La fame d’erba degli antichi coazzesi e quella minore dei giavenesi.

Il 25 marzo era una data fatidica per i coazzesi più poveri. Non tanto perché si celebrava l’Annunciazione dell’Angelo a Maria, nove mesi esatti prima del Natale, ma perché scattava il divieto di pascolare nei prati altrui e nei beni comunali. Divieto che durava fino a novembre, a San Martino. Bruno Tessa in questo articolo pubblicato su Luna Nuova del 1984, spiega bene quanto fosse preziosa l’erba per poter allevare qualche bestia in più e incrementare il reddito di famiglie spesso numerose, ammassate in poche stanze, con proprietà spezzettate dalle successioni. Nei pressi delle borgate le carte catastali s’infittiscono di righe. Strisce di terra larghe pochi metri, all’Indiritto le chiamano “làme”, che si protendono da un sentiero a una bealera per garantire l’accesso e l’acqua a tutti i prati. Le proprietà non erano recintate e pascolare in libertà nei mesi invernali poteva aiutare i più poveri. Ai primi del Novecento i coazzesi erano 4000 e le borgate al limite tra i beni privati e quelli demaniali erano molto popolose. Ancora nel 1951 Valsinera aveva 63 abitanti, Giovalera 60, Tonda 79, Ruata 65, Molé 70. Il Comune aveva acquistato terreni dai comuni confinanti, spesso oggetto di lite, ma l’erba non bastava mai, era preziosa. Proprio per questa il limite del 25 marzo era severo, segnalato dal proverbio, ma garantito anche da precise e più drastiche norme, degli Statuti del 1553, che si estendevano a tutti gli animali e che Bruno Tessa puntualmente cita nell’articolo.

Ho controllato gli Statuti di Giaveno, del 1454, ma non ho trovato una norma così restrittiva. L’unica che si avvicina è questa:

Art.96 DIVIETO DI PASCOLO AL DI QUA DEL SANGONEParimenti abbiamo codificato, stabilito e ordinato che qualunque bestia bovina, eccetto i buoi da traino e le bestie malate, non possa pascolare al di qua del Sangone dalla festività di S. Giovanni Battista fino a quella della Beata Vergine Maria nel mese d’agosto, eccetto quelle della Sala, che sono anche obbligate a pascolare al di là del Tortorello e sopra la strada di Avigliana sotto pena di dodici denari ogni volta, salvo nelle loro proprietà.

D’altra parte i giavenesi, che fino alla Seconda guerra mondiale sono sempre stati poco più del doppio dei coazzesi avevano a disposizione terreni più fertili e pianeggianti e un settore terziario favorito dalla posizione e molto più sviluppato.

Gli Statuti Giavenesi anno 1454, a cura di Alfredo Gerardi, disegni Severino Bramante, Lions Club Giaveno Valsangone, Ed Enterprise 1992

“A la Nunsià fòra al céure dan ti prà”

