Verso l’8 marzo – Un parto tragico da “L’anello forte” di Nuto Revelli

Ho avuto la fortuna di conoscere Nuto  Revelli, di stringergli la mano, di sentirlo parlare quando è venuto, tanti anni fa, al Pascal. Avevo letto i suoi libri, i primi che davano voce diretta ai contadini, ai montanari, alle donne della montagna e della campagna, ai vinti travolti dal boom industriale. Sentinelle di una guerra persa nelle borgate spopolate e nelle terre aggredite dall’incolto. Ho visto un uomo forte e determinato, un alpino partito fiducioso per la Russia e tornato consapevole del disastro. Partigiano dopo l’8 settembre, ha dedicato il tempo della pace a testimoniare. Prima la vicenda biografica e bellica e poi la nuova guerra che si stava combattendo tra l’industria affamata di manodopera e un mondo rurale che perdeva il suo sapere e la sua identità. Una sua osservazione che mi ha profondamente colpito era questa. In montagna c’erano persone portatrici di una cultura secolare, custodi di un territorio difficile, capaci di essere contemporaneamente muratori, carpentieri, idraulici oltre che contadini, capaci di erigere capolavori di pietra come i muretti a secco che sorreggevano la preziosa terra, di portare l’acqua dove non c’era con  chilometri di canali con la giusta pendenza. Queste persone diventavano operai generici negli stabilimenti cittadini, pedine senza tutele e sacrificabili nella ciclicità della produzione capitalistica. E perdevano e quasi disprezzavano la loro cultura, il loro dialetto, le loro abilità. Ecco perché Nuto Revelli ha scelto di stare con la parte perdente, di darle voce. Centinaia di interviste ai “vinti”, colti nel loro mondo di povertà, di fatica, di dignitosa resistenza. Dopo “Il mondo dei vinti”, uscito in 2 volumi da Einaudi nel 1977, rivolge l’attenzione alle “vinte” e nel 1985 esce, sempre per Einaudi “L’anello forte”. Conservo con cura la copia che mi ha autografato. Credo sia uno dei più bei titoli dati a un libro. Rovescia il luogo comune del “sesso debole” e cerca di rendere merito e giustizia alle donne, che nel mondo contadino, dietro a un’immagine subalterna hanno sempre manifestato una forza tenace e resistente. Oltre a condividere gran parte della fatica degli uomini, hanno gestito le faccende domestiche e messo al mondo, allevato e nutrito nidiate di figli. Il libro è focalizzato sul Cuneese, ma la vita non era poi molto diversa nelle nostre vallate. Una vita dura di fatica e di miseria per gli uomini, ma ancor più per le donne.

Riporto la testimonianza di un parto tragico in cui riecheggiano le parole della levatrice coazzese Virginia.

Nuto Revelli è stato ospite dell”Istituto Blaise Pascal di Giaveno nel 1998. Ritaglio di stampa tratto da LUNA NUOVA del 12 maggio 1998.
Il secondo libro di testimonianze di vita contadina Nuto Revelli l’ha dedicato alle donne, raccogliendovi oltre un centinaio di interviste.

Mi sono rotta quattro denti

Margherita, 1898, intervistata nel 1980

Mia mamma andava in Francia a fare la nunù, la bàila. Come aveva un figlio lo lasciava qui alle nonne. qui ne andavano tante in Francia a fare la nunú. Qui avevamo anche solo delle miserie. […].  Io avevo poi già vent’anni, ‘ste donne compravano tutte in casa, e mia mamma mi dice: “Vieni con me, andiamo da Anìn che è qui sotto, le hanno portato un bel fièt”. Entriamo nella stalla, ‘sta povera donna era coricata sulla paglia accanto aveva il bambino con una testa lunga lunga, e c’era una vicina di casa che spingeva, che premeva la testa del bambino con uno straccio. Io ho detto a mia mamma “Ohimi, che testa lunga che ha”. “E ben, l’hanno trovato sotto un mucchio di fascine, l’hanno dovuto tirare per la testa. Ma premendo con lo straccio piano piano viene normale”. Io mi chiedevo: “Ma perché si coricano ‘ste donne quando le portano un figlio?” Ma non osavo parlarne. […] E quando mi sono sposata? Eh, ieru fola. Glielo giuro  in confessione neh, il mio uomo è qui che ascolta, non sapevo che cos’era un uomo, ecco. Dopo dieci giorni non avevamo ancora fatto niente. Lui era brusco, ed io cosa ne potevo… È che proprio non riuscivo. Sono andata da mia mamma, e piangevo, piangevo: “Mi vun via, mi me scapu”. E lei mi ha detto: “Cosa vuoi farci? Devi avere pazienza, tanta pazienza”. Mi sono sposata, e non sapevo che le donne dovevano avere i bambini, credevo che li trovassero. È così. Poi sono andata da una mia vicina di casa, da un’amica, che mi ha detto: “Oh, lu diau a l’é pöi pa brüt cuma lu ƒan” (il diavolo non è brutto come lo fanno) e non ha aggiunto altro. […]. Ed il primo parto? Avevo lavorato fin che avevo sentito i dolori, avevo tanta paura. Oh per carità, sentivo che sarebbe andato male. Ero coricata sulla paglia, con il lenzuolo delle vacche sotto, ieru süita pei den buch (ero asciutta come un caprone), soffrivo tanto, come facevo ad avere il bambino? Imploravo: “Andate a prendere una levatrice…” E la suocera che mi ripeteva: “Io ho sempre fatto tutto da sola e ne ho comprati quindici”. Hanno poi appeso una barra ad una corda: “Ciapte a la bara”, urlava la suocera. A forza di aggrapparmi alla barra mi sono rotta quattro denti e l’anello d’oro da sposa. Eh, era così. Mi hanno lasciata gridare tre giorni e tre notti. E poi la bambina è nata morta, asfissiata.

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