Com’è nato l’italiano consapevole

Per conoscere l’origine dell’italiano si sono confrontate le varie fasi dell’evoluzione linguistica del latino. Partendo da un termine iniziale (il “latino classico”, I secolo a.C.) ed un termine finale (i volgari romanzi, cioè le diverse lingua parlate nella Romània) si è costatato che fino ad una certa epoca il latino, pur con diverse pronunce a seconda delle varie parti dell’impero in cui veniva scritto e parlato, era una lingua unitaria, percepita dai parlanti come lingua comune, condivisa. Poi, a poco a poco, si è visto che la struttura fondamentale di quella lingua era diventata più simile al secondo termine che al primo, perché erano comparse trasformazioni fonetiche, lessicali, morfosintattiche così profonde da far parlare di una lingua nuova. Questa evoluzione è avvenuta sicuramente prima nel parlato, ma i primi documenti scritti risalgono per il volgare francese all’842 d.C. (Giuramenti di Strasburgo) e per i volgari italici (volgare campano al 960 d.C. Placiti di Capua). In questi documenti è chiara la consapevolezza di chi scrive di stare scrivendo in una lingua diversa dal latino. … vedi pdf

PLACITO DI CAPUA

Fa parte di quattro placiti cassinesi (o placiti campani), ossia quattro testimonianze giurate, registrate tra il 960 e il 963, sull’appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa e Teano. Sono i primi documenti di volgare italiano scritti in un linguaggio che vuol essere ufficiale e dotto. L’atto notarile riguardava una lite sui confini di proprietà tra il monastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale. Con questo documento tre testimoni, dinanzi al giudice, deposero a favore dei Benedettini, indicando con un dito i confini del luogo che era stato illecitamente occupato da un contadino dopo la distruzione dell’abbazia nell’885 da parte dei saraceni. La formula del placito capuano fu inserita nella stessa sentenza, tutta scritta in latino, la lingua ancora utilizzata per i documenti ufficiali, e ripetuta per quattro volte in modo molto simile.

Il testo in volgare del solo placito capuano è il seguente (Capua, marzo 960):

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti …

 Ciò sarebbe dovuto alla necessità di trascrivere fedelmente le testimonianze di persone poco avvezze all’uso del latino. Ma, osserva Bruno Migliorini, autore di una indimenticabile Storia della lingua italiana, dal momento che i testimoni erano tutti chierici o notai si presume che sarebbero stati in grado di pronunciare la formula in latino e, se questo non è stato, evidentemente costoro avevano ritenuto opportuno far conoscere il contenuto a tutti quelli che erano presenti al giudizio.

LATINISMI: FINI invece di confini

ITALIANISMI: finali in vocale (fini, anni, contene, possette); trenta (triginta); ko residuo di quod che più tardi confluirà con ca, che, ched nell’unica foma che; kelle (dimostrativo campano); sao (forma arcaica per “so”, autonoma sia da SAPIO sia da SACCIO).

Testo dettagliato predisposto dalla professoressa Patrizia Truffa, in versione pdf.

INDOVINELLO VERONESE

Scoperto nel 1924 su un codice della Biblioteca Capitolare di Verona, è contenuto in un manoscritto forse prodotto a Tarragona agli inizi dell’VIII secolo nell’ambiente dei cristiani della Spagna musulmana. Il codice manoscritto viaggiò attraverso l’Italia, prima in Sardegna e poi a Pisa, e passò anche a Verona: è qui che un copista aggiunse l’indovinello; si era alla fine del secolo VIII o agli inizi del IX. Tradizionalmente l’indovinello è interpretato come metafora dell’atto di scrittura e si basa sull’accostamento tra il lavoro dello scrivano e quello dell’aratore. Le prime quattro righe sono scritte in un volgare che risente ancora molto dell’influenza latina; l’ultima riga è una formula di ringraziamento in latino classico. Si può quindi pensare che l’indovinello abbia un carattere colto e che fosse diffuso tra gli scrivani. L’uso del volgare non ha apparente motivazione: si tratta di un esercizio di abilità da parte di uno scrivano. È indubbio che l’Indovinello segni un punto di svolta nella trasformazione del latino in volgare, ma sono volgarismi inconsci in esametri latini o c’è la volontà di scrivere in volgare?

