Spariti i calzolai, restano i loro santi nella Chiesa dei Batù

Oggi, trovare un calzolaio a Giaveno non è facile, ma c’è stato un tempo in cui erano numerosi, tanto da intitolarsi un intero rione, la Contrà dij Calié, l’attuale via Umberto I, nel cuore commerciale di Giaveno.

I dizionari piemontesi riportano:
Caliè (s.m.), calzolaio; lat. caligarius, fabbricante di galigae, calzatura originariamente dei Galli, ma apprezzata ad esempio dall’imperatore Caligola, che a lei deve il soprannome con cui è passato alla storia, anche perché il suo nome originale “Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico” avrebbe generato confusione coi predecessori;
Ciavatìn (S.m.) definito come sinonimo di calzolaio. Ma, come in italiano, sembrerebbe esserci una distinzione tra chi fa le scarpe e chi le aggiusta e ripara solamente. Vedi anche il detto piemontese: “Da calié diventé ciavatin = Da calzolaio diventare ciabattino, nel senso di scendere di grado.
Il Circolo Brodolini anni fa, nel centro storico di Giaveno, ha apposto delle targhe riportanti antichi toponimi. Ma li ha tradotti in piemontese, dialetto che a volte coincide col patuà locale e a volte no.
La targa che indica in punta a via Umberto I la “contrà di Calié”, specificando che si tratta di calzolai e sellai, non tiene conto che in giavenese (e in coazzese) si usa solo il termine “ciavatìn”.

Le scarpe erano un prodotto artigianale e costoso, solo i pochi ricchi potevano permettersi di seguire la moda, la gran parte della gente sfruttava le poche paia che aveva, faceva in modo che durassero il più possibile, rinforzando la suola con le borchie di metallo “bërgitè”, risuolandole per riusare la tomaia “sòce”, passandole di fratello in fratello e anche in eredità. “L’università delli Calzolari” a Giaveno era nel medioevo una corporazione potente e numerosa. Anche perché comprendeva in genere i lavoratori delle pelli e del cuoio. Questi materiali erano allora diffusissimi, sia per gli accessori di vestiario (cinture, borse, bisacce, ecc.), sia per i finimenti degli animali da tiro e da soma.

Il “Libro dell’Università delli Calzolari” con i conti delle spese, l’elezione annuale del rettore, la costituzione dei censi è un documento prezioso e testimonia la “potenza” di tale corporazione. I suoi membri erano soliti far celebrare ogni anno una messa solenne il 25 ottobre, giorno della festa dei Santi Patroni Crispino e Crispiniano, nella Collegiata di San Lorenzo, esponendo sull’altare maggiore un quadro che li raffigurava.

Ma, aumentati di numero, da tempo desideravano avere un proprio altare e, non essendoci più posto nella Parrocchiale, nel 1681 chiesero al signor Michele Usseglio, rettore della compagnia del S.S. Nome di Gesù, di poterlo erigere nella chiesa di quella Confraternita. Ottenuta l’indispensabile licenza anche da Don Antonio di Savoia, abate vicario della Sacra di S. Michele, si rivolsero al signor Cavaliere Bartolomeo Perretti, pittore in Torino, che si impegnava a dipingere l’ancona per il nuovo altare al prezzo di lire 85. Fu necessario fare una colletta tra i soci, artigiani calzolai, per poterla pagare. Si raccolsero 127 lire e il Perretti consegnò il quadro il 18 dicembre del 1681. A causa di “qualche impedimento” non meglio specificato, la consacrazione del nuovo altare avvenne solo il 27 giugno 1684, officiata dal Teologo e Provicario generale Ludovico Morelli.

Da allora la grande tela (m. 2,82 x 1,91), impreziosita da una cornice costata più del quadro,  sovrasta l’altare laterale della Chiesa dei Batù. Nel corso dei secoli si sono resi necessari degli interventi di salvaguardia e restauro. L’ultimo nel 2000 è stato finanziato dal Rotary Club Giaveno Val Sangone, in occasione dei suoi 25 anni dalla fondazione. È stato accompagnato dalla stampa di un libro che, avvalendosi delle ricerche preliminari degli studenti dell’Istituto Pascal e dei contributi di storici dell’arte, ha ricostruito le vicende storiche dei flagellanti e della loro chiesa giavenese, detta appunto dei Batù.

