Le montagne: i pilastri e le pareti della valle

Cap. 1° – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

La Valsangone non assomiglia alla maggior parte delle vallate alpine che sono lunghe attraversate da un corso d’acqua, più o meno incassato tra due catene parallele di monti. Essa è abbracciata da ogni lato dalle montagne, distese intorno come per proteggerla.

Per i coetanei della bisnonna andava da Trana al Robinet, dall’Aquila a Valgioie: Km² 145,7, una briciola in Italia, la cui superficie supera i 300.000 Km². È una conca ampia e corta che si dirama in vallette secondarie incuneate tra le catene principali, a pochi kilometri da Torino.

È situata tra la Valsusa e la Val Chisone come un imprevisto, come un mondo a parte, aperto tuttavia agli scambi con le vallate sorelle, fin dai tempi passati attraverso i valichi alpini (a piedi).

La valle ha la sua vena d’acqua: il Sangone che scorre quasi nascosto nel fondo valle. Ciò che appare agli occhi venendo da Torino o da Avigliana è la corona di montagne che circonda la valle, senza toglierle il sole.[1] La bisnonna bambina un giorno d’estate è salita con il nonno sulla lunga cresta che separa la valle del Sangone da quella di Susa e che, a Coazze chiamano la “simë”, la Cima.

Bassa Val Susa e Val Sangone, viste dal Monte Salancia. Foto di Bartolomeo Vanzetti (21 settembre 2021)

Mentre salivano tra prati e boschi e poi tra le “drò∫e” (ontani di montagna che crescono a cespuglio), ogni tanto si voltavano a guardare il fondovalle con i paesi e tante case sparse. Ma com’erano in basso! Le montagne, invece erano grandi e vicine.

Il nonno le diceva i nomi dei monti e delle borgate, dei fiori e delle piante che rallegravano quel mattino d’estate. La bisnonna esclamò: -Come sono belle le montagne! Mi piacciono anche quando le guardo dal Castello e dal paese, ma di qui, che spettacolo!

Il nonno approvò: “Non sono come le Dolomiti o il Monte Bianco, ma danno pace e allegria a chi le guarda. Osserva bene! Dalle cime più alte che sono al centro, il Rubinèt e il Rocciavré, partono due catene di monti, una che dal Colle del Vento, là in mezzo ai pascoli verdi, viene giù fino alla Braida, e l’abbiamo sotto i piedi. L’altra l’abbiamo di fronte: dal Colle della Russa si allunga fino all’Uia, quella cima a punta là, all’Aquila e sempre più giù alla Tora, al Fusero, fino al Pietraborga che chiude la vallata a Trana”.

Il diadema di montagne che incorona la Val Sangone nella rosea luce dell’alba – foto di Elio Pallard
Le stesse montagne si colorano d’ombra dopo il tramonto del sole – foto di Elio Pallard

“Vero  – disse la nipotina – e cambiano anche colore. Al mattino sono rosa, alla sera azzurrine. D’inverno con la neve sembrano quelle delle fiabe, d’autunno rosse e gialle con le punte grigie sembrano vestite per una festa. E quante cose vedo di qui: la strada della corriera, il nostro campanile, quelli grossi del Selvaggio, quello sottile sottile di Trana e quello piccolo e bianco là davanti”.

“È quello della Maddalena” completò il nonno.

pag.16 – Collezione cartoline d’epoca Carlo Giacone

Chiacchierando giunsero sulla Cima. La bisnonna spalancò gli occhi sulle montagne della Valsusa e rimase senza fiato. Dopo abbassò lo sguardo sulla valle, sprofondata laggiù, tutta a quadratini verdi, gialli con qualche striscia marrone, fiorita di paesi e paesetti. Il lungo solco della Dora l’attraversava tutta, come pure lo stradone. Una meraviglia!

All’improvviso vide un edificio enorme, strano, misterioso, sospeso sulla valle.

pag.16 – Sacra di San Michele tra nebbia e neve – Fotografia di Elio Pallard

Il nonno che aveva seguito il suo sguardo spiegò: “È la Sacra di San Michele. Ha mille anni. È un monastero e ci stanno i frati”.

“Ah, la Sacra! Ha davvero mille anni? – per lei era un tempo senza principio e senza fine – Ma quanti sono mille anni?” Il nonno sorrise: “Tantissimi. Se pensi che tu hai sette anni e io ne ho settanta”.

