Il popolo di San Giorio torna a sopprimere il tiranno

Per due anni il feudatario Raimondo Bertrandi, tiranno di San Giorio in Val Susa l’aveva scampata. Grazie al Covid19, un virus che con le sue mutazioni ha sconvolto il mondo e la nostra vita e ha seminato migliaia di vittime, nel 2020 e 2021 la sua “soppressione” non è avvenuta. Ma ormai si è tornati alla normalità e sullo sperone roccioso, che la chiesa e il castello segnano d’un inconfondibile profilo, il feudatario prepotente e crudele dovrà rendere conto del suo operato. Un lieto fine consolatorio, col cattivo punito e i buoni salvati, che nella realtà, tra dispotismi trionfanti e massacri di innocenti, non è purtroppo “normale”.

Programma della festa patronale 2024

In occasione della festa patronale di San Giorgio (quest’anno domenica 21 aprile) avveniva, ab immemorabili, la danza delle spade, che rispetto a Venaus e Giaglione, si configurava come scontro simulato tra due gruppi di spadonari, che vestivano probabilmente in modo simile ai colleghi della Val Cenischia. Persasi la tradizione con le drammatiche vicende della Grande Guerra, essa venne ripresa e rielaborata teatralmente nel 1929 dal parroco teologo Attilio Bar, con gli spadonari trasformati in guardie del feudatario locale. Personaggio ispirato forse al Don Rodrigo dei Promessi Sposi, carico di tutti i vizi capitali dalla superbia alla lussuria, satanico nella sua crudeltà e nel suo costume nero, tirannico nei confronti della moglie Speranza e dei suoi sudditi, portati all’esasperazione. Un personaggio che Duccio Re ripropone magistralmente da oltre quarant’anni.

Per gli spadonari vennero elaborati nuovi costumi, forse ispirati dai moschettieri di Dumas, bianchi con strisce e bordure rosse, stivaloni da cavallerizzo e cappello a larga tesa ornato di fiori e nastri (unico retaggio dell’antico costume, probabilmente simile a quelli degli spadonari della Val Cenischia).

Spadonari di San Giorio fotografati il 28 aprile del 1929 in occasione della prima rappresentazione della “Soppressione del Feudatario”.

Alla fine del 1900 vennero cambiati i costumi, lasciando la divisa bianca e rossa ai tamburini e vestendo gli spadonari di casacche di vario colore accomunate da bordure e passamanerie dorate. Anche gli stivaloni vennero accantonati in favore di più pratici pantaloni simili a quelli degli spadonari di Giaglione e Venaus.

La prima edizione de “La soppressione del feudatario” è descritta nel diario del teologo Attilio Bar, alla data del 28 aprile 1929: «Si eseguisce al Castello, per la Prima Volta, la rievocazione leggendaria dell’uccisione del Feudatario. Per desiderio del Podestà cav. Almerigi,  ho composto il libretto ed ho fatto il Capo Comico. Parecchie migliaia di persone sono venute ad assistere alla festa. Poi si è ripetuta la Festa religiosa con Processione immensa. Ha cantato la Messa il Prof. Don Caramello ed io ho detto il panegirico del Santo. A sera ci furono i fuochi artificiali. Stanco fino da dormire in piedi, sono partito per Rubiana a predicarvi le Quarant’Ore.»

Enrico Bertone in Antiche feste delle Alpi Cozie  ripercorre dettagliatamente l’evoluzione della festa patronale:

