Il lavoro stagionale – primavera: concimare e piantar patate

Cap. 7° /1 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Il lavoro quotidiano in casa e nella stalla non sempre era considerato lavoro.

Il lavoro vero, che fa sudare e affatica, era quello dei campi, dei boschi e delle fabbriche. Nei campi variava secondo le stagioni.

1) PRIMAVERA

Lu iàm, la sàpa e lu garbìń

I lavori più importanti: rastrellare e concimare i prati, zappare e concimare gli orti e i campi, soprattutto seminare le patate. Tutto questo senza l’aiuto di un aratro e meno che mai di una macchina.

Le patate erano importantissime. Esse infatti, insieme alle castagne, sono state il sostentamento di generazioni e generazioni di montanari e non solo. Prima di seminare le preziose patate, bisognava preparare il campo ripido, riportando in cima, con la gerla, la terra accumulata in fondo a causa del disgelo, degli acquazzoni, e della stessa forza di gravità. Ed era necessario andare su e giù infinite volte al giorno. Anche i bambini davano una mano con una piccola gerla (“lu garbinòt”) quando mancavano gli uomini (per malattia, servizio militare, morte, emigrazione, ecc…)

Sparsa la terra in modo uniforme, bisognava zappare, concimare e tracciare i solchi paralleli.

Zappare era una faticaccia. La terra è bassa e incredibilmente dura da frantumare con la zappa, colpo dopo colpo. Dopo un po’, la schiena e le braccia mandano segnali di dolore. Le mani che stringono il manico della zappa protestano per il bruciore delle vesciche e dei calli. Il lavoro non è finito e allora si tira avanti sotto il sole che scotta o nella nebbia fredda o nel vento che sbatte in faccia i granelli di polvere.

Per concimare si usava il letame che però non nasceva nel campo, ma lontano nella stalla. Al principio esso è una massa informe, incoerente di “bùʃe”, paglia, foglie secche bagnate dall’urina delle bestie: un pasticcio puzzolente. Come diventerà concime? Come farà il suo viaggio dalla stalla al campo? Quanto tempo ci metterà?

Ci metterà qualche mese. Proprio così. Nella stalla lo caricano con il tridente sulla carriola (o sulla “sivìri”, una rudimentale barella), lo ammucchiano nei pressi di casa e lo lasciano lì a fermentare, tanto che nel mucchio (“lu iamèi”) è perfino caldo, ma per affrettarne la maturazione ogni tanto lo girano. In autunno e in inverno, tra un lavoro e l’altro, i contadini trasferiscono il letame con la gerla o, dove possono, con la slitta, in cima ai prati e ai campi da concimare. Lo riammucchiano, lo ricoprono di terra, di frasche perché continui a ‘maturare’ nei mesi seguenti. A primavera il letamaio sarà una massa compatta, omogenea da grattare con un rastrello di ferro per avere il concime soffice e leggero, che verrà sparso in modo uniforme sul terreno con il tridente. Il letame fresco pesa come la terra nel “garbìń” e lascia addosso a chi lo maneggia un inconfondibile odore di stalla, sgradito ai giovanotti e alle signorinelle che alla domenica andavano in chiesa e a ballare. Avevano un bel lavarsi con le saponette profumate, strofinarsi con la salvia, la lavanda o il rosmarino! L’odore resisteva persino a qualche goccia di profumo, comperato di nascosto al mercato o regalato da qualche emigrato in Francia. L’odore del letame spuntava sotto i pizzi della camicetta bianca della festa…

pag. 72 Questo tema di Silvina Giacone, datato 1928 è molto eloquente. Nella sua semplicità racconta la fatica del montanaro, che porta con la gerla in alto la terra che naturalmente è dilavata in basso. Poi la preparazione del terreno, la concimazione, la semina delle patate. E infine la nota di orgoglio di una bambina delle elementari che si sente capace di dare una mano al “babbo” in un lavoro così faticoso.
Un’immagine di cinquant’anni fa, a Piano Stefano (“Pianastèiva“) si sparge a mano il letame (“iàm”) nei prati ripidi, sullo sfondo il vallone dell’Indiritto, con la chiesa di San Giacomo al Marone, la valle del Sangonetto che risale a Pian Gorai e al Col del Vento ancora innevato. (Fotografia di Bruno Gallardi)