“Nonno, un giorno andremo a vederla da vicino?”

“Sì. Certo! La Sacra sta in Valsusa, ma è stata importante per la Valsangone. Guarderemo anche come è fatta dentro, poi andremo sulla terrazza alta, vicino alla Chiesa. Ti sembrerà di essere su un aeroplano!”

“Ma io ho paura!”

“Ti terrò per mano e poi la Sacra, con quei muraglioni, è robusta. Si dice che l’abbiano portata gli angeli sulla punta del monte”. “Gli angeli? Davvero? Sarà proprio così: i muratori sarebbero caduti giù”.

Lo sguardo della bambina tornò a posarsi sulle grandi montagne valsusine. Fu attirata da una montagna poderosa che terminava con una punta aguzza da bucare il cielo.

L’aguzza cima del Rocciamelone, m. 3538 – Fotografia di Sergio Coraglia

Il nonno le spiegò che era il Rocciamelone, un monte caro ai valsusini ma anche ai valsangonesi, benché appartenga alla Valsusa. “Oh, è quello il Rocciamelone!”

“Come vedi, è una montagna bellissima e poi, proprio sulla cima, c’è una statua della Madonna, costruita con i risparmi dei bambini d’Italia e portata su a pezzi dagli Alpini. Pensa, da Susa che è a cinquecento metri di altitudine fino ai 3538 della punta aguzza.

Sì, ci pensarono gli Alpini. Essi, con grande fatica e pericolo, trascinarono su i blocchi pesantissimi, sfidando i burroni. Sulla vetta, sopra i precipizi, rimontarono la statua e la ancorarono saldamente. Ora è là nel sole e nella tormenta a vegliare sui bambini della Valsusa, sull’Italia tutta.

Ogni anno moltissime persone salgono fin lassù e provano la gioia di arrivare in vetta e di sentirsi più vicino alla Madonna vera”.

La Madonna del Rocciamelone – Foto di Silvano Gallino

La bisnonna tornò a voltarsi per guardare di nuovo le montagne della Valsangone.

Non erano alte come quelle della Valsusa, però invitavano a salire attraverso i prati, i boschi, i pascoli degli alpeggi. E poi chissà! Si poteva provare ad arrampicarsi in mezzo alle pietre e alle rocce che precedono le cime. Le avevano detto che c’erano dei sentieri, un po’ nascosti, là in alto; scomodi, ma pur sempre sentieri!

Il Rocciamelone era troppo alto e ripido per le sue gambette. Guardava attentamente i fianchi delle montagne valsangonesi. Sentiva crescere la voglia di inerpicarsi su, sempre più su.

Quel giorno la bisnonna scoprì anche la pianura, nascosta come un mistero dietro al Pietraborga. Da casa sua vedeva una bella fetta della grande macchia piena di case che è Torino, una fettina di pianura oltre la collina torinese, ma non aveva mai visto la pianura intera. Le sembrò immensa. Laggiù, laggiù, una collinetta come disegnata a matita, ben oltre Torino! Dietro quella linea azzurrina che cosa c’era?

Il nonno stava chiacchierando con un pastore che sorvegliava le mucche al pascolo. Non lo interruppe.

Tornò a girarsi verso ovest e vide luccicare qualcosa su una delle vette alte della Valsangone. Che cos’era? Doveva chiedere al nonno.

Ad un tratto, mentre contemplava felice il panorama, un ricordo le attraversò la mente. Era una cosa molto strana che aveva sentito a scuola, nella pluriclasse che frequentava.

