“Üŋ … düi …  trài” per Sant’Antonio al “Mulè” del Forno.

Le rocce  livide, i boschi scuri brizzolati di neve, il fosso ghiacciato lungo la strada: un inverno d’altri tempi mi avvolge in un  gelo che entra dagli occhi e s’insinua nelle ossa mentre salgo al Molè del Forno. Dopo due anni torna la festa di Sant’Antonio nella cappella, vecchia quasi quanto l’Italia unita, costruita nel 1863 per sciogliere il voto al santo che aveva fatto cessare l’epidemia di carbonchio che uccideva il bestiame e rovinava le famiglie.

Nella piazzetta volti noti, saluti in patuà e l’intonaco acceso e vivace della facciata della chiesa infondono calore. In chiesa Don Michele Olivero incanala la Messa sui binari della semplicità, non è la stufetta accesa, ma la chiesa gremita di gente giunta dalle sparse case per ricostituirsi comunità di borgata e di parrocchia a scaldare i cuori. Quando il parroco invita i fedeli a proporre le loro intenzioni sorge spontanea la voce di chi chiede un po’ d’acqua o neve contro la siccità che imperversa. Il calice dimenticato viene sollecitamente sostituito da un semplice bicchiere, il suffragio dei defunti chiama alla mente nomi e volti conosciuti e cari. Poi l’annuncio dei custodi della chiesa e della festa: Elio Guglielmino è il priore entrante e Michele Versino il sottopriore.

Don Michele Olivero celebra la Santa Messa.
Elio Guglielmino il priore col celebrante

Mentre nella piazza affollata si prepara la vendita all’incanto, scorro con Guido Mauro Maritano, che di questi montanari ha scritto l’epopea, i numerosi ex voto. Quadretti dove con tocco naïf si fissano le disgrazie che si evolvono nel tempo, dalle mucche malate, ai carri rovesciati alle auto finite in Sangone.

Alcuni ex voto che ornano le pareti della chiesa.

Le grida del banditore mi chiamano fuori. Angelo “d’Giò” Lussiana, discendente “d’si du Rus”, i generosi donatori del terreno su cui sorge la chiesa, ed Elio Guglielmino “lestu” nel porgere gli oggetti in offerta sono una coppia affiatata. Dalle rustiche scale, circondati da allettanti vassoi di salami, tome e bottiglie, assecondano più che sollecitare le offerte, che piovono generose, perché per questa chiesa e questi santi a Forno c’è un attaccamento particolare. “Üŋ … düi …  trài” e il piatto pirografato, la canna da pastore, lo sgabello intagliato, i pintoni pesanti e le tome saporite si spargono tra la gente in piazza. Ernestina passa sollecita a rifocillare gli astanti, in alto in un velo di nubi “la rübàta du sulèi” dà un’illusione di calore. Mi attardo con piacere in questa atmosfera rievocatrice di antichi riti e antichi linguaggi, dove si ricrea quella comunità che faceva del Molè una delle più popolose borgate di Forno, prima che i tempi cambiati e le vicende della vita portassero via la gente, che però non ha dimenticato le sue radici e i suoi santi. Lo dimostrano la facciata ben intonacata e affrescata, gli interni tirati a lucido, la piazzetta affollata.   

     

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