La popolazione e l’ambiente

Cap. 2° – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Si concimano i prati spargendo a mano il letame, sullo sfondo la chiesa del Marone e l’alta valle del Sangonetto, foto di Bruno Gallardi, tratta da “Coazze ognuno a suo modo”.

1) L’AMBIENTE

Gli abitanti della Valsangone, come tutti i contadini montanari, erano indaffarati nei boschi, nei prati, nelle stalle, nei campetti magri sulla montagna e in quelli un po’ più fertili del fondovalle.

Più in alto erano i campi, più dura era la fatica.

Le difficoltà del lavoro aumentavano infatti passando dalla conca di Giaveno alle borgate via via più alte, dove la gente viveva disagi che neppure immaginiamo. Mancava tutto: l’acqua in casa, la luce elettrica, il telefono, la radio, la lavatrice, la falciatrice, la motosega e via dicendo. E si camminava sui sentieri.

Tutti i lavori erano fatti a forza di braccia, spalle, gambe, aiutati da strumenti semplici come le zappe, le falci, i rastrelli e le gerle, dette “garbìń”, simbolo della fatica e della pazienza dei montanari.

pag. 24 – La gerla, “garbìń, in patuà”, simbolo della fatica montanara. Elio Ruffino ha fotografato il proprio padre di ritorno dal mercato il giorno del suo 73° compleanno il 9 settembre 1982. Stava arrivando al Ciargiùr del Forno (Préʃe d’Giuà) dove si trasferiva con la famiglia d’estate. È stata l’ultima stagione, è mancato nel febbraio successivo e la famiglia ha smesso di monticare alle Préʃe d’Giuà.
I muretti a secco, indispensabili contenimenti dei ripidi pendii montani, erano uno dei manufatti più diffusi. Perfetti per trattenere la terra e drenare le acque, sono ancora in gran parte integri, nonostante il lungo abbandono. Foto scattata da me lungo la mulattiera che da Tonda sale a Pian Gorai.

Il terreno coltivato era arido, ripido, conteso ai rovi e agli arbusti. Eppure i fianchi della montagna erano tutti coltivati; i rettangoli verdi e gialli in tante sfumature erano uno spettacolo! L’erba dei prati era tagliata al tempo giusto; il grano, la segale e le patate erano seminate e raccolte con grande attenzione.

La lotta per i raccolti cominciava in primavera e, in autunno, molto prima delle semine. La prima fatica era riportare in cima al campo la terra che le piogge e il disgelo avevano trascinato in fondo. Allora il contadino riempiva la gerla e poi con fatica riportava in alto la terra scivolata a valle. Infinite volte. E la gerla pesava e scorticava le spalle.

E costruiva muretti a secco (senza calce o cemento) con sassi e pietre, portati magari da lontano e poi incastrati uno sull’altro. Oggi, dopo decenni di abbandono, sono ancora visibili questi muretti e quelli che segnavano i confini delle proprietà, semisepolti sotto la vegetazione disordinata.

Altro grande nemico dei raccolti era la siccità che rendeva gialli e stopposi i prati e i campi… Come portare un filo d’acqua sui versanti che bruciavano al sole d’estate? I montanari prendevano la zappa, tracciavano dei rigagnoli non più grandi di un solco (le “bilìre”) per catturare in alto l’acqua di un torrentello, di una sorgente o di un acquitrino e convogliarla verso i prati e gli orti. Questa preziosa acqua andava controllata. Quando pioveva troppo, le piccole bealere venivano chiuse agli sbocchi nei prati con delle pietre piatte per rimandare l’acqua nel torrente. Quando invece si scatenava un temporale, si vedeva il contadino con un sacco sulla testa, sfidare i fulmini e armeggiare con la zappa nei punti da cui poteva staccarsi una frana. La manutenzione preservava la montagna. Se una pietra si staccava da un muretto, se una zolla veniva via, se una talpa aveva fatto un buco che inghiottiva il filo d’acqua della “bilìri”, se questa si intasava e invadeva il sentiero, egli era lì, con i suoi semplici attrezzi, a rimediare.

