Moti del marzo 1821: il Risorgimento a Pinerolo

Il 17 marzo 1861 la proclamazione del Regno d’Italia concludeva una fase importante del Risorgimento italiano, l’unificazione dell’Italia, che si sarebbe poi compiuta con la III Guerra di Indipendenza (Veneto), la presa di Roma (Lazio) e la Prima Guerra Mondiale (Trentino e Friuli Venezia Giulia). L’inizio del Risorgimento si può collocare quarant’anni prima, con i moti del marzo 1821. Dopo la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna del 1815 aveva cercato di riportare indietro l’orologio della storia e una pesante cappa reazionaria soffocava ogni novità. La massa popolare povera e analfabeta era lontana da rivendicazioni liberali, ma la borghesia delusa e la nobiltà liberale alimentavano idee nuove in campo economico e anche politico. La Carboneria era una società segreta che sfidava la polizia politica e si diffondeva soprattutto nell’esercito, dove il cameratismo favoriva la diffusione delle idee.

Santorre Annibale Filippo Derossi, conte di Pomerolo, signore di Santarosa  è nato a Savigliano il 18 ottobre 1783 e morto a Sfacteria l’8 maggio 1825, combattendo per l’indipendenza della Grecia

Pinerolo, città di vivace economia e con una forte presenza militare, contava una “vendita”  carbonara numerosa e vivace.  Ugo Marino nella sua Storia di Pinerolo cita tra i più focosi carbonari il Conte Roberto Pavia di Scandaluzza, il piscinese Guglielmo Guerbe di Pierre Loise, già ufficiale superiore dell`armata napoleonica, Gaetano Giancelli, Consigliere comunale; medici come Giovambattista Alliaudi, Federico Barboroux di Bibiana, Spirito Martini di Dubbione, il notaio Godino di Perosa, l’avvocato Stefano Fer ed un certo Rocchetti definito “causidico”. Altre fonti includono tra i rivoluzionari anche il salumiere Ternavasio e Ignazio Paris, maggiore dei Carabinieri, che affiderà la sua sciabola al figlio Cesare Andrea, comandante garibaldino nella Spedizione dei Mille del 1860. La ribellione di Capodanno del 1820, quando a Cadice i soldati spagnoli si erano rifiutati di partire per reprimere la ribellione delle colonie sudamericane e avevano ottenuto dal re Ferdinando VII il ripristino della Costituzione di Cadice del 1812, aveva diffuso un fremito libertario che aveva coinvolto il Portogallo e il Regno di Napoli. Dopo mesi di cedimento, nel gennaio del 1821 Ferdinando I di Borbone aveva chiesto l’intervento dell’esercito austriaco per reprimere la rivolta. Negli stessi giorni a Torino Vittorio Emanuele I reprimeva brutalmente una pacifica manifestazione liberale. Ma il marzo 1821 sembrava portare eventi favorevoli: l’esercito austriaco era impegnato nel Regno di Napoli, l’erede al trono del Regno di Sardegna Carlo Alberto aveva incontrato in segreto, il 6 marzo, il conte saviglianese Annibale Santorre Derossi di Santarosa, il conte pinerolese Moffa di Lisio ed il conte di San Marzano e sembrava disposto ad una politica di riforme liberali. Su questo incontro ci furono versioni discordi, gli insorti parleranno di esplicita adesione, Carlo Alberto arriverà a negare ogni incoraggiamento.

Stampa dell’incontro segreto tra i cospiratori e Carlo Alberto, 6 marzo 1821

Resta il fatto che il 10 marzo i presidi di Alessandria, Torino e Vercelli insorsero. Lo stesso giorno il capitano dei Cavalleggeri del Re, Guglielmo Moffa Grimaldi di Lisio, con Santorre di Santarosa, si precipitò a Pinerolo, ottenendo l’appoggio degli ufficiali aderenti alla Carboneria (Ghini, Pecorara, Calosso, Bruno, Capponi…) e dei civili Roberto Pavia, Giovanni Battista Alliaudi e Stefano Fer. L’ordine, rafforzare la guarnigione di Alessandria che era insorta assieme ai presidi di Vercelli e Torino, fu accolto da 365 cavalieri su 500 (o 550, secondo altri). In quello stesso giorno a Carmagnola Santorre diffuse un proclama dove dichiarava la rivolta non “contro” ma “per” il Re “che non può essere abbandonato all’influenza dell’Austria”. Il “Pronunciamento” dei generali insorti che invocavano la Costituzione indusse Vittorio Emanuele I ad abdicare passando la patata bollente al fratello Carlo Felice, che era a Modena. Il reggente Carlo Alberto concesse la costituzione richiesta, che era quella moderata di Cadice del 1812 e non quella francese del 1791, auspicata dagli insorti più radicali. Il 13 marzo Moffa e Santarosa, nominato ministro della guerra da Carlo Alberto, assaporano il successo della campagna lampo mentre il conte Pavia di Scandaluzza issa sul campanile del duomo di Pinerolo e sul balcone del municipio una bandiera tricolore, che probabilmente era quella della Carboneria, a cui apparteneva.

