Don Gianni Gili, la ruspa e la fede

“L’andrèc”, il versante solatìo delle valli, è il migliore, il più fertile. Forse per questo la “Drèc”, la frazione Indiritto di Coazze è stata feconda di grandi personaggi. La chiesa sulla roccia ha attirato e forgiato personalità d’eccezione. A partire dal Trappista Carlo Emanuele De Meulder che a fine Settecento questa chiesa l’ha costruita e ha seminato “nel deserto di Coazze” cultura e laboriosità. Parroci di spicco si sono susseguiti, l’ingegnoso Don Rachetti, l’audace Don Tabbia imperterrito di fronte alle minacce naziste, Don Bruna attivo nell’inutile tentativo di arginare l’esodo e infine Don Gianni Gili, che ci ha lasciato l’8 giugno 2009.

Credo che la fede nelle sue iniziative fosse forte come la sua fede in Dio. Contro ogni evidenza credeva si potesse vivere con le risorse della montagna, a patto di unire le forze, e fondò la Coopindi, pronto ad allargarne gli ambiti di attività quando si accorse che agricoltura e legname non bastavano. Quando decise di costruire la strada per Piano Stefano non esitò a diventare minatore per tagliare la roccia che impediva il suo proposito. Quando decise di portare l’acqua al Col Bione, gli dissero “ a l’è mëch d’sim” (è solo fanghiglia), ma ora la fontana c’è e ristora il turista e completa le feste di giugno e di agosto. Don Giuseppe Bruna diceva che la strada che aveva fatto arrivare al Marone per trattenere la gente era solo servita a farla andar via. Don Gianni credeva nelle strade come premessa alla valorizzazione delle borgate e alla ristrutturazione delle baite cadenti. Sgombrava la neve, tagliava alberi, trasportava tronchi, faceva brillare le mine e rombare le draghe. Un prete operaio, si, ma soprattutto un prete. Accompagnava il restauro materiale della parrocchiale e delle cappelle del Col Bione e di Pian Gorai, con l’attenzione spirituale alla sua piccola comunità. Non solo con le messe di borgata, la continua assistenza ai parrocchiani, ma anche con un atto d’amore e di umiltà che mi ha sempre colpito. In poco tempo ha imparato non solo a comprendere ma anche a parlare il patuà locale francoprovenzale. Aveva capito che la via per diventare uno di noi era condividere la nostra parlata. Come facesse a conciliare l’intensa e snervante mansione di imprenditore con i capillari rapporti con la sua gente di Indiritto e Valgioie e con le richieste più disparate che sfruttavano la sua disponibilità  rimane un mistero. Sempre attivo, sempre in movimento, sempre ricettivo, forse sentiva che il suo tempo fuggiva. Ci ha lasciato troppo presto Don Gianni, l’8 giugno di 12 anni fa, aveva solo 65 anni, ma una vita così intensa e generosa non possiamo definirla breve. La definirei ricca, se non sapessi che questo aggettivo a Don Gianni non piaceva, tanto da chiudere il suo testamento spirituale con questa frase: “Sono infinitamente riconoscente al nostro Dio che mi fece nascere povero e morire povero, questo mi ha permesso di confidare esclusivamente in Lui e non nei beni terreni e di lasciarmi quindi totalmente libero!”

Ricerca di parole: I Parroci dell’Indiritto

Don Gianni Gili (Villastellone 15 agosto 1943 – Coazze 8 giugno 2009)
Un’immagine più consueta di don Gianni: alla festa del Col Bione, vestito da montanaro con gli scarponi e lo zaino accanto, che chiacchiera con Marco da Meisuntë.
Sempre indaffarato Don Gianni, ma quando nel 1982 gli abbiamo chiesto di venirci a trovare al campeggio ACLI del Ciargiùr ci ha detto di si con entusiasmo e la messa celebrata all’aperto nel cortile dell’attuale rifugio Mario Bergeretti è un bel ricordo, che accomuna due persone generose.
 Nel 2019, a 10 anni dalla morte, è uscita una biografia completa di Don Gianni: “Don Gianni Gili: da Villastellone a Indiritto di Coazze e Valgioie” (edito dal Graffio), scritto da Caterina Nicco e Luca Toschino, villastellonesi, in collaborazione con la coazzese Lucia Gillo e i soci dell’associazione onlus “Don Gianni Gili”.
Nel numero del 14 giugno 2009 il settimanale “La Valsusa” ha corredato la cronaca dei funerali di Don Gianni Gili con i commenti di chi lo ha conosciuto, tessere che hanno composto un mosaico di generosità e tenacia, le doti con cui Don Gianni si è fatto amare ed ha amato la nostra valle.
Don Gianni aveva un rapporto diretto con tutti i suoi pochi parrocchiani della Drèc, ma credo che il legame più forte fosse con Giàn d’Téru, che lo chiamava “fratellino”.

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