A Coazze e a Giaveno si facevano le cose in grande. Le bealere erano canali in cui l’acqua affluiva abbondante, veloce e veniva portata dal Sangone o dal Sangonetto a grande distanza. E c’erano regole precise circa i tempi e l’uso dell’acqua. C’erano, inoltre, i canali che fornivano l’acqua alle industrie.

La Valsangone si divideva in due parti: quella al di sotto della bealera, considerata ricca e quella, assetata e povera, al di sopra.

Nonostante il sistema ingegnoso dei canaletti, d’estate rimanevano ampie zone di montagna senz’acqua per le persone, le bestie, i campi. La gente era costretta ad attingere l’acqua da bere a sorgenti lontane, a lavare i panni in un torrente scomodo.

La siccità diventava una vera calamità. Il raccolto del fieno per l’inverno era poca cosa, mancava l’erba per le mucche che mangiavano avidamente le foglie degli alberi, ad esempio quelle dei frassini e delle querce.

Le stesse penurie nelle estati troppo piovose: l’erba marciva nei prati; la segale e il grano marcivano nei campi. In entrambi i casi qualche contadino doveva vendere i capi di bestiame che erano indispensabili per vivere. Altri affidavano una mucca o due “in pensione” a un pastore che aveva una baita o un alpeggio, benedetto da una grossa sorgente o da un rio che non si inaridiva. Si diceva “duné a l’erba”. D’inverno si portava una mucca a un contadino del fondovalle fornito di fieno. Si diceva: “dunè a l’invèrn”.

Le entrate del contadino costretto a dare “in pensione” le mucche diminuivano ancora e, con i bilanci ridotti all’osso, bisognava tirare avanti.

Dalle autorità, dallo Stato non arrivava mai un aiuto nelle necessità crude e ben visibili. Puntuale arrivava invece la guardia con le “biёtte” delle tasse governative e comunali. Puntuale anche la cartolina precetto dei giovani di leva. Inoltre solo gli operai avevano la mutua. Gratis era invece il controllo delle mamme e dei neonati effettuato dal medico condotto, per conto dell’Opera Maternità e Infanzia al tempo del fascismo; i contadini per le malattie e l’ospedale si affidavano “alla varda di Dio”. L’unico servizio gratis per tutti era la scuola elementare.

Interessante questa cartella delle tasse del 1939, si noti come i terreni agricoli valgano molto più dei fabbricati e come siano sottoposti a una doppia tassazione, di proprietà e di rendita. Erano obbligatori i contributi ai “sindacati”, che in realtà il fascismo aveva sostituito con le corporazioni, ed era prevista la tassa sul celibato, con cui il regime tentava di incrementare le nascite.

2) I TRASPORTI

Come per il lavoro, i trasporti funzionavano prevalentemente a forza di braccia, spalle e testa, intesa non solo come cervello, ma come scatola cranica, vera base d’appoggio. Infatti si portavano sulla testa i carichi di fieno, le lenzuolate di erba (“fiurrà”), le fascine (“feisinè”). Sulle spalle i grossi pezzi di legno, le scale a pioli, i sacchi di cereali o di farina bianca e gialla (granoturco detto méliga). Sulle spalle e sulla schiena quasi tutto, mediante la gerla (“lu garbìń”), sintesi di ogni sudore e pena. Il montanaro non poteva farne a meno.

pag. 24 – L’asinella Gigliola era un prezioso aiuto per il papà della bisnonna.
pag. 24 – Armando Allais i trasporti li faceva di mestiere (foto fornita da Floria Allais)

