Due leggende e un “furto” per il trittico del Rocciamelone

È storico che il 1° settembre 1358 Bonifacio Rotario (Roero) da Asti compì la prima scalata documentata di una vetta alpina, collocando un prezioso ex voto, il famoso trittico in bronzo dorato, sulla cima del Rocciamelone, dentro un piccolo antro scavato nella roccia, oggi inglobato nel Rifugio Cappella, sotto la statua della Madonna. Un’impresa allora difficilissima, tentata una prima volta arrivando solo a 2854 metri. Qui stabilì un accampamento che gli consentì poi di salire in vetta. La località, in onore dell’origine di Rotario, venne chiamata Ca’ d’Asti e vi sorgeranno una cappella e un Rifugio.

Due le ipotesi sul motivo che spinse Bonifacio Rotario ad una impresa così ardua.

1 La prima lo vede crociato prigioniero dei Turchi, che gli impongono la conversione o la morte. Salvarsi sembra impossibile e fa quindi alla Madonna una promessa estrema, collocare una sua immagine sulla montagna più alta del Piemonte. Miracolosamente riesce a fuggire e, avendo legami con Susa, dove vi è ancora una Torre dei Rotari, sceglie il Rocciamelone. Oggi sappiamo che non è la montagna più alta, allora no. Ricordo anche un adagio popolare in patuàMuńvìs Muńvisùń u pas pa Rocimulùń”, che conferma come nelle nostre valli il Rocciamelone fosse considerato la cima più alta.

2 La seconda, avanzata da Martelli – Vaccarone nella “Guida delle Alpi Occidentali” del 1889 e ripresa dall’avvocato Giulio Genin nella sua guida illustrata “Susa e Moncenisio” del 1908, presenta Bonifacio Rotario come un nobile e ricco mercante ghibellino esiliato nel 1348 da Asti e rifugiatosi presso dei parenti a Susa. Le speranze di rientrare in città si riaccendono quanto nel 1356  il marchese del Monferrato Giovanni II Paleologo dichiara guerra ai Visconti, cui Asti si era affidata fin dal 1342, e riesce ad occupare la città. Ma i Visconti reagiscono e forse in questo frangente incerto Bonifacio fa voto alla Vergine di portare una sua immagine sul Rocciamelone, se potrà rientrare in città vittorioso. Nell’aprile del 1358 è documentata la sua presenza a Bruges, nelle Fiandre, e qui commissiona il trittico. L’8 giugno, con l’arbitrato dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo viene siglata la pace con cui i Visconti rinunciano ad Asti, che resta sotto i Marchesi del Monferrato.

Avendo ottenuto quanto desiderava, il coraggioso Rotario compie il suo voto e porta in vetta il trittico, facendo probabilmente incidere sul momento la scritta sottostante che recita:

Hic me aportav/it Bonefacius Rotarius civis Aste/nsis in honore // D(omi)ni n(ost)ri Yh(ies)u C(hristi) et / beate Marie virginis an(n)o D(omi)ni MCCCL/VIII die p(ri)mo [sic] septe(m)ber

Qui mi portò Bonifacio Roero, cittadino di Asti, in onore di Nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Maria Vergine nell’anno del Signore 1358 il giorno primo settembre.

Elio Pallard in questa fotografia ha immortalato due simboli che dalla Val Susa irradiano in tutto il Piemonte, la Sacra di San Michele e il Rocciamelone. Foto pubblicata il 7 novembre 2017 nella geniale rubrica “una foto al giorno” di Laboratorio Valsusa, il sito con cui mi onoro di collaborare.
Alcuni esponenti della Società Mandolinistica Rivolese suonano ai piedi della Madonna il 5 agosto 1902 – Cartolina della collezione di Pier Giuseppe Bramante
Susa e Moncenisio Guida illustrata, Giulio Genin, Edizione anastatica della guida del 1909, 1986
Il Rocciamelone racconta, tradizioni, leggende ed escursioni, Guido Mauro Maritano, SusaLibri, 1996

Il “furto” – Il trittico rimase sul Rocciamelone, in un antro fatto scavare dallo stesso Bonifacio e mal riparato da una precaria costruzione in legno, fino al 1673 quando Giacomo Gagnor di Novaretto, uomo semplice e considerato un po’ pazzo, pensando di fare un piacere al Duca Carlo Emanuele II ed evitargli la fatica di salire in vetta, trasportò il Trittico della Vergine dal Rocciamelone fino al castello di Rivoli, dove i Savoia erano in villeggiatura. Non si sa se il “ladro” fu punito o perdonato, ma il Trittico fu esposto nella chiesa dei Padri Cappuccini di Rivoli e fu solennemente venerato con una novena di preghiere. Con un affollatissimo pellegrinaggio venne poi riaccompagnato a Susa, custodito nella chiesa di San Paolo di Susa, ora soppressa, quindi nella Cattedrale di San Giusto (Altare delle Reliquie) e infine collocato nel 2000 nel Museo Diocesano di Arte Sacra della città.

