La doppia sfida di Ludovico Ariosto

Il corso, tenuto all’Unitre di Giaveno nell’autunno del 2021, mi ha indotto a rivisitare dopo diversi anni l’Orlando Furioso, Ludovico Ariosto e l’apparato critico che li accompagna. Riprendendo in mano gli sparsi appunti che usavo a scuola ho pensato di riorganizzarli in un testo che spero induca qualche lettore o studente a riscoprire questo grande autore, messo all’Indice dalla Chiesa e un po’ bistrattato dalla critica ottocentesca, ma da tempo rivalutato.

L’Orlando furioso è un poema epico cavalleresco. Lo affollano personaggi in continuo movimento. Inseguimento, fuga, odio, amore, promesse, tradimenti, magie, combattimenti sono azioni che si alternano a volte nelle stesse persone, perse nei sentieri della foresta o dietro ai fantasmi dei propri desideri. Selve e dedalei palazzi sono metafore del labirinto e il labirinto è metafora del mondo, come lo concepisce Ludovico Ariosto.

Cinquant’anni senza guerre, seguiti alla Pace di Lodi del 1454, avevano illuso sull’affermarsi dell’humanitas, dell’uomo razionale a suo agio in un mondo creato a sua immagine e somiglianza, in armonia con il suo corpo, “misura di tutte le cose”. I principi possono investire i soldi, che prima buttavano in guerre e ingaggi mercenari, in una politica di immagine, di “grandeur” , assecondando una strepitosa fioritura artistica e culturale. Ariosto ha vent’anni quando nel 1494 Carlo VIII di Francia invade l’Italia, se ha delle illusioni tramontano presto. I signori non mantengono i poeti, li fanno lavorare come segretari, scrivani, ambasciatori.  Orfano con nove fratelli a carico si lancia nel labirinto della corte e della vita, una selva di liti, invidie, ordini, viaggi imposti e incarichi sgraditi.  Le peripezie della vita lo portano ad “una saggezza dolorosamente sperimentata” (Lanfranco Caretti) e il suo percorso di formazione e di rivincita è l’Orlando Furioso.

L’Orlando Furioso è un poema epico cavalleresco pubblicato nel 1516, con riedizioni nel 1521 e nel 1532. L’edizione finale è strutturata in 46 canti, 4.842 ottave e 38.736 versi (La Divina Commedia consta di 14.233 versi).
Ludovico Ariosto ritratto da Tiziano Vecellio attorno al 1510, National Gallery.

Il primo duello è con il mondo

Ariosto sfida il mondo, che non è quello delle istituzioni cavalleresche, ma quello maturato dalla sua esperienza. Un mondo esteso e vario, imprevedibile e contraddittorio, caotico e labirintico. La materia cavalleresca, che secoli di contaminazione tra ciclo bretone e carolingio hanno dilatato all’inverosimile e popolato di creature fantastiche, viene scelta dal poeta perché gli consente libertà d’azione e di invenzione. È un avversario arduo da domare, ma Ariosto ha le armi per farlo: la razionalità, il buon senso, l’ironia e l’autoironia. La varietà del mondo si affronta non con l’istinto e la passione, ma con il ragionamento e la duttilità. Dal labirinto non si esce correndo qua e là in preda al panico e all’impeto, ma muovendosi con cautela, lasciando segnali e, possibilmente, abbracciandolo dall’alto con uno sguardo d’insieme. Mettere ordine nel caos è l’obiettivo dell’uomo, armonizzare la molteplicità dei temi, dei personaggi, delle vicende, assoggettare l’invenzione fantastica alla coerenza narrativa è la sfida che il poeta  accetta e che vince, fin dal famoso incipit. Donne e cavalieri, armi e amori, cortesie e audaci imprese sono binomi che esprimono la varietà e la contraddittorietà della materia, ma il chiasmo li imbriglia in una proposta retorica ordinata, quasi un climax che isola e potenzia l’orgogliosa affermazione che chiude i versi: “io canto”. Un kolossal con centinaia di personaggi e un groviglio di vicende si dipana ordinato sotto la regia di Ariosto. Ma il poeta non si limita a padroneggiare dall’alto il labirinto. Caduta l’illusione che basti abbandonarsi all’armonia di un mondo fatto su misura, l’uomo del Cinquecento esplora curioso un mondo costruito in funzione delle vicende.  La geografia del Furioso è antropocentrica, non perché a misura d’uomo, ma perché funzionale alle sue inchieste, alle prove da superare, all’esperienza da maturare. La regia di Ariosto illumina di volta in volta la scena di un episodio, di un incontro o di uno scontro, senza preoccuparsi di inserirli in un percorso logico, di giustificarli. Tutto accade per caso, anche l’incontro di Angelica con Medoro moribondo (“gli sopravenne a caso una donzella”, C. XIX), l’episodio chiave del poema, che scatenerà la follia di Orlando. Non ha problemi o limiti di tempo e di spazio la fantasia di Ariosto, preoccupato solo di portare i suoi personaggi dove li attendono sfide e traguardi illusori.  Come già detto l’ambientazione cavalleresca è solo un espediente per avere a disposizione un mondo fantastico in cui l’uomo del Cinquecento può  formarsi alla vita, prendendo atto che ci si muove nel caos di un mondo assurdo e che bisogna affrontarlo con spirito di adattamento. Chi è duttile, versatile, incline al compromesso se la cava, chi è fermo nei suoi ideali di fronte alla realtà che lo smentisce, o muore, come Isabella, o impazzisce, come Orlando.  Lo stesso Ariosto si cala nelle situazioni, dispensa consigli e sagge considerazioni, ma è anche capace di autoironia ed autocritica. Guardando dal basso l’uomo ideale e sicuro di sé che l’umanesimo aveva collocato su un piedestallo, propone la saggezza come vero obiettivo dell’uomo. Cioè la capacità di muoversi nel labirinto interiore, dove si inseguono sentimento ed istinto, logica e necessità, trovando ogni volta la via d’uscita adatta alla situazione. Soluzione al ribasso e un po’ cinica, ma condivisa da un suo grande contemporaneo: Francesco Guicciardini. Anch’egli contro la mutevolezza delle situazioni e l’imprevedibilità della fortuna propone un atteggiamento sostanzialmente difensivo: la “discrezione”, cioè l’analisi attenta della situazione prima di operare scelte, come metodo, e il “particulare”, cioè la salvaguardia della propria dignità e dei propri interessi, come fine.  Sono lontani i tempi in cui Dante, sorretto dalla fede, con percorso rettilineo attraversava l’universo costruito sulla logica aristotelica e il simbolismo cristiano. Ariosto indica un percorso di formazione che non può essere lineare, ma deve adattarsi alle circonvoluzioni del labirinto e all’imprevedibilità del caso.  Lo ha compiuto anche nella realtà. L’atteggiamento fermo contro la richiesta del suo patrono, il cardinale Ippolito d’Este, di seguirlo in Ungheria gli è costato disgrazia e licenziamento, l’accettazione controvoglia di un incarico sgradito in Garfagnana gli ha assicurato un finale di vita sereno, accanto alla donna amata, ma attraverso una relazione tenuta nell’ombra del compromesso. Il successo nella vita reale  Ariosto l’ha costruito sul compromesso, senza ombre e senza dubbio ha invece vinto l’altra sfida, quella letteraria e poetica. La lima amorosa di Alessandra Benucci non ha impedito al suo ingegno di consegnarci un capolavoro. Come un Dio crea il caos e poi lo plasma e lo gestisce. Le vicende proliferano, ma incardinate a dei filoni narrativi che percorrono il poema dal non inizio alla non fine. Sembrano episodi casuali, ma un gioco di rimandi, opposizioni e similitudini le giustifica e con abili “entrelacements” Ariosto li inserisce nell’avvincente scorrere della narrazione.  

