Maggio 1944 – sangue e macerie in Val Sangone

All’alba del 10 maggio 1944 la Val Sangone viene investita da un’offensiva nazifascista di proporzioni mai viste prima. Le truppe del generale Hansen attaccano in forze dalle valli di Susa,  Chisone e dal fondovalle. Si tratta di circa tremila uomini che occupano militarmente la valle. Ci sono anche  quattro compagnie di Alpenjager, soldati addestrati alla guerra in alta quota, che scendendo dal colle della Roussa sorprendono gli uomini di Sergio De Vitis e di Giulio Nicoletta, i primi nell’alpeggio del Sellery inferiore, i secondi nella Palazzina Sertorio. La banda De Vitis viene decimata, quella Nicoletta riesce a sganciarsi senza gravi perdite. Duri scontri avvengono anche al Col Bione, nell’alta valle dell’Indiritto ed al Pontetto, sopra Maddalena. Per qualche giorno gli occupanti sono impegnati a colpire i partigiani sui monti.  Le bande partigiane, carenti di mezzi ed ancora poco organizzate e coordinate, pur reagendo strenuamente, sono costrette in parte a disperdersi, in parte a rifugiarsi nelle zone più impervie dell’alta valle, ai Picchi del Pagliaio e al colle dell’Asino.

Nel sito dedicato alla Resistenza in Val Sangone http://valsangoneluoghimemoria.altervista.org/

l’articolo: 1944 – 10 maggio: rastrellamento e rappresaglie ricostruisce dettagliatamente le varie fasi del rastrellamento e nel filmato il comandante Giulio Nicoletta racconta lo scontro di Villa Sertorio.

Nei municipi di Coazze e di Giaveno i comandi tedeschi stabiliscono dei centri di raccolta dove vengono radunati tutti i fermati: partigiani, civili sospettati di complicità, uomini in età di leva, presunte staffette si ammassano in attesa di essere interrogati. I fermi sono per lo più casuali: l’intera popolazione di una borgata (è il caso del Forno), valligiani sorpresi dalle pattuglie mentre cercano di nascondersi, civili inquisiti per una qualunque espressione sospetta ai rastrellatori. Repressione e intimidazione non risparmiano le autorità costituite (la caserma dei carabinieri di Giaveno viene perquisita, il maresciallo Santoro fermato, lo stesso podestà Zanolli minacciato) e neppure il clero: don Mattone, parroco di Forno, viene arrestato, don Crosetto, parroco di Giaveno, schiaffeggiato.

 L’arbitrio dei militari viene stimolato dai comandi, che intendono colpire tanto il movimento partigiano quanto la vallata che lo appoggia. Arresti, incendi di abitazioni, furti, percosse fanno parte di una stessa logica del terrore, casuale nell’individuazione delle vittime ma mirata nell’obiettivo generale. E in questa logica s’inserisce l’ultima barbarie: il 16 maggio 23 partigiani vengono portati a Forno, mitragliati alle gambe e lasciati morire nella Fossa Comune. Fucilazioni di partigiani e di civili erano già state fatte durante il rastrellamento: cinque presso Garida, sulla mulattiera che da Forno sale al colle della Russa, altre quattro alla Balma (i cadaveri sarebbero stati scoperti solo in luglio), due a Giaveno. 

1997 – Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, dopo aver conferito la medaglia d’argento a Giaveno, sale a Forno per visitare l’Ossario e la Fossa Comune.

Il 18 maggio i rastrellatori abbandonavano la Val Sangone: in una settimana hanno ucciso un centinaio di partigiani e diciotto civili, catturato e deportato in Germania oltre cinquanta uomini, incendiato due paesi interi (Pontetto e Ferria) e numerose case in ogni frazione. Due giorni dopo l’attentato della Buonaria li farà tornare per scatenare un’altra sanguinosa rappresaglia.

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