I colori della bandiera segreta della Carboneria avevano una precisa simbologia: l‘azzurro rappresentava la speranza e la volontà di raggiungere la libertà; il rosso, l’impegno (il sangue?) e il nero la fatica (il sacrificio mortale?) necessari per il suo raggiungimento.

Ma pochi giorni dopo arriva la doccia fredda, Carlo Felice sconfessa l’operato del nipote, e chiede l’intervento dell’esercito austriaco, che sbaraglia la debole resistenza degli insorti. Carlo Alberto per essere perdonato deve ritrattare il suo operato e verrà mandato a Cadice a reprimere gli insorti spagnoli, partecipando alla presa della fortezza del Trocadero. Chiamato “traditore” dagli insorti piemontesi, Carlo Alberto si porterà dietro questa immagine di irresolutezza e l’appellativo di “Re Tentenna” o di “italo Amleto” (Giosuè Carducci, nella poesia Piemonte).

La repressione portò all’arresto, il 16 aprile, del Giancelli (poi assolto), del conte Pavia e del Guerbe, processati e subito liberati poiché i giudici ritennero sufficiente la carcerazione che oggi definiremmo preventiva. Nessuna pietà, invece per i militari: furono pronunciate infatti 71 pene capitali (solo tre furono eseguite, perché molti, giudicati in contumacia, si erano resi irreperibili), 5 “galere perpetue” e 20 condanne tra i cinque e i vent’anni. La Commissione militare alla fine di ottobre aveva destituito 627 ufficiali. Tra gli imputati locali i capitani Secondo Balzetti di Riva di Pinerolo e Francesco Buffa di Bibiana, gli alfieri Michele Botallo e Luigi Giolitti di Villafranca, il sottotenente Fedele Carutti, i tenenti Ferrero di Buriasco, Giuseppe Pavia dl Scandaluzza, Felice Porro, ecc.

Santorre di Santarosa, Guglielmo Moffa di Lisio e un migliaio di altri insorti scelsero l’esilio.  Perseguiti come traditori e ribelli, i protagonisti dei moti di Pinerolo del 1821 sono oggi ricordati sulla lapide collocata sulla facciata della sede del Museo storico della Cavalleria.

Nella tragica aurora del Risorgimento nazionale

Il 10 marzo 1821 in Pinerolo

SANTORRE DI SANTAROSA e GUGLIELMO MOFFA DI LISIO sorretti dalla carboneria della città, guidata da ROBERTO PAVIA DI SCANDALUZZA, sollevavano i cavalleggeri della guarnigione, che numerosi per l’onore del Piemonte muovevano in armi verso Alessandria dove sventolava per la prima volta il tricolore d’Italia

Il Comune di Pinerolo, auspice la Società Storica Pinerolese, 1961

Quale bandiera?

Contrariamente a quanto affermato nella lapide la bandiera che la mattina del 10 marzo 1821 sventolava sul pennone della Cittadella di Alessandria non era il tricolore attuale bandiera dell’Italia, ma quello della Carboneria, la società segreta promotrice dell’insurrezione. Un tricolore a bande orizzontali: azzurra, rossa e nera. Secondo Santarosa invece era quella rossa, verde e azzurra dei carbonari di Napoli, comunque non il tricolore italiano. Quello verde, bianco e rosso era stato adottato a Reggio Emilia dalla Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797. Quando il 14 marzo Carlo Alberto concede la costituzione, ribadisce che i colori dello stato sono rappresentati solo e unicamente dalla bandiera sabauda e proibisce ogni esibizione esteriore che faccia riferimento alla carboneria. Ma nel 1848 lo stesso Carlo Alberto, diventato re, lo adotta per il regno di Sardegna, inserendo sul campo bianco lo scuo dei Savoia (una croce bianca in campo rosso). Con l’unità d’Italia (17 marzo 1861) diventò la bandiera del Regno d’Italia. In seguito alla proclamazione della Repubblica (1946), lo scudo dei Savoia fu eliminato.

Dalle bifore del duomo di Pinerolo, il Conte Roberto Pavia di Scandaluzza sventolò la bandiera degli insorti il 10 marzo 1821.

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