Il secondo duello è con il lettore

Forse definirlo duello è un po’ esagerato, ma è indubbio che Ariosto instaura con il lettore un rapporto molto dialettico. Con le sue doti di affabulatore lo immerge nelle avventure, lo cattura con abili tecniche di suspence ed entrelacement, lo coinvolge sentimentalmente nelle passioni estreme dei protagonisti … e poi con stilettate ironiche e commenti fugaci lo spiazza. Gli ricorda che “il discorso è su un mondo immaginario, che non pretende di avere una realtà sostanziale, ma soltanto di essere una similitudine del mondo reale … Il lettore è continuamente ammonito a non abbandonarsi nel mondo del poema, ma a guardare attraverso di esso al mondo reale” (Robert Durling). Come il mago Atlante costruisce palazzi ingannevoli, Ariosto costruisce  un mondo come mimesi della realtà, avvertendo il lettore che non deve lasciarsi ingannare, perché NON è la realtà. Sembra a volte giocare come il gatto col topo, come Atlante con Bradamante: “…  come si vede ch’all’astuto gatto / scherzar col topo alcuna volta aggrada; / e poi che quel piacer gli viene a noia, / dargli di morso, e al fin voler che muoia. / Dico che ‘l mago al gatto, e gli altri al topo / s’assimigliar ne le battaglie dianzi; …” (Canto IV). Ma l’intento del poeta è opposto, non ingannare, ma educare. Lo fa sistematicamente nel prologo di ogni canto, sia per creare pause d’attesa, sia per usarlo, come il “cantuccio” delle tragedie manzoniane, per commentare, spesso con ironia, ed esprimere le proprie valutazioni. La fine del canto interrompe sempre una vicenda aperta, il lettore preso dall’emozione e dall’attesa di sviluppi potrebbe immedesimarsi nelle situazioni e nei personaggi come se fossero reali. Ma all’inizio del canto successivo la sua attesa resta delusa, tratto comune ai personaggi del Furioso, e si trova di fronte al narratore che abbassa il contenuto romanzesco e mitico a livello quotidiano, contemporaneo e soggettivo. Mettendosi in gioco e ironizzando anche sulle proprie debolezze, Ariosto costringe chi legge a straniarsi dalle vicende, a non abbandonarsi al piacevole fluire del racconto, a vedere, attraverso il velo della finzione, il mondo reale. Potrà così cogliere nel mondo parallelo, simile e diverso, creato dal poeta la realtà contemporanea e addestrarsi ad affrontarla. La “mens sana” idealizzata dall’Umanesimo, Ariosto non la indirizza a neoplatonici ideali di perfezione, ma la identifica nell’intelligenza di chi controlla l’istinto e la passione, di chi realisticamente accetta l’imperfezione e le sconfitte, di chi sa che la saggezza è frutto di dolorosa sperimentazione. Se il lettore capirà che non sta leggendo una favola antica, ma il “romanzo contemporaneo … delle passioni e delle aspirazioni degli uomini del suo tempo” (Lanfranco Caretti), avrà vinto il duello, ma anche Ariosto avrà vinto. 

La lotta tra Bradamante e Atlante in una illustrazione dell’inglese Henry Justice Ford del 1921

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