L’oggetto – Il trittico nella brossura del Museo Diocesano di Susa viene definito pleonasticamente “altarolo portatile”.  Altarolo è un diminutivo di altare, una forma comune per definire l’altare portatile. Si tratta della mensa mobile per celebrare la messa al di fuori dei luoghi di culto. Il termine altarolo è adottato comunemente, per estensione, anche per arredi di carattere devozionale a forma di edicola o di tabernacolo. È correttamente chiamato trittico perché si compone di tre parti, secondo motivi composizionali diffusi, con al centro l’effigie della Madonna con Bambino e ai lati dei Santi e il committente. Ordinandolo Bonifacio Rotario aveva già in mente il suo destino e le due lastre laterali, incernierate, possono chiudersi come sportelli, proteggere l’interno decorato e rendere più comodo il trasporto. Il punto debole erano gli ornamenti della cuspide, delle sei foglie di vite sporgenti solo una è sopravvissuta. Il trittico aperto misura  50 centimetri di lunghezza e 56 di altezza e pesa circa 7 chili. La famiglia Cavargna offrì una custodia di legno con spallacci, tipo zaino, per facilitarne il trasporto quando veniva portato in processione.

L’origine – L’autore è ignoto e gli studiosi hanno avanzato nel tempo varie ipotesi. Anticamente lo si attribuiva a Giorgio Fiorentino o a Bernardo Daddi, discepolo di Giotto; Sir Jannes Mann, Soprintendente alle Gallerie d’arte della Regina d`Inghilterra venuto a Susa appositamente per studiare l’ icona nel 1957, in un colloquio con Mons. Carlo Marra, Arcidiacono ed allora Prevosto della Cattedrale, disse che propendeva per l’arte fiamminga e aggiunse che di trittici simili l`Inghilterra ne possiede circa 5.000, le Fiandre e la Germania complessivamente 500, mentre uno ne ha la Francia ad Amiens, uno la Spagna a Siviglia, uno il Portogallo, uno la Finlandia nella Chiesa di S. Enrico di Nussis. Secondo altri studiosi, sarebbe la zona renana il centro di produzione e di diffusione – a migliaia di esemplari, appunto – dei vari trittici sparsi per l’Europa. Il che non impediva, naturalmente, che un simile genere di produzione artistica potesse venir imitato anche in altre regioni. Diverso è il giudizio della critica più moderna. Il prof. Giovanni Romano, Soprintendente per i Beni Storici ed Artistici del Piemonte – che ha studiato il Trittico in occasione della Mostra svoltasi a Torino nel 1977 – lo ritiene opera francese e, più precisamente, di un orafo parigino, basandosi specialmente sul trattamento delle figure e sugli ornati “à ramages” molto simili a quelli dei famosi arazzi di Angers e di alcune fra le più belle vetrate francesi. Quell’insigne studioso, anzi, confrontandolo con altre opere di altissimo livello nel campo della scultura e della pittura di quella nazione, non esitava ad affermare: “Di tutti gli oggetti d’arte giunti dalla Francia in Valle di Susa, questo è sicuramente il più importante”. Essendo stata documentata la presenza a Bruges, nelle Fiandre (attuale Belgio) di un Bonifacio Rotario, ricco mercante astigiano, nell’aprile 1358,  il trittico è oggi considerato “l’unico oggetto di arredo litugico conservatosi prodotto dalle botteghe fiamminghe specializzate in monumentali lastre tombali in ottone. Opera di altissima qualità e di stile fortemente innovativo, denota, oltre a profonde affinità con altre lastre coeve, rimandi all’arte di Jean Pucelle e alle vetrate normanne, alle miniature fiammighe, nonché accenti anticipatori della cultura di Jean de Bondol”. (brossura del Museo Diocesano di Susa)

La decorazione – La tavola centrale raffigura la Vergine Madre seduta su ampio trono a cassapanca, col capo cinto da un’alta corona regale e in atto di sostenere con le braccia il Bambino Gesù; questi guarda verso la Madre, cui accarezza il mento con la manina destra, mentre con la sinistra regge una piccola sfera che simboleggia il mondo. Madre e Figlio hanno il capo circondato dall’aureola.

