La Resistenza Civile in Val Sangone – con disegni di alunni (1995)

La Resistenza Civile in Val Sangone

La Resistenza Civile in Val Sangone 1943-45 (ripercorrendo i sentieri degli eccidi attraverso i disegni degli alunni delle scuole dell'obbligo) è un volume pubblicato dal Comitato Promotore delle Celebrazioni per il 50° Anniversario della Guerra di Liberazione e delle Vittime CIvili, con il contributo del Comune di Giaveno e della Comunità Montana Val Sangone. Il voume è frutto di un progetto che ha coinvolto le scuole dell'obbligo della Val Sangone, riporta decina di disegni degli scolari che hanno aderito e dei testi introduttivi curati da Gianni Oliva, che qui sotto riportiamo e che possono essere approfonditi anche leggendo nel sito la Cronologia Resistenza in Val Sangone

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La resistenza civile in Val Sangone attraverso i disegni degli studenti delle scuole dell'obbligo

a cura di Gianni Oliva

Perchè la "storia dei civili", dopo tante pubblicazio­ni sulla storia delle formazioni partigiane, delle azioni militari, della guerra combattuta? La risposta è semplice.

 A cinquantanni di distanza la rivisitazione del pas­sato si fa più riflessiva e quindi più completa: indagan­do senza pregiudizi e senza intenti celebrativi, la storia del 1943/45 (o, più estesamente, del 1940/45) diventa storia di un'intera generazione, che attraverso l'espe­rienza drammatica della guerra e dell'occupazione na­zifascista riscopre se stessa ed elabora le regole della convivenza civile.

Chi scrive ha avuto la fortuna di nascere quando la guerra era conclusa da tempo e l'Italia si era ormai sta­bilmente avviata sulla strada della ricostruzione: ma al­lora, negli anni Cinquanta – Sessanta, la guerra era, una ferita che ancora bruciava nella coscienza della gente, storia vissuta che nella memoria della comunità conti­nuava ad infiammare e offendere.

Ogni famiglia aveva un ricordo, un episodio, una rabbia, frammenti individuali che si riproponevano nei discorsi per descrivere un passato di tutti.

Erano racconti di rastrellamenti, di morti impiccati, di case in fiamme; oppure racconti di sopravvivenza, di farina comprata al mercato nero nelle cascine della pianura, di uomini nascosti nel cavo di un albero o sot­to covoni di fieno; oppure ancora racconti di solida­rietà, di soldati sbandati riparati nei fienili, di staffette che portavano informazioni, di ricoveri nel momento del bisogno.

In modo immediato o spontaneo (e forse inconsape­vole) la comunità educava la generazioni nate dopo la guerra attingendo al proprio patrimonio storico, senz'altra mediazione che la testimonianza, e descrive­va un'esperienza corale di "resistenza civile" che tutti avevano vissuto sulla propria pelle.

Nel corso degli anni, quella memoria è andata pro­gressivamente sfumando, per ovvie ragioni di tempo: molti testimoni sono scomparsi, una nuova generazio­ne è cresciuta, i racconti della guerra e della resistenza si sono fatti più radi.

Eppure, a dispetto del mezzo secolo di distanza, l'e­sperienza maturata in quel periodo resta emblematica. Protagonista è una generazione nata e cresciuta nel fa­scismo, "martellata" dalla propaganda di regime sino a convincersi di avere un destino glorioso da raccogliere sui campi di battaglia d'Europa; gli “otto milioni di baionette" vantati dal Duce, i successi dell'aeronautica sportiva di Balbo, la militarizzazione della gioventù (Balilla, Figlie della Lupa, Giovani Italiane, ecc.). i corsi premilitare, i riti del sabato fascista, del Natale di Roma, della festa del grano, la celebrazione esasperata della Grande Guerra non davano spazio alla riflessione e al ragionamento e modellavano giorno dopo giorno il “giovane fascista”.