Trifule, fil d’èrba e pasaròt

Adesso torniamo nel campo a seminare le patate (“trìfule” in coazzese). Quando diciamo “seminare” pensiamo ai chicchi di grano sparsi in terra e ricoperti. Le misteriose patate non si seminano, si piantano nella terra. Non tutte intere per non sprecarle. Se prendiamo in mano una patata, vediamo sulla buccia dei segnetti a forma di occhio piccolo piccolo. Da questi segnetti nascono i germogli di una nuova pianta, come si può vedere dalle patate che teniamo in casa. Il contadino taglia a pezzi le patate avendo cura che ogni pezzo abbia il suo occhietto germogliante, ne riempie una cesta col manico, “la curbéla”, va a collocarli nei solchi, con il germoglio rivolto verso l’alto, li ricopre di terra. Per il momento non fa altro, ma il lavoro non è finito. Con il passare dei giorni il germoglio sottoterra si spinge in alto verso la luce e buca la terra. Dopo un po’ si vedono affiorare i ciuffi di foglie verdi che si trasformano poi in piantine che sfoggiano mazzetti di fiorellini bianco-rosati. L’estate riscalda il terreno e il campo di patate si trasforma in giardino. I frutti di quei fiorellini non si mangiano, ma nel segreto, sottoterra avviene un miracolo: le radici producono qualcosa di strano.

E il contadino torna al lavoro per rincalzare le piantine e così conservare l’umido della terra e dopo a “scalzarle” per assicurare alle piantine l’ossigeno. Le cura in questo modo per evitare di farle marcire o seccare. Questi lavori vanno fatti al tempo giusto, a colpetti precisi di zappa, attenti a non danneggiare le piantine, senza sapere se sottoterra il raccolto sia buono o no. Le patate hanno molti nemici: le piogge troppo violente, la siccità prolungata, il vento ‘marino’ che fa afflosciare gli steli e annerire le foglie, certi insetti che succhiano la linfa che, per le piante, è come per noi il sangue. A volte il contadino non resisteva alla tentazione di vedere cosa c’era sotto la crosta dei solchi. Piano piano tirava su una piantina e guardava le palline bianchicce, grosse come mirtilli, ciliegie o noci e dal loro numero cercava di farsi un’idea del raccolto. Quelle palline erano le patatine neonate, ossia i tuberi attaccati alle radici. La verità sul raccolto la sapeva solo quando, seccata la piantina fuori terra, con la zappa bidente (“biciàr”) sconvolgeva i solchi, tirava fuori i tuberi che piacciono a tutti. E anche questa è una stranezza. La patata non è un ortaggio bello come i pomodori, colorato come le carote che pure crescono sottoterra, non ha il profumo dei cugini tartufi; non ha fiori appariscenti per abbellire i giardini. Per di più le patate sono insipide. Non avete mai provato ad assaggiare una patata cruda? Sono dolciastre, ma non dolci, non sanno di niente.

pag. 72 – Un tempo i campi arrivavano fino alle case di Giaveno e all’interno dell’abitato c’erano diverse cascine.
pag. 72 I campi pianeggianti nei dintorni di Giaveno erano più facili da coltivare e la raccolta delle patate avveniva in grande stile. Ma si dice che le patate di montagna sono migliori, sicuramente chi le ha prodotte con fatica le gusta di più.
pag. 72 Raccolta delle patate (“trìfule“) in montagna, Costantino Picco lo fa con la zappa bidente, “biciàr“, classico attrezzo per quell’operazione