Bartolomeo Perretti e la Confraternita dei Batù, AA VV. (Pascal) , Rotary Club Giaveno Val Sangone , Lit. Azzini 2000

Il pittore, il quadro e l’ispirazione

Bartolomeo Perretti (o Peretti) fu pittore di Carlo Emanuele Il e di Madama Reale. Si trovano opere sue in Torino, Fossano, Cuneo e Busca. Originario di Milano, Perretti contrasse matrimonio a Busca, nel 1683 con una giovane del luogo. Dalla ricerca in quell’archivio Parrocchiale si é appurato anche ch’egli morì a 40 anni nel 1697, dopo una vita rattristata da numerosi lutti, che lo influenzarono certo nella scelta dei temi per le sue opere.

Il giovane Perretti dipinge nella grande tela (mt 2,8O di altezza e 1,9O di larghezza) la Vergine reggente fra le braccia Cristo morto e i santi Crispino e Crispiniano in preghiera. La composizione piramidale è accentuata dalla ripida erta su cui sono collocati la Madonna e il Figlio. Chiara appare la cultura del Perretti ricca di componenti lombarde tardo-manieristiche.

L’immagine della Vergine ricorda quella scolpita da Annibale Fontana nel 1586 per la milanese chiesa di S. Maria presso S. Celso; l’impostazione generale e il gusto del chiaroscuro richiamano a Daniele Crespi e al Cerano: in particolare al dipinto della Sabauda con la Madonna di S. Celso venerata dai Santi Borromeo e Francesco.  Per la figura del Cristo, drammaticamente abbandonato e ritorto su se stesso, il Perretti si rifà invece alla analoga figura della Deposizione dalla Croce dipinta da Luca Giordano per S. Maria del Pianto a Venezia, verso il 1650, e immediatamente nota fra Lombardia e Veneto (nel bergamasco in particolare) per una serie di copie.

Madonna dei Miracoli di Santa Maria presso San Celso venerata da San Francesco e dal beato Carlo Borromeo, di Giovan Battista Crespi, detto il Cerano, realizzata nel 1610; Galleria Sabauda, Torino.

Pietà con i Santi Crispino e Crispiniano, prima e dopo il restauro del 2000

Com’era – com’è

Prima del restauro del 2000 l’ancona d’altare commissionata dall’Università dei Calzolari a Bartolomeo Perretti (1657 – 1697) si presentava con il solo squillo cromatico della veste del Santo Crispiniano, nota di luce alla quale facevano riscontro poche roselline presenti nelle ghirlande.

La tela, con toppe e evidenti bruciature di candele, risultava posta di sghembo, i nomi dei santi protettori erano pressoché illeggibili sul bordo inferiore dell’opera; un fioco paesaggio con colline s’intravedeva fra i due santi, mentre un contrasto irreale di luci caratterizzava il volto dei protagonisti della scena sacra. Scrivevano Monetti e Cifani:

Dalla tela giavenese si sprigiona una tristezza che raggrinzisce l’anima. I colori, pur rovinati da ripetuti lavaggi, hanno una gamma cupa. Marroni e ocre terrosi, oscuri verdi di cinabro e lacche rossicce guizzano e s’alternano nella strana, rarefatta atmosfera del quadro in cui, più che venerazione a Crispino e Crispiniano, è espressa una amara e severa meditazione sulla morte e sulla umana malvagità, a cui compartecipa anche una natura impietosa, senza foglie o fiori nello sfondo desolato.

Inutilmente due angioletti reggenti due coroncine di fiori (l’unica nota vivace della composizione) tentano di consolare con la loro presenza quel compianto.” (Franco Monetti, Arabella Cifani, Frammenti d ‘arte, Studi e ricerche in Piemonte (sec. XV – XIX), Biblioteca di “Studi Piemontesi” Centro Studi Piemontesi, Torino, 1987.

La tela di Giaveno, d’intonazione caravaggesca, appare oggi – dopo il restauro diretto da Claudio Bertolotto – con la nitida dedicazione SAN CRISPINIANO SAN CRISPINO, con bellissimi accenti di rosso, con tessuti giallo oro dai motivi damascati, scure bande di lacca a completare la veste di San Crispiniano, ghirlande multicolori rette da angeli in volo in atto di offrire la palma del martirio ai santi.