La maestra parlava ai ragazzi più grandi, ma lei si era distratta dal suo compito. Aveva alzato la testa, incredula, stupita. La maestra raccontava che milioni di anni fa le montagne non c’erano, c’era il mare; poi dei terremoti fortissimi avevano sollevato il fondo del mare e l’avevano spinto così in alto. A lei la cosa non sembrava possibile. E che voleva dire “milioni” di anni? Tantissimi certo, ma quanti erano davvero, contati sulle dita? La bisnonna faceva scorrere lo sguardo sulle catene montuose cercando le tracce di quegli avvenimenti, mentre un brivido di paura la faceva tremare. Vedeva solo cime tranquille, immobili nel sole e nell’azzurro. Non aveva mai provato il terremoto. I suoi però le avevano detto che era un forte scuotimento che faceva crollare le case e apriva crepe nel terreno. Una brutta cosa. Quei terremoti che sollevavano le montagne chissà com’erano! La maestra aveva aggiunto altre cose spaventose: dopo i terremoti, un grande freddo terribile aveva sepolto le nostre terre sotto i ghiacciai, strati di ghiaccio pesantissimi, alti parecchi metri. E poi un caldo straordinario aveva sciolto tutto e sommerso la zona, che adesso chiamiamo Valsangone, in un lago o in tanti acquitrini. La bisnonna bambina immaginava l’acqua del disgelo che ruscellava da tutte le parti, con un fragore assordante, e rabbrividiva. Eppure il grande paesaggio sotto i suoi occhi era rassicurante. Vedeva boschi, case, campi coltivati nel fondovalle o aggrappati ai fianchi dei monti e laggiù in fondo il treno della Valsusa che fischiava e si muoveva come un giocattolo. Presa dall’affanno, corse dal nonno a chiedere se era vero quello che aveva detto la maestra. Sperò che il nonno rispondesse di no. Invece anche lui aveva sentito dire che quei disastri c’erano stati. La bambina immaginò il ghiaccio avanzare fino a schiacciarla sotto il suo peso; allora chiese: “Che facciamo se torna di nuovo il ghiacciaio?”

Il nonno sorrise: “Il ghiacciaio non si forma di colpo, da un giorno all’altro. Ci vogliono migliaia di anni e tantissima neve. E così anche il disgelo avviene un poco alla volta, in un tempo lunghissimo. Non devi avere paura. Adesso tu vedi del ghiaccio qui intorno?” Lei osservò attentamente i monti e disse: “Soltanto là e là vedo del bianco.” “Dalle parti del Moncenisio e sul Rocciamelone. Sono ghiacciai piccoli, perché lassù nevica anche d’estate, quando da noi piove.” Non ancora del tutto rassicurata, la bisnonna domandò: “I ghiacciai si sono formati e sgelati più volte? E chi c’era allora a vederli?”

“Sì, proprio così! Ma non c’erano ancora gli uomini e gli animali che conosciamo. Nessuno ha visto quei ghiacciai. Le cose che sono successe le sappiamo dagli scienziati che hanno studiato i segni lasciati da questi disastri, per esenpio le valli come la Valsusa e la Valsangone (che in principio non erano così profonde), i laghi di Avigliana, l’aspetto delle montagne, i terreni, le rocce, i sassi. Anche i sassi parlano.”

“I sassi parlano? Anche questi sul viottolo?” “Ma certo! – rispose il nonno – “Io non so leggere le rocce e i terreni ma gli scienziati sì; sanno anche calcolare la loro età.”

La bisnonna bambina era sempre più stupita. Quella dei ghiacciai non era una favola come lei sperava.

Il nonno continuò a raccontare cose stranissime: sulle rocce delle montagne si trovano impronte di conchiglie e di pesci, chiamati fossili. Questa è la prova che le terre stavano in fondo al mare e poi i terremoti le hanno sollevate. “Oh, pesci sulla montagna, sulle rocce? E non sono le trote che stanno nei torrenti?” “No, quelli sono pesci antichissimi. Molte persone hanno trovato i loro fossili, le impronte pietrificate”.

Mappa del bacino idrografico dell’alto corso del Sangone, con i principali affluenti

La nonna era stupita, guardava i monti. Si accorse che la Valsangone nasconde tante piccole valli nelle pieghe della montagna. Il nonno spiegò:” Se guardiamo le montagne da Giaveno, la Valsangone è come un albero. Dal tronco che è la conca di Giaveno, partono i rami. Il ramo principale è la valle madre, quella del Sangone: da Trana su su fino a Forno di Coazze. Le altre valli corrispondono a quelle dei suoi affluenti. Se voltiamo le spalle alla sorgente del Sangone e guardiamo verso Giaveno, troviamo sulla destra i torrenti minori tra cui il Tauneri e il Romarolo alla Maddalena; sulla sinistra il Sangonetto all’Indiritto di Coazze, l’Ollasio che nasce a Roccia Corba sulla Cima e passa sotto la borgata Rosa, al Selvaggio, a Giaveno; il Tortorello e l’Orbana che vengono giù dalle parti di Valgioie.”