di Bruno Tessa

Le aziende agricole sono rimaste poche in montagna, ma quasi tutti i discendenti delle famiglie contadine che ora vivono di lavoro dipendente, coltivano ancora verdure e ortaggi per il consumo familiare e mantengono efficienti alcuni prati per poter allevare i conigli o semplicemente per il gusto di vedere i propri terreni puliti e in ordine. Tra di essi, in questi giorni è facile raccogliere impressioni sull’andamento stagionale del tempo e lamentele sul ritardo della primavera che non permette di effettuare le prime  semine. Le persone anziane citano spesso questo proverbio: “A la Nunsià fòra al céure dan ti prà” (all’Annunciazione fuori le capre dai prati), per far notare che alla fine di marzo (l’Annunciazione cade il 25 marzo) l’erba dovrebbe già essere abbastanza alta da venir danneggiata dal pascolo degli animali, che una volta fino a tale data si poteva praticare sulle proprietà altrui. È un’usanza che a noi, strenui difensori dell’inviolabilità della proprietà privata, suona un po’ strana, ma che deve essere molto antica, dato che la troviamo già codificata negli statuti del Comune di Coazze del 1553 in questi termini: “Quelibet  bestia bovina, equina, asinina, caprina, ovina et porchina que reperta fuerit offendens in pratis alienis de tempore Annunciationis Beate Marie usque ad festum Sancti Martini hiemalis inclusive incurrat penam grossi unius monete currentis pro qualibet bestia et vice qualibet aplicandam Dominis Covaciarum et totidem de emenda Domino rei de die et de nocte duplum salvo quod si esset experduta” (Qualsiasi bestia bovina, equina, asinina, caprina ovina e suina che venisse trovata a nuocere nei prati altrui  dall’epoca dell’Annunciazione della Beata Maria fino alla festa di San Martino invernale inclusa, incorra nella pena di un grosso di moneta in corso, per ogni bestia e per ogni volta, (pena che) verrà applicata dai Signori di Coazze e altrettanto in risarcimento al Signor proprietario, di giorno, e di notte il doppio, salvo che (la bestia) sia stata smarrita). Non sono in grado di disquisire sull’origine di questa usanza singolare rimasta in vigore fino al tramonto della civiltà contadina dei nostri montanari, ma essa dimostra che si è tentato di conciliare il diritto dei proprietari di effettuare i propri raccolti con la necessità di molti contadini poveri di riuscire a mantenere qualche capo di bestiame in più, sfruttando tutte le risorse disponibili fino all’ultimo pelo d’erba per lenire un po’ la miseria che una volta era purtroppo assai diffusa. È la stessa necessità che induceva  molti abitanti delle borgate montane a dare agli animali in autunno “la fràs-cí“ (le foglie di frassino, quercia, castagno usate come foraggio) e in inverno “Ia brüri” (il brugo) raccolta nelle magre brughiere comunali e a percorrere in estate decine di chilometri al giorno per procurarsi un carico d’erba ai Picchi, all’Aquila, a Bé-Mulè, rubandola qualche volta  agli alpeggi di Giaveno, della Balma, dei Sellery. La fame d`erba a Coazze era vecchia di secoli: lo dimostrano le liti con il Comune di Giaveno del 1400 per conservare il diritto di tagliare legna e erba nella zona di Meynard (in territorio di Giaveno) e quelle con il Comune confinante di Sant’Antonino nel 1700 e 1800 per conservare il possesso dei tenimenti di Prato Zibert e della Valsanera (“Vsnìri”) dalle parti del Col Bione, in territorio di S.Antonino: il Comune di Coazze possiede infatti dei terreni nei territori dei Comuni di Giaveno e S.Antonino. Le vaste estensioni di proprietà comunale adibite a pascolo permettevano ai montanari di mantenere alle “préʃe“ il bestiame per tutta l’estate senza utilizzare l’erba dei loro prati, che poteva essere trasformata in preziosa scorta di fieno per il lungo inverno, e alle casse comunali di introitare quasi fino a 30 anni fa le tasse sul bestiame e sul diritto di pascolo, che costituivano cospicue entrate per il Comune. Ridurre i pascoli comunali equivaleva a costringere i montanari a diminuire i capi di bestiame. Per questo essi si opponevano tenacemente al rimboschimento dei terreni comunali. Gli abitanti deIl’lndiritto avevano osteggiato e impedito ad un ostinato privato di impossessarsi di terreni comunali a Pian Gurài. Minor fortuna avevano avuto gli abitanti delle borgate Re e Pianermo che non erano riusciti ad impedire al Sindaco di Coazze di cedere al Comune di Sant’Antonino, al prezzo di un pranzo, così si tramanda, una grossa parte dei terreni che il Comune di Coazze possedeva nei pressi della fontana Petrosa, a Nord di Rocciacorba nel territorio di Sant’Antonino. Poter pascolare nei terreni comunali era talmente necessario che lo stesso fondatore della chiesa parrocchiale dell’lndiritto, il trappista Carlo Emanuele De Meulder, nel 1795 era riuscito a ottenere per i suoi parrocchiani il diritto di pascolo nei beni comunali. La pergamena che regolava tale diritto, gelosamente  conservata dagli abitanti dell’Indiritto fino al 1922, venne loro sottratta dall’autorità fascista, probabilmente per impedire contestazioni sul pagamento della tassa per il pascolo nei terreni comunali. Questi fatti dimostrano che una volta i montanari avevano fame d’erba per sopravvivere, ma anche ai nostri giorni, sebbene per altri motivi vi è fame d’erba, perché ci accorgiamo ancora che la primavera, una stagione importantissima per il ciclo vegetativo di tutta l’annata, tarda ad arrivare.

rubrica Ciose bis-ciose, in Luna Nuova n. 7 del 7 aprile 1984
2015, Monticazione delle capre, fondamentali per la produzione del prezioso “cëvrìń”, che sfilano a Coazze in Piazza Gramsci prima di “munté a l’Arp di Sëlrì”
Il-possesso-della-Moschettera-ovvero-antiche-rivalità-tra-Sant’Antonino-e-Coazze, Piero-Del-Vecchio, Unitre-S.Antonino-quaderno n.6-2000

Commenti e ricordi

Marisa Usseglio Savoia – “A la Nunsià fora ‘l bestie Dan ti prà” (all’Annunciazione fuori gli animali dai prati) perché era il periodo che si sparge a il letame maturo “trüm” per concimare, e consentire all’erba tenera di crescere e infoltirsi, prima di quella data si poteva lasciare ancora pascolare perché gli animali a “brutavu ” erba vecchia dell’autunno.(brutè, significa mangiare raso terra, pecore e capre sono molto diligenti in questo incarico!)

Piera Rossetto – Ricordo papà che raccontava le dispute al colle Bione x definire il confine tra i due comuni per tagliare l’erba! Che tempi, vedessero ora… Lo spreco che c’è…

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