I lavori e i cibi di ogni giorno – pomeriggio, il pascolo e la vipera

Cap. 6° /3 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

3) POMERIGGIO

La bisnonna ha perso il filo del racconto. Si è lasciata trascinare dal profumo della bagna cauda, dal sapore del pane di una volta. Stava raccontando come trascorrevano le giornate gli abitanti delle borgate. Ma dov’era rimasta? Ah, già! A pranzo, davanti a una polenta dorata. Ma intanto i borghigiani erano già sciamati nei campi a riprendere i lavori del mattino. Mica avevano fatto il riposino!

D’estate, verso le quattro o le cinque pomeridiane, qualcuno tornava a mungere di nuovo le mucche prima di portarle al pascolo. Tante volte, nell’uscire dalla stalla, le madame mucche: plaf, plaf, lasciavano cadere le “bùʃe” nel cortile scopato e pulito. Le donne, arrabbiate di dover pulire di nuovo, le sgridavano e le spingevano via con il manico della scopa. 

(Foto di Bartolomeo Vanzetti)
Mucche al pascolo: i fili elettrificati hanno ormai sostituito la presenza costante dei pastori.

Le mucche al pascolo. – Portare le mucche al pascolo non era considerato un lavoro. Era compito dei ragazzi e dei nonni. D’estate si andava al pascolo due volte al giorno: al mattino prestissimo e verso il tramonto. Nelle mattine d’estate il tempo del pascolo a volte si tingeva di giallo. Se un ragazzo o una ragazza era andato al pascolo da solo, a una certa ora, le mucche, abitudinarie, tornavano a casa senza l’accompagnatore. Come mai? Se c’era un nonno, questi, dopo un bel po’ di inutili richiami, riportava le bestie nella stalla e metteva in allarme i famigliari. Si facevano le ipotesi più nere mentre si correva a setacciare il bosco: una serpe, una caduta nel burrone? Tutti gridavano il nome del malcapitato con ansia e timore. Infine lo ritrovano, addormentato, nell’erba bagnata di rugiada. Non aveva sentito neppure il gran chiasso dei soccorritori!

L’estate non era una “vacanza” per nessuno. Il pascolare non era un vero lavoro. Però… bisognava impedire alle mucche di sconfinare nelle proprietà dei vicini, di lanciarsi ingorde nell’erba destinata al pascolo del giorno dopo o peggio, sotto ai meli a ingozzarsi di mele acerbe a rischio di morire soffocate. “Guài, guài a mài!” Non per niente i prati e i boschi risuonavano di richiami: “Venésia vìrte!” ”Luna, bòia fàuss, andaré” “Savoia veni issì!” Persone e animali si capivano benissimo, ma le mucche, quando a loro conveniva, facevano finta di non sentire e continuavano a brucare l’erba proibita. Allora bisognava rincorrerle con il bastone o mandare il cane: “Fido arvíra la Mùsca!”[1] e il cane schizzava verso la “Mùsca”, la faceva voltare abbaiando e non si sbagliava mai. Le mucche conoscevano le voci, anche da lontano, e a qualcuno della famiglia obbedivano più che agli altri. Ma c’era un sistema quasi infallibile per farsi obbedire. Chiamarle per nome, una volta arrivati al pascolo e porgere a ciascuna un po’ di sale sul palmo della mano. Esse lo leccavano avidamente con la lingua ruvida, lanciando occhiate oblique di soddisfazione. Così durante il pascolo, sentendosi chiamare, accorrevano pensando al sale. Durante la guerra il sale non si trovava più neppure per le persone; la tecnica dei riflessi condizionati dovette funzionare con bucce di frutta e avanzi di verdura. Le donne, mentre sorvegliano le mucche, filavano col fuso lana o “rìsta” (canapa) o sferruzzavano maglie, calze e calzettoni per tutta la famiglia. Smettevano soltanto, per un momento, quando le mucche diventavano inquiete, scappavano o si prendevano a cornate. I ragazzi al pascolo sovente si annoiavano e allora tiravano fuori i giornaletti dalla camicia oppure si mettevano ad osservare le formiche o le nuvole oppure andavano in cerca di mirtilli, di fragole e magari… perdevano le mucche. Che sgridate allora!

