2 giugno 1946: Susa e l’alta valle restano fedeli al Re

Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 segnò una tappa fondamentale nella storia dell’Italia:

1) Per la prima volta votarono le donne, anticipando un diritto poi sancito nella Costituzione adottata il 1° gennaio 1948. Ma non votarono migliaia di italiani prigionieri di guerra o internati in Germania. Inoltre non si votò in Alto Adige e a Trieste, che erano in amministrazione alleata, e nelle città di Pola, Fiume e Zara destinate alla Jugoslavia.

2) La maggioranza degli italiani scelse la repubblica con un margine di circa 2 milioni di voti (12.718.641 voti per la repubblica contro i 10.718.502 della monarchia, quelli definitivi dopo i controlli divennero 12.717.923 per la Repubblica e 10.719.281 per la monarchia). Il clima non era sereno, a Napoli vi furono anche dei morti. La voce di brogli venne alimentata dal ritardo nei risultati e dal fatto che all’inizio fosse in vantaggio la monarchia.  Durante la notte e la mattina del 5 giugno, la Repubblica passò in netto vantaggio e il 10 giugno la Corte di Cassazione proclamò il risultato: 12 milioni di voti a favore della Repubblica e 10 a favore della monarchia. Ma nel comunicato utilizzò una formula dubitativa, che rimandava l’annuncio definitivo al 18 giugno dopo l’esame delle contestazioni presentate soprattutto dai monarchici.  Un gruppo di intellettuali sostenne che la repubblica avrebbe potuto essere riconosciuta vincitrice solo con la maggioranza assoluta degli elettori e che non bastasse superare i voti monarchici per vincere. In un crescendo di tensioni il capo del governo, il democristiano Alcide De Gasperi il 13 giugno, prima che uscissero i risultati definitivi, proclamò il passaggio dei poteri dal re, Umberto II, al governo provvisorio. Il re denunciò il gesto, ma si rassegnò a lasciare il paese il giorno stesso, partendo in aereo per Lisbona dove era già arrivato suo padre, Vittorio Emanuele III, che aveva abdicato poche settimane prima.

3 L’Italia si confermò un paese diviso. Tra Nord e Sud tra contadini e operai, tra campagna e città. In tutte le regioni dal Lazio in giù prevalse la monarchia, addirittura col 79% a Napoli. Al centro nord, soprattutto nelle città e nelle zone industrializzate trionfò la repubblica col 61% a Torino, il 68% a Milano e il record dell’85% a Trento. A livello provinciale solo a Cuneo e Padova prevalse la scelta monarchica.

4 Nel contemporaneo voto per l’Assemblea Costituente prevalse il voto moderato, con maggioranza relativa della Democrazia Cristiana (207 eletti) e i Comunisti (104) terzi dietro ai Socialisti (115).

Il voto per provincia: l’Italia divisa tra l’azzurro della Repubblica a nord e il rosso della Monarchia a sud.

Susa e l’Alta valle restano fedeli al Re

Esaminando i risultati del voto referendario nella Val di Susa, appare subito evidente che la valle si è divisa in due, monarchica in alto e repubblicana in basso. A far da cerniera il risultato di Susa, dove la monarchia prevale di pochi punti percentuali. Quindi le popolazioni alpine pastorali sono conservatrici e il fondovalle industrializzato progressista e repubblicano. Come in Val Sangone dove l’alta valle coincide con Coazze, dove la tradizione agricola convive ormai da decenni con quella industriale e dove la scelta repubblicana trionfa ovunque.   Allargando l’analisi alle zone limitrofe ci si accorge che la situazione è più complessa, perché ad esempio nel cuneese il voto monarchico prevale in pianura e non nelle testate delle valli alpine. Anche i comuni montani delle valli di Lanzo hanno votato compatti la repubblica, mentre nell’arco alpino il voto monarchico si distribuisce a macchia di leopardo, ma minoritario. Il voto monarchico di Bardonecchia, Cesana e Sestriere (e a Oulx la monarchia perse per soli 12 voti), come quello di Ceresole Reale e Courmayeur, ha probabilmente una spiegazione semplice. Sono località frequentate dai reali, Umberto di Savoia amava la Val Susa, sciava a Bardonecchia e Sestriere, frequentava Sauze con la famiglia, aveva scalato il Rocciamelone e si era recato più volte a ispezionare le fortificazioni del Vallo alpino e ancora nel luglio del 1940, a guerra in corso, aveva voluto presenziare alla commemorazione della vittoria dell’Assietta (cfr. I Savoia, di Mauro Minola).

Il dettaglio dei risultati referendari in Val Susa e Val Sangone e a Torino.
Umberto di Savoia con la moglie Maria Josè

Le donne votano, prima alle amministrative, poi al referendum

L’estensione del voto alle donne era stata sancita dal secondo governo Bonomi, con il Dll 1° febbraio 1945, n. 23, auspice un accordo tra Togliatti e De Gasperi. Il decreto era stato una diretta conseguenza della «prima costituzione provvisoria» che all’articolo 1 aveva stabilito che l’Assemblea costituente avrebbe dovuto essere eletta «a suffragio universale e diretto». Il diritto di voto fu concesso alle donne che avessero compiuto i 21 anni d’età alla data del 31 dicembre 1944, ovvero raggiunto la maggiore età dell’epoca. Le uniche escluse erano le prostitute che esercitavano al di fuori delle case chiuse. L’estensione del suffragio non suscitò particolari dibattiti pubblici né prima, né dopo l’approvazione del decreto. Sulla stampa, anche quella di partito, infatti, l’argomento non venne trattato come la portata epocale della decisione avrebbe meritato. Fece eccezione «L’Unità» che dedicò alla questione un editoriale dal titolo Vittoria della democrazia. Nell’Italia occupata, «Il Resto del Carlino» uscì il 31 gennaio 1945 con un titolo al vetriolo: Mentre si muore di fame ci si preoccupa del voto alle donne, in perfetta sintonia con una vignetta che apparve su «Fogli d’ordini delle Brigate Nere», di fatto in quei mesi l’organo del Partito fascista repubblicano, raffigurante due donne, magre e lacere, con in mano una borsa della spesa desolatamente vuota, in cui la prima chiedeva «Cosa c’è di nuovo al mercato?» e l’altra le rispondeva «Il diritto di voto alle donne».  (da “2 giugno 1946 – Storia di un referendum”, di Federico Fornaro, Bollati Boringhieri, 2021)

Con la guerra in corso e i razionamenti in effetti i problemi quotidiani erano altri. Comunque quando, finita la guerra, il 10 marzo 1946 iniziarono le votazioni amministrative la partecipazione fu altissima, perché anche per i maschi si trattava della prima occasione di poter manifestare liberamente il proprio voto. Anche al referendum votò l’89% degli aventi diritto, spinto anche dalla scelta epocale che si stava compiendo.

Il lungo difficile cammino dell’emancipazione femminile, dal voto alla riforma del diritto di famiglia

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