Nell’anta collocata a sinistra di chi guarda si vede S. Giorgio a cavallo avvolto in un’armatura a maglie metalliche, la visiera dell’elmo calata sugli occhi, che con una lunga lancia trafigge nella gola il drago infernale che, riverso, è calpestato da uno zoccolo del cavallo. Meno accreditata l’ipotesi che si tratti di San Secondo, patrono di Asti, la città di Lotario, che viene raffigurato come guerriero a cavallo, ma la presenza del drago rimanda a San Giorgio.

Sull’anta di destra sta ritto un santo barbuto, coi capelli scarmigliati e aureolato – probabilmente S. Giovanni Battista, Patrono dei Cavalieri detti anticamente “di Gerusalemme” ed ora “di Malta” – che presenta alla Madonna, ponendogli le mani sulle spalle, un guerriero inginocchiato, con le mani giunte ed elevate in atto di supplica. Questo guerriero, tutto chiuso nell’armatura metallica e con la spada al fianco è sicuramente il committente Bonifacio Rotario, anche se lo stemma che dovrebbe contraddistinguerlo – tre ruote d’argento in campo rosso – già inciso sullo scudo e forse anche sull’armatura, è stato scalpellato, presumibilmente durante la Rivoluzione francese. Il nostro Cavaliere è a capo scoperto, però in alto, di fianco al volto del Santo predetto, si scorge sospeso il suo elmo. Questo, altissimo e di foggia assai curiosa, reca incisa una piccola croce (“di Malta” secondo Giuseppe Pugno), è coronato e sorregge un cimiero di interpretazione incerta (tronco con rametti mozzati, roccia con dirupi, lampada con fiammelle ?). Lo storico giavenese Gaudenzio Claretta indagando su Bonifacio lo individua come figlio di Daniele Roero e consignore di Monteu, santo Stefano e Castagneto, vivente almeno fino al 1387, quando fece testamento. Non trova notizia della sua appartenenza ai Cavalieri di Gerusalemme e dubita che la croce incisa sull’elmo possa dirsi “di Malta”. Questo potrebbe invalidare l’identificazione di San Giovanni. Qualcuno ha ipotizzato che il santo che presenta il committente possa essere San Giuseppe .

Tutto il lavoro è inciso col bulino (arte toreutica) in modo che ne risulta un bassorilievo a superficie piana (diaglifica), con solchi, in taluni punti, piuttosto larghi quasi dovessero servire per la niellatura. Il Trittico, oltre che oggetto di culto veneratissimo e di rilevante importanza storica, è un’opera d’arte insigne e preziosa, anche perché, insolitamente, è datata e unica nel suo genere in Italia. Se si tiene conto, poi, della sua precocità e della difficile lavorazione a bulino sul bronzo con cui fu eseguito, non si può non ammirarne la finezza e la fluidità dei panneggi (specialmente il manto della Madonna) e la raffinata eleganza degli arabeschi. Sufficiente la naturalezza degli atteggiamenti, meno riuscita l’espressività dei volti, delineati in modo ripetitivo.

La scritta –  In basso, corre sui tre scomparti l’iscrizione dedicatoria in minuscola gotica, disposta su due righe entro uno spazio scrittorio rettangolare e realizzata con lettere risparmiate su fondo inciso. La scritta recita:

Hic me aportav/it Bonefacius Rotarius civis Aste/nsis in honore // D(omi)ni n(ost)ri Yh(ies)u C(hristi) et / beate Marie virginis an(n)o D(omi)ni MCCCL/VIII die p(ri)mo [sic] septe(m)ber

Qui mi portò Bonifacio Roero, cittadino di Asti, in onore di Nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Maria Vergine nell’anno del Signore 1358 il giorno primo settembre.

Guido Mauro Maritano ne “Il Rocciamelone racconta” si pone un giusto interrogativo: come poteva essere certo Bonifacio Rotario, in aprile a Bruges, della data dell’ascesa su un monte che allora appariva impraticabile e che andava affrontato in condizioni meteo ottimali? La frase al passato e la difficoltà di farla stare nello spazio, che ha portato a strane abbreviazioni, fanno pensare che possa essere stata incisa in un secondo tempo, a impresa avvenuta.

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