Pascolare le mucche nei dintorni delle “preʃe” era meno impegnativo per l’ampiezza del terreno a disposizione. Non mancavano i problemi anche lì. Gli adulti erano impegnati nei campi e nei prati e il bestiame era affidato a un bambino e al cane. Le mucche potevano sbandarsi, poteva scatenarsi un temporale, l’acqua per farle bere era lontana, la nebbia piovigginosa poteva cancellare i meravigliosi panorami che rallegravano l’anima. Nel grigiore i “rudùń” (campanacci) si sentivano appena. Si perdeva l’orientamento e la nozione del tempo: i ragazzi non avevano l’orologio e i riferimenti al sole e alle ombre andavano perduti.

pag 57 – La civiltà contadina non conosceva il tempo libero, sempre qualche lavoro da fare.
Maria Rege Gianas intenta a filare. Borgata Chianalotto, 1935. (Foto da Maria Giovale, in Coazze … come eravamo)
Celeste Boero, presso B.ta Botta 1924 (Foto da Giulia Alloa, in Coazze … come eravamo)

Neppure le giornate di sole erano tutte allegre. Le cose sembravano immerse nella uniformità e nella monotonia. La solitudine pesava come un macigno. Unica compagnia il cane, amico fedele e affettuoso. E allora i nostri pastorelli, come quelli dei millenni passati (tramandati dai graffiti, dalle opere letterarie), cantavano e si costruivano uno zufolo, sfilando la corteccia di un ramo tenerello. Il canto e la musica erano il sale delle loro giornate. Qualche volta incontravano altri pastorelli e allora si giocava, si scherzava, si bisticciava. Le ore scorrevano veloci… ed era ora di rientrare.

Pensare oggi alla solitudine dei ragazzi ai pascoli alti fa venire i brividi. La montagna allora era tranquilla. Non c’erano i lupi, i cani randagi, le vipere erano rare e concentrate in determinati posti. Le persone che passavano erano benevole. Anche gli sconosciuti discorrevano o salutavano come amici.

A proposito di vipere, la bisnonna ne ha vista una su un sentiero vicino al Colle Bione quando aveva dieci anni. Non si è spaventata perché suo padre, che camminava davanti a lei, l’ha vista per primo e per poco non l’ha pestata. La bisnonna non ne aveva mai viste. Conosceva le serpi, i ramarri che incontrava andando a scuola in primavera, ma per fortuna, non aveva mai incontrato una vipera. Non ha più dimenticato quella testolina triangolare, il muoversi lento del corpo, lungo poco più di mezzo metro, tra gli arbusti e i sassi, la codina breve che terminava bruscamente; il colore di quella era un intreccio di grigio chiaro e scuro e di nero, ma può variare. Era molto diversa dalle serpi, che possono anche avere, qualche volta, quel colore, ma sono lunghe, snelle, velocissime nel fuggire e, soprattutto, innocue. Ora in montagna e nelle campagne le vipere si sono moltiplicate. I ragazzi sui percorsi delle vecchie borgate devono farsi accompagnare da un adulto, vestire pantaloni lunghi e scarponcini e, poiché da ferme si mimetizzano, bisogna fare attenzione a dove si appoggiano le mani, i piedi e il sedere. Le vipere non attaccano l’uomo, ma se sono disturbate o calpestate reagiscono con il morso e in questo caso sono veloci. Buona cosa è anche portarsi dietro il siero antivipera che si trova in farmacia. Ma non è il caso di esagerare con la paura. Può darsi che non ne incontriate mai e poi mai. Buone passeggiate!

Il gallo sa difendersi anche dalle vipere, come si vede in questo curioso filmato.
L’arte di intrecciare “cavàgn e curbéle” è conosciuta ormai da pochi, che la proseguono quasi come un hobby.

Nei giorni di maltempo – Gran parte delle attività delle borgate si svolgono all’aperto. Qualcuno può pensare che nei giorni di maltempo o quando la neve ricopre tutto, i montanari facciano delle gran dormite nel paglione della stalla. Non è così. In quei giorni la casa risuonava di martellate, di colpi di scure, dello stridere delle seghe. Gli uomini spaccavano la legna, aggiustavano attrezzi e scarpe, fabbricavano ceste, rastrelli, scope e “ramasòt” per raccogliere le foglie secche più restie. Si preparavano ai grandi lavori della bella stagione. Le donne cucivano e rammendavano, lavoravano a maglia o filavano. Mentre facevano queste cose, spesso cantavano le canzoni che avevano imparato dai vecchi o al tempo della loro gioventù, specie se c’erano parenti o amici in visita. E veniva di nuovo l’ora di rigovernare le bestie, mungerle, curare la stalla perché le mucche e le capre non erano andate al pascolo.


[1] Traduzione: “Venezia, girati! “Luna, boia fauss (è un’imprecazione) torna indietro!” “Savoia, vieni qui!” “Fido fai voltare la Musca!”

Commenti e ricordi

Moncetin Monce Nel racconto c’è il profumo dei tempi andati… Riguardo il siero antivipera, non lo fanno più…

Federico Dovis Occhio che il siero antivipera non si somministra più e in farmacia non lo si trova. Se si viene morsi l’unica è dirigersi all’ospedale che, con antibiotici vari, risolvono il problema del morso.. esperienza personale!

Guido Ostorero Ricordo che “Custantìń e Aldo du Sèt” erano specializzati nel catturare vipere (il pilone del “Püpiùń” ne pullulava), in pantaloni corti e scarpe da ginnastica Aldo. Poi le portavano in farmacia per recuperarne il veleno.

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