Il 10 giugno 1940,  quando veniva dichiarata guerra alla Francia, Mussolini poteva a buon diritto vantare un grande "consenso" nel Paese. Per avere validità di interpretativa, la categoria del "consenso" presuppone tuttavia il suo contrario, "dissenso": si può cioè parlare correttamente di "consenso" solo se esistono le condizioni per esprimere il suo opposto. Durante il regime fascista queste condizioni non esistevano: non esistevano "di diritto", perchè il dissenso era perseguito dall'OVRA e punito dal

­Tribunale Speciale (quando non represso fisicamente dalle Camicie Nere); ma, soprattutto, non esistevano "di fatto", perchè mancavano gli elementi informativi ­indispensabili a fondere un'opinione diversa da quella ufficiale. Nel momento in cui tutti gli interventi pubblici, tutti gli articoli di giornale, tutte le trasmissioni radio, tutti i manuali scolastici, tutti i maestri di scuola proponevano una sola verità, l'italiano medio non aveva la possibilità culturale di maturare una convinzione differente da quella che il regime proponeva Il mito dell'Italia guerriera, figlia di Roma e del suo Impero, maestra di civiltà e di cultura, aveva finito con l'infiammare i "Balilla" degli anni Venti-Trenta e nella primavera-estate del 1940 li aveva portati numerosi a manifestare il proprio entusiasmo per l'avventura bellica. Ma sarebbe stata proprio la guerra a far maturare le coscienze attraverso le esperienze più drammatiche, a rivelare gli inganni nascosti dietro la propaganda fascista.

Ventiquatt' ore dopo l'inizio delle ostilità, la sera dell'11 giugno, i bombardieri francesi sganciavano le prime bombe su Torino: tredici morti, decine i feriti, il palazzi e strade colpiti. Il seguito era la tragedia di tutti i popoli in guerra: giovani mobilitati su fronti lontani; giovani che non tornavano più, uccisi o dispersi nelle steppe russe, nelle montagne balcaniche, nel deserto nordafricano; giovani che tornavano e raccontavano la realtà del fronte, l'orrore della morte, le sconfitte ripetute. Per chi rimaneva a casa, il dramma era diverso  nelle forme, ma altrettanto profondo: i bombardamenti sulle città industriali del Centro – Nord, le sirene d'allarme che suonavano tre / quattro volte per notte, la fu­ga nei rifugi sotterranei, la paura di non risvegliarsi il mattino dopo; poi la fame, il tesseramento che non ba­stava mai a saziare lo stomaco, il pane senza gusto, il mercato nero, l’inflazione, i poveri risparmi dilapidati per un sacco di farina bianca o una manciata di sale. Il regime si sforzava di minimizzare e rassicurare, ma il filtro della propaganda era ormai saltato: la "verità" era sotto gli occhi di tutti, conosciuta e pagata sulla pro­pria pelle, con la paura e la sofferenza di ogni giorno. Dopo tre anni di guerra, i raduni gioiosi e marziali dei sabati fascisti erano sepolti sotto decine di migliaia di morti.

L'8 settembre 1943 l'Italia firmava l'armistizio con gli Alleati. Per le regioni meridionali, dove già erano giunte le armate americane e inglesi, era l'inizio della pace; per l'Italia centrale e settentrionale, dove i Tedeschi avevano dislocato le proprie truppe in previsione dello sganciamento del governo italiano dall'alleanza, era l'inizio di una tragedia nuova. Tutto il territorio veniva occupato militarmente; Mussolini ricostituiva un simulacro di stato nazionale, la Repubblica Sociale, con la funzione di legittimare e collaborare con le autorità militari tedesche. Chi si opponeva alla presenza nazifascista, andava in montagna e dava vita alla resistenza partigiana.

Per venti mesi, dall' 8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, le nostre regioni erano teatro di una guerra senza quartiere, dove il terrorismo sistematico contro le formazioni e contro i civili era lo strumento con il quale il nazifascismo cercava di reprimere e intimidire. Di quella storia, la Val Sangone era protagonista diretta: area di ribellismo radicato, affacciata sulla pianura di Torino, dove le bande scendevano quasi ogni giorno per effettuare "colpi". Essa era uno degli epicentri pie­montesi della lotta partigiana, con tutto ciò che ne con­ seguiva sul piano militare. I disegni dei bambini delle scuole elementari e me­die proposti in queste pagine, documentano con effica­cia gli episodi più drammatici di quel periodo, sedi­mentati nella memoria collettiva della vallata e traman­ dati nei racconti a mezzo secolo di distanza. Il tratto di penna è semplice, qualche volta ingenuo, ma dietro le immagini c’è la forza di una testimonianza interiorizzata e rielaborata, c'è l'educazione civica di una memoria che non serve soltanto a ricordare, ma soprattutto ad insegnare.