Se pareba boves,

alba pratalia araba,
(et) albo versorio teneba,

(et) negro semen seminaba.

Gratia tibi agimus omnipotens sempiterne Deus.

Traduzione:
Spingeva avanti i buoi, arava bianchi prati. Teneva un bianco aratro, seminava un nero seme. I “buoi” sono le dita della mano, i “bianchi prati” sono il foglio di carta prima della scrittura, il “bianco aratro” è il calamo (di penna d’oca), il “nero seme” è la traccia lasciata dall’inchiostro.

LATINISMI: b intervocalica (in italiano diventerà V); alba (invece dell’italiano bianco); presenza della N finale in SEMEN.

SISTEMA MORFOLOGICO ITALIANO: -O finale e non –UM; caduta della –T finale.

VERSORIO = così era indicato l’aratro nel dialetto veronese.

Tipici del veronese sono i verbi all’imperfetto indicativo in –eba invece dell’-aba o –ava di altri dialetti.

BOVES ha la S finale latina e la V dialettale

Dopo il Mille documenti simili divennero sempre più frequenti, attestando il diffondersi e rafforzarsi progressivo del volgare e l’intenzione di usarlo con scopi o con caratteri differenti fino ad allora usati. Tuttavia, il latino restò ancora, per tutto il 1200 e oltre, lingua della cultura ed occorsero parecchi secoli perché il volgare italiano, divenuto ormai lingua letteraria e culturale, raggiungesse tutti i settori del sapere.

Analisi testuale

Sisinnio (e i suoi servi) parlano in volgare, con influenze romanesche. Da notare che le espressioni de le e co lo sono già preposizioni articolate, che non esistevano in latino.  San Clemente (la colonna) si esprime in latino attraverso una  libera citazione dalla Passio, dove il testo suona così: “Duritia cordis tui in saxa conversa est, et cum saxa deos aestimas, saxa trahere meruisti.” (La durezza del tuo cuore è convertita in pietra; e poiché stimi dei le pietre, hai meritato di trascinare pietre). Probabilmente la citazione è stata abbreviata per adattarla allo spazio disponibile nell’architettura dell’affresco. Nella nuova versione, la frase non solo è stata volta al plurale (vestris, meruistis); ma soprattutto non rispetta più la sintassi e le concordanze nella flessione nominale (duritiam invece della forma dell’ablativo: “duritia”, che ora sarebbe necessaria; vestris invece di: “vestri”, come richiederebbe la concordanza); traere. invece della forma corretta: “trahere”. Evidentemente il pittore, o colui che gli dettava il testo, non aveva più familiarità con l’uso latino. Far parlare il Santo in latino, anche se sgrammaticato, poteva avere varie motivazioni. Segnare il distacco tra la volgarità dei persecutori pagani e la cultura di San Clemente, ricordare che la lingua della Chiesa rimaneva il latino o, semplicemente, riportare quanto si leggeva nella “Passio” citata.      

Si trova vicino al Colosseo, a poche centinaia di metri dai Fori imperiali e dal Campidoglio, che attirano folle di turisti, ma non è troppo visitata la Basilica di San Clemente, eppure vi è stratificata la storia di Roma. Gli scavi di metà Ottocento hanno portato alla luce un mitreo, luogo di culto del dio orientale Mitra, di origine orientale e molto diffuso tra i soldati. Sopra vi è stata edificata la “basilica antica”, del V secolo, devastata durante il saccheggio del re normanno Roberto il Guiscardo nel 1184. Restaurata e affrescata negli anni successivi, venne demolita la parte superiore, forse per problemi strutturali, e costruita una nuova basilica sulle sue fondamenta. Questi fatti consentono di datare l’affresco di San Clemente e Sisinnio, che nei fumetti è testimone dell’affermarsi del volgare, con precisione dopo il 1184 e prima del 1199, anno in cui Papa Pasquale II risulta nominato Papa nella “basilica nuova”.

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.