La Chiesa di Sant’Antonio al Molè di Forno di Coazze, 1863 – un ex-voto contro il carbonchio

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La festa alla Grotta, da “La Valsusa”

La borgata Molè sotto la neve. Nel 1950 contava ancora una settantina di abitanti.

Stava per nascere il Regno d’Italia, ma per quattro famiglie di Forno il problema era il carbonchio che da quattro anni decimava i loro animali. Disperate fecero il voto a Sant’Antonio Abate di erigere una chiesa se le epidemie fossero cessate, come avvenne. Sul terreno offerto dai loro compaesani, al centro della borgata Molè, nel 1863 eressero una bella chiesa, intonacata ed affrescata. Nel 1985 in occasione di un importante restauro ho ricostruito la storia della chiesa per Luna Nuova nella rubrica Ciose bis-ciose. La domenica della festa sono salito con Armando Rege Gianas munito di telecamera a filmare la festa per la rubrica “A nosta moda” che tenevo su Giaveno TV. Ho anche potuto intervistare i numerosi presenti, non spaventati dalla neve che bloccava l’accesso carrabile alla borgata. Allora “gaucé la fióca” era normale. Mi aveva colpito la vivacità della vendita all’asta, l’incënt, condotta da Michele Versino, se ricordo bene. E la generosità delle offerte per finanziare il fresco restauro.

Ciò che non ha potuto la neve lo potrà il Covid e quest’anno la festa si celebrerà alla Grotta. Anche il tradizionale pranzo non potrà tenersi. Era ormai detto “degli autisti”, perché mulattieri e carrettieri erano spariti, sostituiti da conducenti motorizzati. E non si terrà nemmeno quello del lunedì, che veniva chiamato “lu dinè di-agnulót”, perché gli avanzi del giorno prima ne diventavano il ripieno. A Forno “lu dinè d’Sant’Antòni” si teneva alternativamente da Germano, da Ferruccio e da Marcél (Rocciavé). Ho partecipato ad alcuni di questi pranzi, era una gara tra il cuoco che predisponeva un menù abbondante e i commensali che gli facevano onore. Sono stato anche a un pranzo del lunedì, al “Piemonte”, c’erano gli agnolotti, per rispettare la tradizione, ma travolti da antipasti secondi e dolci.

Sant’Antonio abate è il protettore degli animali domestici, del bestiame, del lavoro del contadino ed affini e/o derivati (come macellai, fornai, pizzicagnoli, salumieri, tosatori, canestrai, ecc.), del fuoco, delle malattie della pelle (ad esempio l’herpes zoster, il “fuoco di sant’Antonio”) e dei becchini. Ritenuto inoltre il primo degli abati e fondatore e precursore dell’ascetismo monastico cristiano, è considerato anche il protettore degli eremiti e dei monaci.

Così tante attribuzioni e un culto così diffuso sono legati a due momenti diversi.

  1. La sua vita. Nato in Egitto nel 250 circa, figlio di contadini agiati, si isola nel deserto come anacoreta (“colui che si ritira) e secondo l’agiografo Atanasio sfida tentazioni lascive e maneschi demoni, arrivando a scendere nel fuoco dell’inferno per strappare delle anime a Satana. Dispensa saggezza ai suoi seguaci, li invita ad essere tenaci contro le persecuzioni e l’eresia ariana. Muore nel deserto della Tebaide il 17 gennaio del 356, alla veneranda età di 105 anni.
  2. Le reliquie. La sua sepoltura viene scoperta due secoli dopo e avventurosamente le reliquie dall’Egitto arrivano in Francia dove fanno miracoli e viene venerato come taumaturgo, guaritore in particolare dell’ergotismo (herpes zoster), chiamato appunto “fuoco di Sant’Antonio”. Nasce e si diffonde un ordine religioso ospedaliero, i Canonici di Sant’Antonio, che gestiscono ospedali in tutta Europa, soprattutto lungo le direttrici del pellegrinaggio, come a Sant’Antonio di Ranverso sulla via Francigena. Il Papa accorda loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo e il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, che fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Di qui la tradizione della benedizione degli animali in occasione della sua festa. Con l’evolversi dei tempi invece di muli e cavalli si portano a benedire camion e altri mezzi a motore, e cani e gatti hanno preso il posto degli animali da lavoro e da allevamento. 

Le tante attribuzioni  di Sant’Antonio hanno arricchito di simboli la sua iconografia.

Si appoggia al bastone degli eremiti a forma di T, la “tau”, ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino, diventa un simbolo degli Antoniani.

 La campanella era legata al collo dei maialini per indicarne la proprietà e la libera circolazione.

Il fuoco è sempre presente nelle raffigurazioni del Santo, che ha domato il fuoco dell’inferno e l’infiammazione che da lui ha preso il nome popolare.

La lunga barba bianca è un attributo della sua lunga vita, 105 anni.

Alle sue spalle i demoni tentatori sconfitti.

Il maialino era allevato dai suoi seguaci per il grasso usato come emolliente per curare il “fuoco di Sant’Antonio”, per estensione il Santo è considerato protettore di tutti gli animali domestici e, per le sue origini contadine, anche dei lavori agricoli e di quelli connessi alla lavorazione del maiale.

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