Giaveno – IV marzo, la via Cenerentola e il re Cenerentolo

Anche nella toponomastica ci sono gerarchie, nello stradario di Giaveno via Roma o Viale Regina Elena sono note a tutti, via 1° maggio o via XX settembre rimandano a date che quasi tutti sanno a cosa corrispondono. Nel centro storico stretta, corta e curvilinea c’è via IV Marzo, che collega Piazza Ruffinatti a Via Cardinal Maurizio di Savoia, costeggiando l’ex scuola elementare Anna Frank. Credo che ben pochi si domandino il perché di una via intitolata a questa data. Ancor meno sono quelli che saprebbero rispondere.

Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto, re di Sardegna, Cipro,  Gerusalemme, ecc. ecc. “concedeva” lo Statuto. Una Carta Costituzionale che verrà estesa nel 1861 al Regno d’Italia e che, pur stravolta dagli emendamenti fascisti, resisterà fino al 1° gennaio 1948, quando nell’Italia ormai repubblicana entrerà in vigore l’attuale Costituzione.

Anche Carlo Alberto fu un po’ un “cenerentolo”. Figlio del principe di Carignano, ramo collaterale dei Savoia, che simpatizzando per la rivoluzione francese rinunciò al titolo, recuperò il titolo di conte quando sua madre, rimasta vedova si risposò, trascurandolo. Ma nel 1814 Vittorio Emanuele I, re di Sardegna senza figli maschi, lo chiamò a Torino designandolo suo successore. Gli dettero in moglie la nipote dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, da cui ebbe tre figli. Non mancarono umiliazioni per Carlo Alberto “cenerentolo”, l’etichetta di corte sottolineava continuamente che era solo un conte, ad esempio alle feste non poteva entrare insieme alla moglie, “altezza reale”, ma solo dopo, da solo. Quando scoppiarono i moti del 1821,  Vittorio Emanuele I, da convinto “restauratore” preferì abdicare piuttosto di concedere la costituzione, ma ritenendolo troppo giovane e inaffidabile, designò il fratello Carlo Felice come successore e, visto che questi era in visita a Modena, affidò la reggenza a Carlo Alberto. Che concesse la costituzione agli insorti guidati da Santorre di Santarosa. E qui arrivò lo schiaffo più sonoro per Cenerentolo. Lo zio lo sconfessò, gli fece revocare la costituzione, gli fece promettere che mai ne avrebbe concessa un’altra e poi lo mandò a reprimere gli insorti spagnoli che resistevano a Cadice, asserragliati nella fortezza del Trocadero. Accettando tutto questo Carlo Alberto finalmente nel 1831 diventò Re di Sardegna. Anche sul trono proseguì il suo percorso ondivago, come se le simpatie liberali dei genitori continuassero a scontrarsi col conservatorismo degli zii. Carducci lo chiamò “Italo Amleto”, altri “Re Tentenna”. Non perché era un perticone alto più di due metri, ma perché alternava slanci liberali e riformistici a chiusure assolutistiche.

Carlo Alberto Emanuele Vittorio Maria Clemente Saverio di Savoia-Carignano, nato a Torino, a palazzo Carignano il 2 ottobre 1798, morto ad Oporto in Portogallo, il 28 luglio 1849 dopo aver perso la Prima guerra di indipendenza ed avere abdicato in favore del figlio Vittorio Emanuele II. E’ stato Re di Sardegna dal 27 aprile 1831 al 23 marzo 1849. Il suo nome è soprattutto legato alla prima costituzione italiana, lo Statuto, detto appunto Albertino.

Lo Statuto Albertino rispecchia queste contraddizioni, concede ma non troppo.

Venne concesso nel marzo del 1848 sull’onda della Rivoluzione di Febbraio di Parigi, ma prendendo a modello le costituzioni francesi precedenti, proprio quelle che gli insorti stavano contestando in quel momento. Il testo venne redatto in francese, perché come detto i testi di riferimento erano in francese, e poi tradotto in italiano, l’altra lingua ufficiale dello stato. Tra i consulenti giuridici, come ricordato in un altro articolo, c’era il giavenese Conte Federico Sclopis di Salerano.

Lo Statuto è “concesso” (“octroyé” in francese), è il Re (che è tale “per grazia di Dio”) che rinuncia a una parte dei suoi poteri assoluti.

La religione di stato è quella cattolica, le altre sono solo “tollerate”.

Lo Statuto albertino pose le basi per uno Stato liberale e monarchico, prevedendo la separazione dei poteri, ma attribuendoli tutti al re, che li esercitava congiuntamente con gli altri organi costituzionali:
• il potere esecutivo spettava esclusivamente al re, che poteva nominare e revocare i ministri secondo il proprio volere;
• il potere legislativo era esercitato dal re e dal Parlamento, formato dalla Camera dei deputati, eletta a suffragio ristretto su base censitaria, e dal Senato del Regno, composto da membri nominati a vita dal sovrano: un sistema bicamerale, quindi, in cui il re manteneva il diritto di veto sulle leggi approvate dalle Camere. L’unico forte potere di controllo che lo Statuto riservava al Parlamento era l’obbligo di sottoporre qualsiasi normativa in materia tributaria alla preventiva approvazione della Camera dei deputati;
il potere giurisdizionale competeva alla Magistratura, formata da funzionari nominati dal re, che amministravano la giustizia in suo nome.

La serenità con cui il Re firma lo Statuto circondato dai suoi ministri e consiglieri non rende l’idea del travaglio costatogli. Pressato dagli avvenimenti parigini fin dai primi di febbraio accenna a delle concessioni per placare gli animi e, come attesta la cronaca di quei giorni, fino all’ultimo tentennerà-

I diritti dei cittadini erano proclamati in nove articoli dello Statuto (dal 24 al 32) con cui erano riconosciute le libertà fondamentali: il principio di eguaglianza (art. 24: «tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla Legge. […] Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessi alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi»). Riconosce formalmente la libertà individuale (art. 26), l’inviolabilità del domicilio (art. 27), la libertà di stampa (art. 28), la libertà di riunione (art. 32). Si trattava, però, di un riconoscimento formale, in uno Stato che, fondandosi sul suffragio ristretto, riconosceva il diritto di voto al 2% della popolazione. L’ampiezza dei diritti poteva inoltre essere limitata per legge o per ragioni di polizia e pubblica sicurezza.

Era sicuramente un passo avanti rispetto all’assolutismo, ma il potere del re era appena scalfito e il voto censitario premiava soprattutto la ricca borghesia, che d’altra parte era la classe sociale protagonista dei moti e sarà l’anima del Risorgimento italiano.

Restano da sottolineare due caratteristiche giuridiche che indeboliscono ulteriormente lo Statuto:

la flessibilità, esso è emendabile con semplice legge ordinaria. Ciò consentirà al fascismo di instaurare una dittatura modificandolo, senza mai abrogarlo.

La brevità, esso enuncia genericamente diritti, doveri, princìpi. Questo lo ha reso fluido, interpretabile, adattabile a mutate esigenze e situazioni e quindi longevo. Fu la sua forza ma anche la sua debolezza.

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