11 dicembre: giornata della montagna … emarginata – una riflessione del “maéstru” Bruno

Una “giornata” l’ONU non la nega a nessuno e anche “la montagna” dal 2002 ha la sua ed è l’11 dicembre. La decisione venne presa nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, in occasione della quale venne adottato il protocollo per lo sviluppo sostenibile della montagna (Sustainable Mountain Development). Non so quanto l’agenda dell’ONU abbia fatto per le montagne nel mondo, per le nostre era già tardi. Dopo secoli di simbiosi, tutto spingeva il montanaro a valle. I pochi resistenti o “resilienti”, com’è di moda dire adesso, erano condannati ad una vita ai margini, ad una povera sopravvivenza senza che il loro ruolo di custodi del territorio venisse non dico apprezzato e tutelato, ma nemmeno conosciuto. I disastri come ammonimento, la crisi industriale come stimolo a rivalutare le risorse del territorio montano. Oggi qualcosa è cambiato, si guarda alla montagna con un’altra cultura e un’altra attenzione. Ma c’era chi tutto questo lo predicava da tempo e credo che una riflessione sulla montagna e sui montanari profonda e attuale l’abbia fatta Bruno Tessa, “lu maéstru” di Coazze, nell’articolo comparso in due puntate su LUNA NUOVA nel 1984. Lo ripropongo come contributo alla riflessione sulla giornata della montagna.

Vita marginale in montagna

“Il mondo dei vinti”, “Lassù gli ultimi”, “vita marginale …”, sono titoli che richiamano alla mente immagini di vita di un mondo in estinzione. E sarebbe inutile parlarne se chi lo fa non nutrisse la speranza di veder riesumare quei valori che per secoli hanno reso meno disumana la vita dei nostri antenati contadini e montanari. Vita marginale significa vivere ai margini, ai bordi, quasi fuori degli schemi di vita accettati e seguiti da tutti. Anche in Val Sangone vi è ancora qualcuno che nonostante mille difficoltà e disagi vuol continuare a vivere in montagna, rimanere legato alle tradizioni e ai valori culturali della terra, non cedere alle tentazioni di una vita certamente più facile ma forse meno umana. Pensiamo all’anziano, al pensionato che invece di riposarsi coltivano ancora e ripuliscono i loro terreni; pensiamo ai margari che d’estate salgono agli alpeggi a condurre una vita isolata e disagiata, mentre potrebbero andare a lavorare in fabbrica e godersi fine settimana e ferie; pensiamo agli operai che tutti i giorni spendono tempo e denaro per andare magari dall’Indiritto a lavorare alla Fiat e che dedicano tutto il tempo libero alla cura della terra, solo per il gusto di tenerla in ordine, non sicuramente per lo scarso guadagno che ne ricavano; pensiamo ad alcuni giovani che si sono rifiutati di cercare occupazione lontano da casa per non tradire la vocazione che avevano di coltivare la terra o allevare gli animali; pensiamo a tutti quelli che per poter vivere hanno accettato un lavoro più redditizio, ma che dedicano grana parte del tempo libero alla cura della terra. Il lavoro del contadino, la vita di sacrificio dei montanari sono considerati valori negativi dall’attuale società, perché sono in contrasto con i principi su cui si basa, che sono l’incremento senza fine dei beni materiali e la progressiva eliminazione della fatica fisica. La civiltà industriale comporta l’imposizione, come valore primario, della crescita, che va a sostituire progressivamente il valore dell’equilibrio, insito nella civiltà contadina. Poiché l’equilibrio è proprio della natura, mentre la crescita permanente è incompatibile con essa, la civiltà industriale implica la distruzione e l’alterazione della natura stessa. Ecco perché non si vuole intervenire per salvare i valori della civiltà contadina, che con la natura ha sempre dovuto fare i conti e usar rispetto, perché i fautori dell’industrializzazione a oltranza vedrebbero minacciati i loro programmi. Negli anni ’50, prima della scelta industriale, nonostante le gravi difficoltà economiche del dopoguerra, in montagna venivano finanziati acquedotti, opere viarie e di elettrificazione, mentre dopo tale scelta, i finanziamenti divennero sempre più scarsi. Nella testa della gente era penetrata l’idea che la montagna doveva arrivare allo spopolamento completo, perché la vita era troppo disagiata e le risorse eccessivamente scarse e chi eventualmente si fosse ostinato a voler continuare a vivere in montagna bisognava lasciarlo isolato, abbandonarlo a se stesso. Ricordo che negli anni ’60, conversando con qualche compaesano del capoluogo, quando facevo presente la nostra situazione di disagio per la mancanza della strada carrozzabile, mi sentivo quasi sempre rispondere “Ma cosa volete farne delle strade, tanto lassù non c’è più nessuno”. Ecco la risposta, noi montanari eravamo nessuno, una strada che avrebbe toccato 4 borgate ancora abitate stabilmente da circa 40 persone non sarebbe servita a “nessuno”. Ed anche oggi se fai presente che non hai la luce elettrica in casa mentre in paese spendono decine di milioni per illuminare le strade, ti guardano come se fossi arrivato dalla luna e cambiano discorso, perché magari si sono battuti per ottenere dal Comune una lampadina pubblica davanti alla porta di casa. Agli interventi per le opere pubbliche in montagna negli anni ’60 e ’70 sono arrivate le briciole dei finanziamenti. Del resto la realtà dello spopolamento, in quegli anni sempre più massiccio, non poteva consigliare scelte diverse. Di quanto fossero sbagliate ce ne accorgiamo adesso che la spinta industriale sembra esaurita e che la montagna abbandonata presenta i suoi conti.