Le difficoltà dei trasporti erano grandi. Quando un montanaro acquistava un sacco di farina da un quintale (prima e subito dopo la guerra) ingaggiava un carrettiere che glielo trasportava fin dove arrivava la strada sterrata (di terra battuta o asfaltata). Da questo “terminal” l’interessato se lo caricava sulle spalle. Piano piano, curvo sotto il peso, saliva sul sentiero ripido. Ogni tanto riprendeva fiato. Appoggiava il sacco su una pietra piatta o un muretto (“l’arpò∫a”), si dissetava a una sorgente o al torrente, si bagnava la faccia sudata. Se passava qualcuno scambiava due chiacchiere mentre si accendeva il sigaro o la pipa. Intanto guardava in alto, ai prati della sua borgata. Sembravano irraggiungibili! Non si doveva arrendere alla fatica! Lassù avevano bisogno della farina.

E il prezioso sacco riprendeva a salire, spariva nelle piccole valli e ricompariva più in alto… fino a casa. Pochissimi tenevano un mulo o un asino per il trasporto di materiali, pochi potevano permetterselo perché teneva il posto di una mucca e non offriva alcuna rendita.

Per i trasporti pesanti la protagonista era la slitta, usata in discesa, soprattutto d’inverno, con la neve. I borghigiani, che fienavano l’erba dei prati intorno alle baite alte, aspettavano la neve per far scendere i ‘trapun’ di fieno fino alle borgate.

Immagini tratte dal libro Coazze … ognuno a suo modo, di Guido Ostorero, Edizioni Edinfolio, 1980

Altrettanto facevano i boscaioli con la legna. Se le piante però si trovavano in un valloncello, era massacrante far rotolare all’insù i tronchi fino alla mulattiera a forza di braccia e pali, senza la gru. La discesa con la slitta qualcuno può pensarla poco faticosa. E invece…

Legata la legna sulla slitta, con una corda che la fissava saldamente sui “bënch” utilizzando due bastoni detti “turtùr”, il conducente prendeva la corda attaccata alla slitta (“la tirëtta”), se la passava sulla spalla e cominciava a tirare. La slitta si muoveva un poco. Egli tirava un po’ di più, ma subito doveva puntare i piedi e frenare per non essere travolto dal carico pesante. Poi ricominciava a tirare. Se la discesa era ripida doveva bilanciare attentamente la frenata. Se doveva attraversare un tratto pianeggiante doveva tirare a tutta forza col fiatone. Le curve del sentiero erano sempre un’incognita: non erano ammessi errori di traiettoria, se no si finiva nel burrone. I piedi del conducente potevano scivolare sulle croste di ghiaccio, sulla neve o sul terreno argilloso e allora la slitta, incontrollata, gli piombava addosso come un carro armato. Il conducente, inoltre, non poteva fermarsi quando si sentiva stanco, ma solo nei punti pianeggianti, e spesso doveva percorrere chilometri.

Arrivato a destinazione doveva scaricare la legna e disporla nella catasta (“të∫èi”) in modo ordinato o portare i fasci di fieno nel fienile, “sü lu tëppu”. E la legna e il fieno pesavano: il più delle volte doveva fare più di un giro e allora, sistemato il carico, si rimetteva la slitta vuota sulle spalle e tornava ad inerpicarsi sulla montagna per ricominciare da capo. Alla sera sentiva dolore in tutto il corpo e quando, finalmente, si stendeva sul letto, non poteva neanche rigirarsi e dormire in pace.

pag. 24 – Il mulo era preziosissimo per i trasporti in montagna. Dove non arrivavano le strade carraie arrivavano appunto le mulattiere.

3) IL MERCATO

Gli abitanti della Valsangone erano grandi camminatori.

Al venerdì c’era il mercato a Coazze e il sabato quello più importante a Giaveno. I montanari al mattino presto riempivano la gerla con i prodotti della loro terra (castagne, patate, funghi, mele, burro e tume) secondo la stagione e si incamminavano sui sentieri in equilibrio precario. Dopo una o due ore di cammino raggiungevano la strada e di lì, per arrivare a Giaveno, impiegavano più di un’ora. Sempre impacciati dal peso della gerla che scorticava loro le spalle e il fondoschiena, finalmente sbucavano in piazza Molines.