“Ma il Sangone dove nasce?” chiese la piccola.

Nell’avvallamento all’estrema sinistra della foto, da Fontana Mura, nasce il Sangone. La sorgente ha dato il nome al rifugio che si vede sulla destra, ex alpeggio Sellerì d’amùn – Foto di Elio Pallard

“Vedi quel colle liscio e verde in direzione di questo larice, tra la catena del Rubinet e quella dell’Aquila? È il Colle della Russa. Poco più sotto, in un posto che non si vede da qui, c’è Fontana Mura, la sorgente del Sangone. Da lì, il piccolo torrente si è aperto un passaggio tra le rocce e i terreni resistenti dove adesso c’è Forno e Coazze, che allora non c’erano. C’era il deserto. Se guardi bene, Coazze è costruito su una terrazza. Il Sangone scava e scava, è sceso molto più in basso, dove adesso ci sono le fabbriche, perché ha trovato terreni morbidi da una parte e le rocce dure della montagna dall’altra. Di lì scorre verso Giaveno, ai piedi rocciosi del Pietraborga, a Trana”. “È vero, ma dopo Trana dove va a finire?”

pag.16 – I Laghi di Avigliana e la stretta tra Monte Cuneo e Pietraborga erosa dal Sangone, che milioni di anni fa si gettava nella Dora Riparia – Foto di Elio Pallard

“Attraversa Sangano, Bruino, Orbassano, Beinasco e si getta nel Po vicino a Torino. Ma non è stato sempre così. Ho sentito dire che una volta si gettava nella Dora press’a poco dove adesso c’è Avigliana”.

“Ma come è possibile?” “Di preciso non so. Penso che il monte Pietraborga detto anche Pratovigero, era attaccato al Monte Cuneo (Moncuni), quella collina rossiccia, senza alberi verso la cresta, a sinistra del campanile di Trana. Se erano attaccati, il Sangone sbatteva contro le rocce del Pietraborga ed era costretto a tornare indietro, non aveva nessun varco verso la pianura, verso Sangano (che allora non esisteva proprio per niente!). Allora si scavò un passaggio, una strada nei terreni morbidi dove adesso c’è San Bernardino, che tu hai visto quando siamo andati alla festa di Trana, e verso i Laghi di Avigliana, che conosci da vicino e che allora non c’erano ancora perché si sono formati molto dopo, da un altro ghiacciaio più giovane. E così il Sangone scese fino a incontrare la Dora”. “Ma poi che cosa è successo per far andare il Sangone verso Torino?” “Si dice che in Valsusa, che non era ancora sprofondata tra le montagne come ora, si sia formato un ghiacciaio così grosso da raggiungere Avigliana e poi Giaveno, molto più grosso di quelli che si erano formati nelle valli di Forno e Indiritto sopra Coazze. (Naturalmente Avigliana, Giaveno, Coazze non c’erano). Poi il ghiacciaio si è lentamente sciolto e tutta quell’acqua si aprì un passaggio nella strettoia dove adesso c’è Trana”. “Vedo vedo”. La bambina era pensierosa. “Forse quell’acqua riuscì a far franare un pezzo di montagna e a rovesciarsi sulla pianura. Che disastro! Per gli uomini, le donne, i bambini, gli agnelli, i pulcini, i cani e i gatti!” “Stai tranquilla, allora non c’erano uomini e neanche animali. Non so di preciso ciò che sia capitato, ma da allora il Sangone mai più è passato da Avigliana”. 

La bambina continuò a guardarsi intorno preoccupata. Tutto era tranquillo. Sentiva i campanacci (“rudùń”) delle mucche al pascolo, il fruscio del vento tra gli alberi, la carezza del sole sulla pelle. Lontanissimi i freddi glaciali e le grandi acque del disgelo. L’erba e la terra dura stavano sotto i suoi piedi. Eppure…

Domandò: “Quando sono arrivati i primi uomini nella nostra valle? Come l’hanno trovata?”