I giovani "autori" di questo volumetto avranno tante altre occasioni per crescere, per maturare, per trovare la propria strada nella vita: ma dall'esperienza di que­sta ricerca resterà loro il senso della pace, della tolleranza, della solidarietà; resterà il rifiuto della guerra, della violenza, del sopruso; resterà, insomma, quell' istinto morale che serve a distinguere tra il bene e il male.

Tutto questo fa onore a loro e ai docenti che li han­no seguiti, e, insieme, dimostra quanta forza e quanta importanza possa ancora avere la memoria del1943/45.

 

 Il rastrellamento di novembre

A fine novembre 1944, un nuovo massiccio rastrella­mento investiva la Val Sangone, attuato con una tattica analoga e quella usata a maggio: sbarramento del fondo­valle e attacchi concentrici delle vallate vicine.

Se la memoria del maggio è legata alla fossa comune del Forno e alla fucilazione dei combattenti catturati, quella di novembre è invece legata alle atrocità contro i civili, agli incendi delle borgate, ai saccheggi.

In quei giorni venivano uccisi la maggior parte dei cinquanta civili di Giaveno caduti durante la Resistenza: quindici a Provonda, sei a Mollar dei Franchi, sedici a Ruata Sangone e Monterossino.

E in quegli stessi giorni venivano incendiate intere frazioni nell'alta valle: Fusero, Ciamussera, Prese Lori, Dindalera, Praverdino, Polatera.

La montagna pagava il prezzo della sua adesione al movimento resistenziale, della sua complicità con i parti­giani, del rifugio offerto alle bande.

L'episodio più barbaro avveniva a Ceca di Provonda. Bruno Viretto, un ragazzo di quattordici anni, bruciava nel rogo della sua casa con la madre, una zia e un'anzia­na congiunta: un adolescente e tre donne arsi vivi perchè la zona era stata sede delle bande.

Testimonianze dettagliate del rastrellamento (iniziato il 27 novembre) sono raccolte in 214 esposti indirizzati nel dopoguerra al comune di Giaveno, in cui vengono denunciati i danni subiti: i calcoli fatti dal Comitato di li­berazione nazionale raggiungevano una cifra di parecchi milioni. Nelle borgate dell'alta valle il saccheggio e le distruzioni erano sistematici: nella bassa valle gli incendi erano meno frequenti, ma i furti e le violenze non risparmiavano nessuno.

Negozianti, contadini, sfollati subivano ugualmente la prepotenza della truppa.

Il 1 dicembre i rastrellatori decidevano di sospendere le operazioni e ripartivano verso Torino. Accadeva però l'imprevisto: sei aerei alleati effettuavano un lancio nella zona di Prafieul.

Altri, analoghi, erano stati effettuati nei mesi prece­denti al colle della Roussa e nella zona della Maddalena, ma questo era il più consistente: il cielo si riempiva di paracadute bianchi, oltre quattrocento casse di viveri, munizioni, vestiario, scendevano tra lo stupore inquieto dei valligiani.

L'autocolonna tedesca, accortasi del lancio, invertiva immediatamente il senso di marcia e ritornava a Prafieul, riuscendo ad impossessarsi della maggior parte delle cas­se paracadutate. Il danno andava tuttavia al di là della contingenza.

L'entità del lancio convinceva il comando tedesco del radicamento del ribellismo valsangonese e della minac­cia che questo poteva rappresentare per la sua vicinanza alla città: di qui derivava la decisione di stabilire in tutta la vallata presidi permanenti. Sino al marzo 1945, la Val Sangone avrebbe così dovuto convivere con la presenza stabile dei militi nazifascisti.