Il mercato si teneva in diverse piazzette. Ad esempio in piazza Sant’Antero si vendevano le tume e il burro; sotto l’Ala Vecchia (piazza Mautino) la frutta e la verdura; in piazza San Lorenzo le stoffe, le scarpe, l’abbigliamento.

pag. 26 – Ogni paese aveva “l’ala”, il mercato coperto, molte sono state abbattute. Come quella di Coazze, che sorgeva in Piazza Umberto I (ora piazza Gramsci). (Collezione cartoline d’epoca Carlo Giacone)
pag. 26 – Anche l’ala di Giaveno, che sorgeva in Piazza Santa Cecilia (ora piazza Molines), è stata abbattuta e sostituita da una struttura moderna, che copre Piazza Mautino. (Collezione cartoline d’epoca Carlo Giacone)

Arrivati in piazza, tra le sette e le otto del mattino (anche d’inverno!) i borghigiani tiravano fuori dalla gerla le loro ceste (“l’cavàgne”) e aspettavano i clienti, magari per ore, sotto il sole o la pioggia, con un pensiero fisso: che fare se non si vendeva tutto?

I contadini coazzesi qualche volta portavano a spalle la loro merce fino al paese, alla borgata Villaretto o a Sangonetto; poi “Mulìri” o “Micéu” trasportavano sacchi e ceste fino a Giaveno con il carro.

Immaginiamo che i montanari abbiano venduto tutto. Allora si trasformavano in compratori delle cose strettamente necessarie: un pezzo di stoffa, un paio di pantaloni da fatica, una falce, un tridente, un chilo di sale e uno di zucchero (a volte solo un mezzo chilo) impacchettato in una carta azzurra, un litro di olio per l’insalata, e un litro di petrolio per il lume (i petrolieri non si ingrassavano con i lumini della Valsangone!)

Se nella borgata non c’era il forno si acquistava qualche chilo di pane. Non il pane pizza o i bocconcini che non c’erano e non si sarebbero comunque conservati, ma grosse micche. A volte si aggiungeva una manciata di grissini per i bimbi a casa, che avrebbero fatto salti di gioia per quella inaspettata goloseria.

Pag. 27 – Quasi tutte le borgate avevano un forno comune (fotografia di Bartolomeo Vanzetti), poi si diffusero le panetterie.
pag. 27 – Umberto Boero fuma la pipa davanti alla sua bottega di Via Matteotti a Coazze. (foto fornita da Ferdinando Ostorero)
pag. 27 – Giuseppe Ostorero sforna il pane in Via Cavour (foto fornita da Ferdinanzo Ostorero)
pag. 27 – Oscar Guglielmino con la figlia Lauretta davanti al forno di via Matteotti.
pag. 27 – La panetteria di Beniamino Ostorero (primo in piedi a sinistra) in Borgata Sangonetto.

Quando la festa della borgata era vicina, si compravano anche uno o due fiaschi di vino. I contadini un briciolino più ricchi, ordinavano una damigiana (54 litri) che sarebbe arrivata in alto con lo stesso procedimento del sacco di farina e una preoccupazione in più: poteva rompersi e allora “guai, guai a mai!”.

Tutto questo accadeva prima e dopo la guerra. Durante il conflitto i viveri e le stoffe erano tesserate, sui banchi del mercato non c’era quasi più niente. Una micca di pane veniva sognata a occhi aperti e chiusi.