Il nonno rispose: “Non lo so. Migliaia di anni fa, di sicuro. Vivevano nelle casette di legno sollevate sulle paludi o nelle grotte della montagna, andavano a caccia e a pesca. Ma non vedevano lo stesso panorama che vediamo noi. Le montagne e le terre hanno cambiato aspetto molte volte a causa delle frane, del vento, degli uragani, dei terremoti. Le montagne erano più alte, il territorio era un grande lago o tanti acquitrini in mezzo a foreste intricate e sassi grossi”.

“Sarà stata bella anche così; a me piace di più adesso con tanti paesetti, le case che sorridono, i campi e i prati ben pettinati”, concluse la bisnonna in quella lontana estate, prima della seconda guerra mondiale ormai alle porte. 

Non poteva immaginare che di lì a pochissimi anni, il cataclisma della guerra avrebbe raggiunto le montagne e stravolto la quiete dei paesi e delle borgate. Sparatorie, rastrellamenti, incendi, fucilazioni… la bisnonna li racconterà più avanti. Finita la guerra e cessata la grande paura, la gente si rimboccò le maniche e riprese la solita vita di lavoro e di sacrificio. Un po’ alla volta arrivò anche un certo benessere. Tuttavia il dopoguerra non fu tutto rose e fiori.

L’agricoltura di montagna andò in crisi. La gente trovò lavoro nelle fabbriche del fondovalle e della pianura. I contadini, uomini e donne, diventarono operai e abbandonarono gli alpeggi, i boschi e i prati, le borgate alte. Si trasferirono vicino ai luoghi di lavoro.

Allora la vegetazione selvatica invase tutto. Il silenzio pesante e totale pesò sui monti e sulle borgate nella cornice sempre incantevole delle cime.

I ragazzi del Duemila salgono, in macchina, al Colombino, a Pian Neiretto, al Colle Braida e non sanno più com’era la vita lassù ai tempi dei bisnonni. Non se la possono immaginare. E se hanno sentito raccontare qualcosa in famiglia, stentano a crederci.

Ora, se imboccano un sentiero fuori dal parcheggio, quasi sempre lo vedono scomparire sotto erbacce e cespugli prepotenti; finiscono nelle ortiche e nei rovi. Si salvano solo i sentieri tracciati da qualche Ente, come la Comunità Montana o il Parco Naturale Montano Orsiera-Rocciavré, e manutenuti dalla buona volontà di associazioni come il CAI e l’AIB.

Se riescono a proseguire, incontrano casette diroccate con gli alberi che escono dal tetto, muretti e viottoli franati, pochi resti dei prati e dei campi, sepolti dai cespugli selvatici. I ragazzi si chiedono il perché di questa desolazione. La bisnonna prova a rispondere.

La bambina, che ammirava i monti dalla Cima, ora ha i capelli bianchi e quando la interrogano rivive il passato: ricorda le molte persone scomparse che le hanno insegnato a vivere con gli esempi più che con le parole. Ritiene suo dovere raccontare qualche briciola del tempo che fu: come si viveva, come si lavorava, come si soffriva, come ci si divertiva in quel mondo che oggi appare remoto e scoraggiante. Non per tornare indietro. Per guardare avanti e costruire un presente e un futuro umano e dignitoso.

E ricordare, inoltre, che il paesaggio e l’ambiente sono un valore che va tutelato.

Nel 1970 è stato istituito infatti il Parco con lo scopo di valorizzare il paesaggio, facilitare le attività agricole e pastorali che ancora resistono, per esempio con il rifacimento di alpeggi, baite, sentieri, strade e segnaletica, rifugi per i turisti. Esso comprende l’alta Valsangone e le zone adiacenti della Valsusa e della Val Chisone.[2]


[1] Baggio-Giardino-Mercalli. Valsangone: climi e forme del paesaggio, SMS, Torino 2003.

[2] In un’ottica di risparmio, che ha portato alla soppressione delle Comunità Montane e delle Province, nel 2012 la gestione del Parco Orsiera Rocciavré è stata accorpata a quella delle vicine aree protette dei Laghi di Avigliana, della Val Troncea, del Gran Bosco di Salbertrand e degli orridi di Chianocco e Foresto,  e affidata all’Ente di gestione delle Aree Protette delle Alpi Cozie.

pag.21 L’immagine chiude il primo capitolo. Da Giaveno (prima del boom edilizio) in primo piano lo sguardo spazia sul ventaglio di vallette e cime della Val Sangone – Collezione cartoline d’epoca Carlo Giacone.

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