Eppure gli antichi nominati nei vostri libri di storia, fossero pure imperatori e condottieri come Alessandro Magno, Giulio Cesare, l’imperatore Augusto, non assaggiarono mai le patate fritte. E neppure Carlo Magno, Dante Alighieri, Giotto, San Francesco! Già, perché la patata viene da lontano e le sue origini sono piene di mistero e di avventure… Si dice che crescessero spontanee a 3000 metri di altitudine sulle Ande e gli Spagnoli, dopo che Colombo scoprì l’America, le trovarono in Messico, in Perù, in Cile. Le portarono in Europa come una curiosità nel millecinquecento su navi a vela, fragili come le caravelle di Colombo, sbatacchiate dalle tempeste dell’Atlantico per mesi. Chissà come saranno state festeggiate al loro arrivo! Non vi fate illusioni, ragazzi. Suscitarono l’interesse dei curiosi perché erano una rarità, ma non l’entusiasmo, non vennero apprezzate per quel che valevano. Infatti erano bruttine, senza trucco e rossetto, di un colore marrone spento. Inoltre, dopo mesi di navigazione erano un po’ appassite. La buccia era spessa, con rughe e bitorzoli! L’apparenza inganna. Gli apparenti difetti nascondevano le grandi virtù della patata che oggi tutti conoscono. Passò più di un secolo prima che la gente se ne accorgesse e cominciasse a coltivarla nei campi in Francia e in Europa. La patata cresceva bene dappertutto nei terreni asciutti, ma le più buone erano e sono quelle di montagna. Forse un lontanissimo ricordo delle Ande che nutrirono le loro antenate?

Quando in Europa e nel mondo ci furono le carestie, le patate salvarono la vita a milioni di persone. Diventarono un prodotto fondamentale nell’economia di tanti Paesi, tra cui l’Irlanda. Qui nel 1845 accadde un fatto grave: l’intero raccolto delle patate marcì e ci furono mezzo milione di morti di fame. Gran parte della popolazione emigrò specialmente negli Stati Uniti, così grandi e ancora poco sfruttati. Tra le famiglie che emigrarono ci fu anche la famiglia Kennedy da cui discenderà il Presidente John Kennedy. Anche le patate possono cambiare il corso della Storia.

La bisnonna si è distratta di nuovo divagando sulle patate, gli oceani, gli emigrati, ora torna alle pendici dei suoi monti che in primavera brulicavano di gente che lavorava, magari fischiettando o cantando. Un lavoro leggero era la pulizia dei prati. Con il rastrello si toglievano i legnetti, i sassi, le porcherie trasportate dal vento o dall’acqua del disgelo. Nei prati pettinati a dovere, spuntavano fili d’erba sottili sottili, primule e margheritine coraggiose, tutti affamati di concime, per trasformare il prato in un tappeto di velluto punteggiato di corolle. Con il bel tempo spuntavano anche le erbacce. Allora il contadino afferrava un coltello e una zappetta, stroncava con rabbia i rovi, le erbacce e i cespuglietti nemici del prato.

Le persone che lavoravano curve, a stento si accorgevano dei miracoli della natura: la luce diventava più forte e allungava le giornate, il sole tornava a scaldare, gli alberi neri mettevano fuori gemme e foglioline tenere che tremavano al venticello. Gli zappatori si toglievano la giacca, il corpetto, il maglione di lana e li appoggiavano ai cespugli. Si arrotolavano le maniche della camicia per lavorare più sciolti. Intorno a loro la grande orchestra dei merli, delle capinere, dei passeri, delle rondini: una sinfonia di note, di trilli, di gorgheggi senza un direttore d’orchestra con la bacchetta… Le cime, ancora imbiancate, sorvegliavano dall’alto le valli in faccende.

A dire la verità i giorni primaverili non erano tutti così. Poteva cadere mezzo metro di neve a Pasqua o nevicare sulle foglie d’aprile. Spesso cadeva la pioggia per giorni e giorni o la nebbia fitta ricacciava la gente, vestita di lana, nelle stalle; ma alla fine il sole caldo vinceva le nuvole e allora il mondo pareva tutto trasformato: l’erba appariva più verde e allungata, le foglioline più grandi e più fitte. La stagione del freddo era proprio terminata.

Nei giorni bui a volte si vedeva nei campi una figurina nera con l’ombrello o un sacco di iuta in testa, la zappa in mano. Era un montanaro che sorvegliava i canaletti, i muri di sostegno, i terreni fangosi. Cessate le piogge i campi erano tutto un via vai di gente dal mattino alla sera.

La neve invernale resiste sui monti, ma a valle la natura impaziente sboccia dalla terra appena liberata. Fotografia di Bartolomeo Vanzetti.
Fioriture di primavera, fotografia di Luigi Darbesio
Foto di Luigi Darbesio.
Foto di Bartolomeo Vanzetti.
Cinciallegra, fotografia di Giorgio Chiaranda.

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