Ai tempi della bisnonna bambina il mercato era più importante di adesso, non solo per comperare e vendere, per gli incontri con i parenti e gli amici che abitavano lontano, a ore di cammino. Augusto Monti, lo scrittore, che amava la borgata Cordrìa e tutta la vallata del Romarolo, racconta che due sorelle abitavano, da sposate, una al di qua e l’altra al di là del torrente che scorre in una profonda gola. Si sentivano quando chiamavano i bambini, ma per farsi visita ci voleva “una mezza giornata con il fiato lungo e i garretti di ferro.” (Monti Augusto, Val d’Armirolo ultimo amore, Araba Fenice, 2000, pag. 10)

Comunicare era difficile. In montagna le notizie camminavano con il passo dei montanari. Non c’erano altri sistemi tranne quello della corrispondenza postale se c’era proprio bisogno. Anche il postino doveva avere buone gambe. E così le conversazioni al mercato sostituivano le telefonate, le e-mail, gli SMS, i telegiornali. Tutte cose di là da venire e neppure immaginabili.

Esaurite le commissioni, la gente della montagna riponeva gli acquisti nella gerla, se la infilava sulle spalle e prendeva la via del ritorno, questa volta in salita. Le distanze si misuravano in ore e minuti di cammino. Per rendersi conto, basta prendere una cartina, cercare Giaveno, Coazze e poi la Maddalena, Forno e Indiritto e di qui scovare le borgate alte e le “prese” (le baite estive) che punteggiano tutto l’arco alpino dalla Maddalena alla Braida.

D’estate non c’era la sofferenza del freddo, del ghiaccio sui sentieri scivolosi, ma l’afa, il sudore e un tratto di strada supplementare per raggiungere le “préʃe”. Ora quelle baite sono diroccate, abbandonate, ma sono lì a dimostrare la caparbietà dei nostri antenati nel ricavare le risorse per vivere anche dai luoghi più disagiati. Ragazzi, tanto per farvi un’idea, immaginate una “passeggiata” a piedi (andata e ritorno) da piazza Molines a Pian Neiretto, non per sport, ma per necessità, carichi come somari!

Ma torniamo ancora al mercato di Giaveno. Prima del faticoso ritorno, se i montanari avevano qualche soldo da spendere, si concedevano uno spuntino all’osteria. La tentazione del pane fresco col salame e un bicchiere di vino era grande. Quella delle acciughe al verde era irresistibile. Se poi sentivano il profumo della minestra di fagioli al forno, loro che vivevano di latte e tuma, non potevano resistere. Per questo motivo sulle strade che uscivano da Giaveno, alla Buffa, a Pontepietra, alla Maddalena, a Sangonetto di Coazze c’erano le osterie, veri posti di ristoro, che aspettavano con impazienza i reduci dal mercato.

I più poveri non potevano permettersi nemmeno questa soddisfazione. Sbocconcellavano un po’ di pane alla “ripòʃa” o addirittura camminando, per non perdere tempo, per risparmiare i centesimi.

Ai ragazzi del Duemila, cullati sui sedili morbidi delle auto, non sembrerà vero quanto fossero camminatori infaticabili i nostri avi della Valsangone! Essi raggiungevano a piedi i paesi della pianura: Trana, Bruino, Villarbasse, Rivoli, Orbassano ecc…; della Valsusa: Vaie, Bussoleno, Susa; della Valchisone: Pinerolo, Perosa, Pragelato. Conoscevano tutte le scorciatoie e i valichi della montagna. Gli emigranti, sempre a piedi e, spesso senza documenti, andavano in Francia attraverso il Monginevro, il Moncenisio e altri colli meno conosciuti. Ragazzi del Duemila, se volete fare esperienze indimenticabili se non le avete già fatte, potere cominciare a salire i colli più facili: il Colle del Besso, il Colle Bione per tentare dopo il Colle della Russa e quello del Vento. E poi le cime: l’Aquila, il Robinet… Vi aspettano panorami mozzafiato, commoventi tracce dei nostri antenati, indispensabili per capire il presente e costruire l’avvenire. Non ve ne pentirete.

pag. 29 – Una delle tante osterie di Coazze. In un mondo di lavoro e fatica erano una delle poche occasioni di svago, per gli uomini. Per le donne neanche quello, era disdicevole frequentarle. (Collezione cartoline d’epoca Carlo Giacone)

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