La composizione è piramidale, dominata dall’immagine della Vergine che regge il corpo di Cristo, totalmente abbandonato nella morte, corpo che appare livido, con il volto in ombra e il perizoma d’un bianco splendente. Le ombre sul volto, sapienti e accorte, rivelano le fattezze dell’Uomo deposto dalla croce, lasciando al fedele d’indovinarne la sofferenza fisica. Bartolomeo Perretti – pittore che lascia una serie di opere dal tono tragico nella Sala della Morte di Busca – si rivela particolarmente interessante nel concitato gioco delle mani dei Santi, nel braccio abbandonato del Cristo offerto a una luce impietosa, nei volti che rasentano la ritrattistica. Una luce sommessa domina la composizione, al cui centro il restauro ha evidenziato un brano di paesaggio con colline oltre le quali s’elevano grigie nuvole a inquadrare le immagini degli angeli in volo.  Accanto alla grandiosa macchina dell’altar maggiore, alla superba tela della Crocifissione con le anime purganti dalle iterate immagini, agli arredi preziosi talvolta legati, alla corte sabauda, la restaurata tela di Bartolomeo Perretti è la testimonianza di un fervore devozionale che si concretizza nella chiesa dei Batù in parallelo con quegli Ospizi e Congregazioni di Carità organizzati inizialmente da Vittorio Amedeo Il e destinati a aprire la strada agli interventi sociali dello Stato. (Gian Giorgio Massara, in Bartolomeo Perretti e la Confraternita dei Batù a Giaveno, Rotary Club Giaveno Val Sangone, 2000)

I santi Crispino e Crispiniano, tra storia e leggenda

Poco si sa dei santi Crispino e Crispiniano, il cui culto riveste carattere prettamente popolare in quanto legato al loro mestiere di ciabattino. La leggenda narra che si deve a San Crispino e Crispiniano la propaganda della fede a Soissons, città ove subiscono il martirio. Essi erano fratelli romani, nobili di nascita, che si recarono in Gallia come missionari. Stabilitisi a Soissons, lavoravano come calzolai per non dover dipendere dalle elemosine delle persone convertite e, riscuotendo un grande successo, conquistarono molti attraverso l’esempio di vita e l’insegnamento. Viene loro attribuito questo miracolo: intagliando dei sandali per il bimbo di una vedova in miseria, gettarono nel camino i trucioli che si trasformarono in pepite d’oro. Dopo aver vissuto e lavorato per un certo numero di anni in questo modo, sotto il regno dell’imperatore Massimiano (285-305) per la loro fede cristiana, furono arrestati dal prefetto Rizio Varo e, sotto lusinghe, minacce e torture, si provò a far loro rinnegare la fede in Gesù Cristo. In un accesso d’ira per il fallimento, il prefetto Rizio Varo si sarebbe ucciso gettandosi nel fuoco. Crispino e Crispiniano furono messi a morte il 25 ottobre 286. In seguito, sulla loro tomba a Soissons fu edificata una chiesa, che S. Gregorio di Tours menziona molte volte nei propri scritti, e fu S. Eligio, morto nel 660, a decorare il loro reliquiario. I due santi sono patroni dei calzolai e, per estensione, di tutti i lavoratori del cuoio. Oltre alla palma del martirio e a fantasiosi metodi di tortura, in molti casi figurano accanto ai santi gli attrezzi del mestiere del ciabattino, vale a dire coltelli, lesine, trincetti, la tàbia (bassa tavola usata dai calzolai), le scarpe. Il Martirologio Romano afferma che le loro reliquie furono traslate nella chiesa di S. Lorenzo a Roma, appare più verosimile che sia avvenuto esattamente il contrario, che cioè essi siano stati martirizzati a Roma e che le loro reliquie siano state trasferite in seguito a Soissons, dove nacque un culto locale, che ebbe ampia diffusione anche grazie al numero e all’importanza dei suoi protetti: calzolai, sellai, lavoratori delle pelli e del cuoio in genere. Questi due martiri nel Medio Evo godettero grande fama in tutta l’Europa settentrionale e, stando a quello che narra Shakespeare, re Enrico V prima della vittoriosa battaglia di Azincourt (25 ottobre 1415) invocò proprio il nome di S. Crispino, di cui ricorreva la memoria: “Then call we this the field of Azincourt, fought on the day of Crispin Crispianus“.

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