LUNA NUOVA n.22 del 24 novembre 1984, articolo di Bruno Tessa, 1a parte
Bruno Tessa con Didon sale alla Balma, fotografia degli Anni 80, di Anna Guglielmino
Fienagione in montagna. L’erba tagliata con la falce (dài), sparsa (spancià) ad essicare e poi ammucchiata (ańmaceirunà), viene imballata ormai secca nei purtùr o nei trapùń e portata a spalle nel fienile (téc), dove servirà da nutrimento alle bestie durante l’inverno.

Dai dati dei censimenti risulta che il calo più massiccio di popolazione montana è avvenuto tra il 1951 e il 1961, in quel periodo, ad esempio, Coazze è passata da 3480 a 2896 abitanti con una perdita di 584 persone (-17%) e Valgioie da 631 a 448 abitanti con un calo di 183 persone (-29%). Lo spopolamento della montagna non è avvenuto a caso, ma è stato voluto. Infatti in quegli anni il governo si vantava della notevole riduzione dell’occupazione in agricoltura e del contrapposto aumento nell’industria. Interventi .per aiutare l’agricoltura non ne sono stati fatti; anzi ricordo che un’imballatrice per fieno, che in confronto ad un’automobile è ben poca cosa, costava 3 o 4 volte il prezzo d’un’utilitaria e anche la FIAT vendeva i trattori all’estero a metà prezzo rispetto a quelli che acquistavano i contadini italiani. Contributi per la meccanizzazione agricola in montagna non ne arrivavano anche se c’era il “piano verde”. Una seria programmazione ed un idoneo dosaggio di interventi pubblici avrebbero potuto rendere più dignitosa e meno dura la vita in montagna e frenare lo spopolamento, ma, come ho già detto prima, si era deciso diversamente. Per rendersi conto dei veri motivi per cui si è abbandonata la montagna bisogna rifarsi alla situazione precedente. All’inizio del secolo le industrie sorte nel fondovalle per l’opportunità di sfruttare la forza idrica del Sangone davano occupazione ad un certo numero di operai che convivevano con la famiglia contadina e davano una mano almeno nei momenti di maggior lavoro. Inoltre le industrie chiudevano quando vi era scarsità d’acqua. Fin nell’immediato dopoguerra la paga giornaliera di un operaio equivaleva al costo di un miriagrammo di pane o di un kg. di burro o di 10 litri di vino. Facciamo i confronti con oggi [1984]: paga giornaliera di un operaio L. 35.000 – 22 kg. di pane, 5 kg. Di burro, 30 litri di vino. Si capisce da questi dati che il reddito dei contadini è fortemente diminuito. Ritengo però che ciò che ha indotto i contadini a cercare lavoro in fabbrica sia stata la mancanza delle assicurazioni sociali (mutua, pensione, che solo nel 1955 sono state estese agli agricoltori in forma molto ridotta). Inoltre anche la prospettiva di una paga sicura, contrapposta al rischio dell’attività agricola attirava i contadini in fabbrica. Molti se ne sono andati dalla montagna veramente a malincuore, ricordo il dolore dei familiari degli ultimi alunni della scuola dell’Indiritto quando nel 1968 ho dovuto comunicare che la scuola veniva chiusa. La temuta notizia li obbligava, per poter mandare i figli a scuola, ad andarsene a valle. L’attaccamento alla montagna, la nostalgia della propria terra adesso si stanno risvegliando anche in chi da diversi anni se ne è andato. Infatti molti ristrutturano le loro vecchie case per trascorrervi almeno qualche giorno di riposo e la gente, sempre più numerosa, partecipa alle tradizionali feste delle cappelle alpine. Negli anni del cosiddetto boom economico pochissimi partecipavano a queste feste. Ricordo che nel 1965 alla festa di S. Antonio al Col Bione eravamo in due e negli anni vicini si arrivava a 10 o 15. Ora molti si stanno rendendo conto che il miracolo economico ha anche le sue conseguenze negative e che occorre cercarvi rimedio. L’acqua dei fiumi in piena che devasta le pianure è quell’acqua non regimentata  in montagna dai montanari che svolgevano gratuitamente questo lavoro di regolazione e che ora se ne sono andati. Costerà migliaia di miliardi, se mai si riuscirà a tentarlo, il recupero del dissesto idrogeologico della montagna abbandonata dall’uomo. La montagna, non povera ma depredata delle sue risorse, disastrata perché ha perso con la presenza umana un punto di equilibrio, sta presentando i conti. In molti se ne stanno accorgendo tra di essi si leva autorevole la voce di Nuto Revelli:  “Abbiamo buttato via cosi un bagaglio immenso di esperienze, cultura, specializzazione solo per fornire manovali all’industria. Un’economia che non è attenta a conservare questi valori umani non può che essere un’economia fallimentare. Chi ragiona in termini di efficienza capitalistica, non dovrebbe dimenticarlo mai. Stiamo attenti: perché quel mondo dei vinti che in questa maniera abbiamo creato è il nostro mondo. I vinti siamo alla fine noi tutti”.

Bruno Tessa

LUNA NUOVA n24 22 dicembre 1984 articolo di Bruno Tessa, 2a parte
Bruno Tessa scriveva e scrive ancora rigorosamente a mano, ho conservato il manoscritto del suo articolo, che avevo trascritto per Luna Nuova.

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