“Bruciate la Buffa!” (i “Vespri della Turinera” del 13 aprile 1631)

Anno orribile il 1630, aveva portato l’occupazione francese e la peste. Se col nuovo anno il contagio andava scemando la presenza di truppe straniere continuava ad essere un peso economico e sociale tremendo, su una comunità decimata dal morbo e stremata dalla carestia. La prepotenza dei soldati e la continua richiesta di denaro esplosero nella ribellione del 13 aprile 1631, all’ombra della Torre Garola in borgata Buffa di Giaveno. Un gruppo di borghigiani assalì dei soldati francesi che rientravano a Coazze e li mise in fuga uccidendone sei. Lo storico Gaudenzio Claretta nella sua “Cronistoria del Municipio di Giaveno” nobilita il fatto paragonandolo ai “Vespri Siciliani” che nel 1282 dettero origine alla cacciata degli Angioini francesi dalla Sicilia. Motivazioni e contorni dell’aggressione non sono chiari, ma il Claretta ne dà un resoconto esemplare, molto equilibrato. Da un lato cercando di motivare le cause dell’aggressione e dall’altro sottolineandone la brutalità, scandalizzandosi infine nel vedere che gli assassini se la cavarono pagando in denaro. Leggendo il resoconto se ne deduce che i francesi minacciando di bruciare la borgata Buffa, dove era avvenuta l’aggressione, puntavano più a ricavare denaro dall’episodio che a una effettiva giustizia e punizione dei colpevoli.

LUNA NUOVA n.7 del 10 aprile 1982 “I vespri-giavenesi” rubrica “Ciòse bis-ciòse”
La Torre Garola, appartenuta alla nobile famiglia dei Calcagni o Calcagno, era “un osservatorio militare, dalla sua specola a tre luci, parte di quel sistema periferico di avvistamento e di difesa, che, dal secolo XVI in poi, con le strutture del fortino a quota 1671 sulla strada del colle della Rossa, l’isti­tuzione di presidi mobili al colle dell’Aquila e al Prato dell’Abate e il potenziamento delle quattro porte del borgo, era stato creato dai reggitori della Comunitas a tutela dell’agglomerato urbano dalle incursioni di truppe merce­narie e straniere, calamità ricorrente con incalzante frequenza in quel tor­mentato periodo storico“. da Giaveno nei monumenti …, opera citata. Cartolina della collezione di Carlo Giacone.

L’episodio è stato riportato anche da Pio Rolla (ampiamente citato nell’articolo di Luna Nuova) e da Alfredo Gerardi, nei loro libri. Leggendone i diversi resoconti si vede come ognuno abbia poi arricchito il racconto di particolari che temo non abbiano attendibilità storica.

Gaudenzio Claretta, brano tratto dalla “Cronistoria del Municipio di Giaveno“, 1875

Intanto ad ogni momento sentivasi il gravame della dominazione straniera. Quando vi alloggiava il reggimento del colonnello d’Anti, i sindaci, per andare all’incontro delle minacce di quegli sfrenati soldati, erano stati costretti di torre ad imprestito danari, e servirsi di quelli stessi , stati fiduciosamente depositati dagli eredi di Leonardo e di Giovanni Andrea Calcagno sino alla concorrente di 206 doppie. Nè questa somma era sufficiente, ed il maresciallo d ‘alloggio insolentiva per averne maggiore ; onde fu mestieri mandare sino a Saluzzo il consigliere Mina per mitigare le pretese del maresciallo , che allora volle ancora 50 doppie di più , in pena delle dilazioni sofferte. Ma ben più grave era quest’altra vertenza , che avrebbe recato le più micidiali conseguenze, senza il benevolo e sensato intervento del municipio e di alcuni cappuccini.

