Cuori di pietra e bocce d’oro a Pian Gurài

Terra di leggende l’alta valle del Sangonetto e di storie cattive, che si vorrebbe fossero leggende.

Dopo un’oretta di cammino dalla borgata Tonda dell’Indiritto si arriva a Pian Gurài, vasto falsopiano erboso che s’incunea tra i due rami del torrente Sangonetto (lu Ri da Curéla e lu Ri du Palèi). Nel verde delle sue balze erbose sparse di piccole rocce, spicca la bianca cappella della Madonna delle Grazie (m. 1380), eretta dalla famiglia Bramante nel 1920, nei pressi d’un pilone risalente alla fine del secolo precedente.

Madonna delle Grazie (Mater Gratiarum) è uno degli appellativi con cui la Chiesa cattolica venera Maria, la madre di Gesù, Non ha una collocazione nell’anno liturgico, spesso si celebra il 2 luglio con la Visitazione di Maria ad Elisabetta. A Pian Guràì si celebra la seconda domenica di agosto, per non sovrapporla alle feste della prima domenica, Rubinet, Col Bione e Rocciamelone, e a quelle del Ciargiùr e del Colletto del Forno, terza e quarta domenica di agosto. 

A sud, oltre il piccolo “canyon” scavato dal Sangonetto, tre caratteristici larici svettano sulle grigie baite del Palè, incorniciati dal verde tenero dei pascoli irrigui e sovrastati dalla superba mole dei Picchi del Pagliaio. Vi passa accanto la sconnessa carrareccia che, proveniente da Sordini e inerpicatasi lungo l’aspro pendio della Linghiòci, porta alle opere di presa dell’acquedotto coazzese.

S’allarga la vista e si allarga il cuore in questo vasto falsopiano dove la famiglia Bramante ha costruito un pilone con porticato. Un minuscolo riparo, ma prezioso in una zona totalmente aperta. Durante la Grande Guerra coi figli al fronte, i Bramante fanno un’altra promessa alla Madonna delle Grazie. Una chiesa se i figli torneranno incolumi. Succede e nel 1920 si inaugura la chiesetta, al centro del pianoro: corta la navata e ampia l’abside semicircolare. Dopo ottant’anni l’edificio presenta i suoi problemi all’attenzione di Don Gianni Gili e diventa una delle chiese di Indiritto che riparerà. Nel 2002 i Bramante, quelli di San Culët, Beppe e Marco della Coopindi mettono la loro generosità e la loro competenza, Fabrizio Lussiana decora. Arriva un vescovo, Monsignor Guido Fiandino per inaugurare la chiesa rimessa a nuovo.

La chiesa della Madonna delle Grazie in primo piano, sullo sfondo il pilone. (Foto Guido Ostorero 3 dicembre 2015)
La chiesa e, oltre il rio Sangonetto incassato, il Palè con i suoi caratteristici larici. (Foto Guido Ostorero 3 dicembre 2015)
Pian Gurài è circondato dall’acqua, ma è distante. Duecento metri di tubo e la maestria di Beppe di San Culët nel 2003 rimediano alla mancanza. Ora accanto alla chiesa un rubinetto spande acqua in un grosso tronco di larice. Abbeveratoio per le mucche e ristoro per gli uomini. (Foto Guido Ostorero 3 dicembre 2015)

Il rogo di Pian Gurài

Storie di uomini generosi, ma la pace di questo anfiteatro montano, cullata di acque scorrenti e din don di campanacci è recente. Dal passato si affaccia purtroppo una brutta storia, che temo non sia leggenda. La racconta Don Giovanni Dell’Orto nel suo libro “Sui monti di Coazze – la frazione Indiritto e il trappista De Meulder”:

“Pian Gurài con la sua posizione così caratteristica e suggestiva ha ispirato leggende, ha attirato l’attenzione degli alpinisti e degli operatori economici che prima di questi anni di recessione vi avevano progettato la costruzione di una stazione turistica. Il fortunato possessore o affittavolo d’un tempo lontano vi aveva seminato la segala, la séla, e costruita una piccola baita di pietra e tronchi di larice, malëʃʃu, per trascorrervi la stagione dell’alpeggio estivo. Ma alcuni montanari guardavano a lui con invidia … e manifestavano il loro risentimento perché non potevano più pascolarvi i loro armenti di pecore, capre e mucche. AI primi giorni di agosto il sole dardeggiava anche lassù e il proprietario di Pian Gurài aveva raccolto i grossi covoni di segala e ammucchiati nella baita, poi era uscito con la moglie a pascolare il bestiame al di sopra della Rassciàsi , tra i pascoli irrigui dell’Alpe di Gorreto, detto poi Alpe di Giaveno. Era il momento atteso da tempo e il démone dell’odio rabbuiò il volto dei montanari violenti che a passi svelti come per sfuggire alla condanna della propria coscienza sopita giungono alla baita di Pian Gurài e appiccano il fuoco ai covoni di segala. In un attimo una colonna di fumo s’alza funerea, le fiamme divorano i covoni, abbruciano i travi e il tetto crolla. Ma la tragedia inaudita si compie nella stanza vicina dove due piccoli bambini giacevano addormentati nella culla: penetra il fumo asfissiante, poi le fiamme roventi e l’incendio diventa un rogo omicida. Nessuno ode le grida strazianti dei bimbi, gli incendiari disumani s’erano allontanati in fretta. E quando giunse la sera ed arrivarono i genitori dal pascolo non trovarono che una baita fumante e tra un cumulo di cenere i corpi carbonizzati dei figli. Da quel giorno l’altopiano di Gurài non fu più coltivato.”

Sui monti di Coazze, di Giovanni Dell’Orto e Gianni Gili, Tipolitografia Dalmasso 2008
Il pilone di Pian Gurài ha la rara caratteristica di essere porticato. (Foto Guido Ostorero 3 dicembre 2015)
L’affresco che si sviluppa sulle tre pareti del portico del pilone sembra rimandare alla Madonna di Lourdes, anche se lo sfondo evoca approssimativamente le nostre montagne.(Foto Guido Ostorero 3 dicembre 2015)

Pinèt e le bocce d’oro di Carlo Magno

Un’altra leggenda finita male è quella delle “bocce d’oro”, anche perché nessuno le ha ancora trovate.

La leggenda racconta di Carlo Magno e dei suoi guerrieri che, scesi dal Pian dell’Orso per aggirare i Longobardi alle Chiuse, si sarebbero messi a giocare a bocce. Richiamati dal Re si sarebbero affrettati a nascondere le bocce luccicanti sotto terra, convinti di tornare a riprenderle. “Il volgo disperso repente si desta;/ intende l’orecchio, solleva la testa” scrive Manzoni nel Primo Coro dell’Adelchi riferito agli italici che osservano i Franchi battere i Longobardi alle Chiuse. Ma si adatta anche ai montanari dell’Indiritto che dalle loro baite colgono nei bagliori delle bocce e nel suono argentino delle bocciate il miraggio dell’oro.  I tentativi di trovarle non hanno esito, ma la convinzione resta e a farne le spese è un innocente: Giuseppe Ostorero, Pinët da Cianalìri. Era un guaritore e conosceva il potere delle erbe medicinali. Saliva spesso a raccoglierle nella zona di Pian Guràì. Lo chiamavano ormai Pinët d’Gurài e qualcuno si convinse che vi andasse a cercare le bocce d’oro … e che le avesse trovate. Una notte tornando dalla Colletta di Cumiana venne assalito e ucciso. Forse per carpirgli il segreto delle bocce d’oro. Ma c’era chi pensò a una vendetta di medici e veterinari, a cui con le erbe miracolose e le mani, quelle si d’oro, toglieva lavoro e prestigio. La versione che Alfredo Gerardi dà di questa leggenda è leggermente diversa. L’anonimo erborista avrebbe trovato le bocce d’oro e ne avrebbe incautamente parlato, segnando la propria fine.

Giaveno nei suoi monumenti nella sua arte nella leggenda e nei suoi ricordi, Alfredo Gerardi, foto Edmondo De Amici, Libreria Carnisio, 1977

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