A differenza di Venaus e Giaglione, dove gli spadonari si limitano ad effettuare le marce e le danze e a partecipare alle funzioni, a San Giorio, da quanto è stato tramandato, la rappresentazione originaria prevedeva già una rievocazione medievale incentrata sulla simbolica liberazione da un signorotto locale che aveva il vizio di imporre troppe tasse. Era forse in particolare il diritto patrimoniale detto maritagiuim ad essere per nulla gradito al popolo e fu probabilmente con eccessiva fantasia che questi fatti furono drammatizzati e vennero identificati nell’immorale e intollerabile diritto di esercitare lo jus primae noctis, ovvero il privilegio da parte del feudatario di trascorrere la prima notte di matrimonio con le novelle spose. Pare però che nella realtà questo abuso non sia mai stato praticato in queste zone. Fino ai primi decenni di questo secolo la festa aveva uno svolgimento meno elaborato e gli Spadonari erano i veri protagonisti. All’alba la banda musicale dava la sveglia ai paesani suonando la diana, la gente si ritrovava sulla piazza e a gruppi si recava in un prato conosciuto con il nome di “Paravì”. La banda musicale e gli Spadonari  si dividevano in due fazioni, una rappresentante la milizia del feudatario e l’altra quella dei ribelli, attraversavano il paese da lati opposti quindi giungevano al prato “Paravì” dove avveniva lo scontro tra i due gruppi di Spadonari. Seguiva un avvincente combattimento dove il tiranno (impersonato da uno degli Spadonari) era costretto alla fuga e cercava come ultima via di scampo di arrampicarsi su un albero di ciliegio, ma veniva inesorabilmente raggiunto dalla spada del vendicatore e cadeva a terra senza vita. Il vendicatore era poi portato in trionfo ed il feudatario esanime veniva simbolicamente seppellito, coperto con erba e foglie, ma dopo un po’ veniva resuscitato con del buon vino contenuto in una zucca: ormai lo spirito del tiranno era morto per sempre. Il gruppo degli Spadonari si ricomponeva e, seguito dalla folla paesana, faceva ritorno in paese per partecipare alle funzioni religiose; la festa era ancora caratterizzata dalla processione dell’Abbà che rappresentava il capo della manifestazione e dal pranzo comunitario, nel pomeriggio si dava luogo all’avvincente cerimonia del cambio dell’Abbà. La festa in onore del patrono non finiva lì: di solito durava ancora i due giorni che seguivano; un bel gruppo formato da Spadonari e componenti della banda dava vita alle “arbadi” girando per le case di San Giorio per raccogliere offerte in natura destinate a finanziare parte delle spese sostenute che in notevole misura gravavano sulle spalle dell’Abbà. A quel tempo la festa religiosa era caratterizzata dalla presenza della “Società dell’Abbadia” i cui soci portavano cappello ed alabarda: venivano poi altri personaggi come le due Abbadesse. La Mignona, che simboleggiava la ragazza più bella del paese insidiata dal tiranno e promessa sposa del vendicatore, portava sulla testa il cantello; una composizione ornata di fiori e nastri dove veniva posto il pane benedetto, era sorretta da due uomini con l’ausilio di due aste. Gli Abbà erano due, quello in carica che portava l’antico gonfalone di San Giorgio e quello entrante. Cingevano sciarpe rosse frangiate d’oro ed anche loro erano armati di alabarda. Venivano poi le confraternite, le autorità comunali, la banda musicale, il clero, uno dei sacerdoti recando la teca con le reliquie del patrono, i ragazzi delle scuole, i coscritti, i pompieri e via via tutta la popolazione. Nel 1929 la rappresentazione di San Giorio subì una radicale rielaborazione. Per opera del prevosto Attilio Bar l’evento fu teatralizzato. Venne scritto un copione e furono aggiunti molti personaggi che prima non esistevano, la rappresentazione si spostò dal prato Paravì all’interno delle mura dell’antico castello che sovrasta l’abitato di San Giorio e nacque la rievocazione storico-leggendaria conosciuta come La soppressione del feudatario, che ancora oggi si tiene ogni anno una domenica di fine aprile vicino alla solennità di San Giorgio che cade il 23 aprile. Per l’occasione ai paesani viene distribuito il sonetto. La festa religiosa è abbastanza simile a quella di un tempo; oggi oltre agli Spadonari vi partecipano anche alcuni personaggi della rappresentazione folcloristica. Durante la solenne processione i coscritti portano a spalle la pesante statua lignea che raffigura San Giorgio a cavallo; al termine della funzione gli  Spadonari eseguono la danza della spada. Nel pomeriggio il colorito corteo dei personaggi percorre la via che sale al castello dove tra musiche, canti e balli del gruppo delle Pastorelle e la danza degli Spadonari si svolge l’avvincente rappresentazione. L’Araldo legge il bando informando i paesani delle pesanti ristrettezze imposte dal conte Bertrandi ed  i popolani esprimono il loro disappunto. Dalle alture che circondano il castello scendono le Pastorelle accompagnando la ragazza più bella che sta per andare in sposa al ragazzo più forte del paese; davanti al castello anche la mite contessa saluta le giovani che per lei improvvisano una danza. Nel frattempo esce il feroce conte scortato dalle sue guardie e rivolgendosi alla ragazza manifesta la sua malvagità. Le scene si contrappongono, da un lato il tiranno è circondato da un’atmosfera cupa e crudele mentre dalla parte opposta il gruppo dei popolani, con un festoso coro, esprime il clima pacifico e sereno nel quale desiderano vivere. La gente si allontana, rimangono solo i due promessi sposi ma improvvisamente le guardie del conte escono dal maniero e rapiscono la ragazza; il popolo richiamato dalle grida delle Pastorelle accorre e resosi conto dell’accaduto scatena la propria ira dando l’assalto al castello. Nel combattimento finale il conte cade ucciso e sulla torre dell’antica fortezza viene innalzata la bandiera di San Giorgio a simboleggiare la riacquistata libertà.

Il promesso sposo e i contadini inveiscono contro le pretese del Conte Bertrandi, foto tratta dal libro “Antiche feste delle Alpi Cozie. Anni Novanta.

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