Era la domenica 13 d’aprile, quando in sul pernottare, ritiravansi a Coazze, dove stanziava il reggimento loro, alcuni soldati francesi, i quali giunti a breve distanza dalla Buffa, e presso il casamento detto Turinera, vennero assaltati da uno stormo di paesani armati di picche e di partigiane, che dopo averli spogliati della roba, e tolti loro i denari, ebbero ancora, all’onta di tutti gli scongiuri, a barbaramente trucidarne sei, avendone indegnamente martoriati altri, per grazia scampati da quel barbaro assassinio. Non è detto qual causa movesse quei borghigiani a commettere tanta nefandità, ma pare che quel saggio di vespro siciliano fosse lo sfogo di lunghi ed antichi rancori, ed una di quelle tremende vendette estreme, destinate dopo un lungo soffrire d’insulti. Saputosi poche ore dopo l’accaduto dal colonnello Magala, che loggiava a Coazze, non tardò, in un coi soldati sfuggiti a quella strage, ed unito ad altri nuovi, di recarsi nella notte istessa a perquisire la località, deciso ad incendiare il borgo, sul supposto che complice ne fosse stata tutta quella popolazione. Fu ventura che andati seco ad ispezionare Benedetto Picco e Giovanni Regge, magistrati municipali di Coazze, ottenessero dallo sdegnato e furibondo militare, di soprassedere , sinchè si fosse verificata la verità dell’accidente. Intervennero pure al convegno tenutosi per tempissimo il seguente mattino , i sindaci di Giaveno . Il colonnello pretendeva che fossegli dato nelle mani uno dei delinquenti, che allegava potersi riconoscere, in seguito alla deposizione di una femmina , catturata da quei soldati, minacciando in difetto l’esterminio del grosso e popolato borgo della Buffa. Ma questa volta placossi ancora lo sdegno del colonnello , mite in proporzione del fatto , in grazia del perorare di alcuni padri cappuccini, capitati sul luogo , e delle calde supplicazioni dei sindaci, i quali rappresentarono che per la colpa di pochi non doveva soffrirne una intiera popolazione innocente . E mentre si sarebbe almeno dovuto insistere sulla pena dei colpevoli , una somma di danaro riusciva a saldare quella piaga sanguinosa. 235 doppie fu la somma fissata dai francesi, che i sindaci ragunatisi tosto nel locale citato della prevostura, provvidero a raggranellare con sollecitudine. E siccome mancavano i danari nella cassa comunale, così fu deciso di tassare i rei conosciuti, in seguito alla deposizione di quella femmina, a pagare singolarmente la chiesta somma con diffidamento, in difetto, di venire consegnati al prevosto di giustizia residente a Coazze. […] Ed in modo cosi benigno terminava una vertenza che avrebbe senza fallo meritato maggiore repressione nell’interesse della giustizia; locchè fa presumere che grande dovesse essere la colpa imputabile a quei soldati, i quali eransi attirato contro tanto eccidio, e che forse l’odio manifestatosi da pochi assassini fosse la espressione dell’avversione della gran maggioranza della popolazione.

Cronistoria del Municipio di Giaveno dal secolo VIII al XIX, di Gaudenzio Claretta, 1875

Alfredo Gerardi, brano tratto da “Giaveno nei suoi monumenti, nella sua arte, nella leggenda e nei suoi ricordi“, 1977

Il maniero turrito della nobile famiglia Calcagni o Calcagno, partecipe attiva della vita pubblica giavenese sin dal secolo XIII con magistrati, giuristi, castellani, sindaci e religiosi di chiare e specchiate qualità vedeva scoppiare ai suoi piedi l’insurrezione del 13 aprile 1631 contro le truppe francesi del colonnello Magala, di stanza a Coazze. Verso l’imbrunire di quella giornata primaverile alcuni soldati in libera uscita stavano rientrando al reggimento, in discreta euforia per qualche quar­tuccio tracannato in una bettola della frazione giavenese. Sulla sommità della torre qualcuno li stava spiando, in contatto con al­cuni popolani armati di picche e di asce appostati nei dintorni. Ad un segnale luminoso della vedetta il gruppo usciva dai nascondigli e si gettava addosso ai militari stranieri, infierendo selvaggiamente sui malca­pitati colti alla sprovvista. L’odio e il malcontento del popolo a lungo repressi esplodevano in que­sta sanguinosa aggressione: sei morti restavano sul terreno, molti altri riportavano ferite e venivano derubati di denari ed indumenti. Il colonnello Magala, comandante del reparto, informato dell’accaduto alcune ore dopo,  inviava un plotone sul posto, intervenendo personalmente per punire l’eccidio e la grassazione. Convinto della complicità degli abitanti, minacciava di incendiare il bor­go come rappresaglia; ma due consiglieri municipali scesi con lui a valle da Coazze, Benedetto Picco e Giovanni Rege, lo dissuadevano, esortandolo a proseguire l’inchiesta. Nell’incontro con i delegati di Giaveno l’ufficiale pretendeva la consegna di uno degli autori dell’imboscata, indicato da una donna arrestata dai fran­cesi, ed insisteva, in caso di diniego, nella sua decisione di dare alle fiamme l’abitato del centro urbano. I sindaci, appoggiati dai buoni uffici di alcuni padri cappuccini capitati sul posto, peroravano abilmente la causa e calmavano le ire del colonnello con l’offerta di una somma di denaro come risarcimento del danno morale e materiale: 225 doppie a carico del Comune, e, per tacita intesa, accollate ai rei individuati su denunzia dei cittadini. Oggi la torre sonnecchia, invitata dalla agreste e poetica quiete che pervade la Buffa, alleviata dall’incalzante frastuono della circolazione stradale, ingigantita e riversata sulla direttissima di fondo valle verso i campi di sci o le mete di Coazze, del Forno e del romitaggio dell’abate De Meulder. Sonnecchia, riposa e non tace: ogni pietra ha una storia, una vita che si tramanda nei secoli a testimoniare la civiltà e l’inciviltà dell’uomo, usufruttua­rio di un mondo dove si crede padrone assoluto, mentre non è che il piccolo atomo di un mirabile armonico insieme, preordinato, guidato e regolato dall’Alto

Giaveno nei suoi monumenti nella sua arte nella leggenda e nei suoi ricordi, Alfredo Gerardi, foto Edmondo De Amici, Libreria Carnisio, 1977

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