deIl dolore, in cui l’uomo ungarettiano lotta per conservare la fede di fronte agli imperscrutabili disegni divini.

Nel 1942, a causa del conflitto mondiale, ritorna in Italia: gli sono conferiti il titolo di Accademico d’Italia e la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma. Alla fine della guerra, dopo una serie di difficoltà legate alle sue scelte durante il regime fascista (dovute ad esigenze economiche non certo a consonanza ideologica: non c’è poesia più lontana dal fascismo di quella di Ungaretti!), è confermato docente universitario e Mondadori comincia a pubblicare le sue poesie: Il dolore (1947), La Terra promessa (1950), Un grido e paesaggi (1952), Il taccuino del vecchio (1961) e Vita di un uomo (1969). Questa ultima raccolta racchiude tutta la sua produzione poetica, inclusi i suoi saggi critici e le sue traduzioni, tra cui Gòngora, Mallarmé e Blake. Scompare a Milano il 1° giugno 1970. (a cura della prof.ssa Patrizia Truffa)

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