Re Vittorio Emanuele II all’alpeggio Sellerì: “Lu rài e Severìń lu marghé”

Quando, il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II di Savoia venne proclamato Re del neonato Regno d’Italia dal Parlamento riunito a Torino a Palazzo Carignano, aveva da poco compiuto 41 anni. Era nato nello stesso palazzo il 14 marzo del 1820. Forse…

Persone anche autorevoli sostengono che quando nel 1824 prese fuoco la culla dove dormiva, nella villa fiorentina di Poggio Imperiale, il principino morì come la balia Teresa Zanotti. E fu sostituito dal figlio del macellaio Gaetano Tiburzi, che sul momento lamentò la scomparsa del figlio e poi divenne improvvisamente ricco. Ad avvalorare la tesi c’era il suo aspetto. Il padre Carlo Alberto era alto più di due metri, così come il figlio minore Ferdinando. La moglie Teresa era bella e slanciata e in famiglia erano tutti di tratti molto aristocratici. Vittorio Emanuele era invece alto solo 158 centimetri, aveva lineamenti pesanti e la carnagione rubizza. E anche il suo carattere: era alquanto rozzo e restò per tutta la vita piuttosto ignorante, odiando lo studio e preferendo la caccia e la vita di campagna. La sua amante, poi moglie morganatica Rosa Vercellana “la Béla Rusìń”, era analfabeta, ma con lei Vittorio Emanuele si trovava assai bene. Si dice che perfino Massimo D’Azeglio fosse un convinto sostenitore della tesi della sostituzione.

Vittorio Emanuele II fu comunque protagonista del Risorgimento italiano, sicuramente grazie all’abilità diplomatica di Cavour, ma anche facendo la scelta giusta nei momenti difficili della successione al padre Carlo Alberto dopo la Prima Guerra di Indipendenza nel 1849. Nei frangenti drammatici seguiti alla sconfitta di Novara ottenne a Vignale una pace onorevole dagli Austriaci e mantenne lo Statuto, confermandosi agli occhi dei patrioti italiani “Re galantuomo”, sovrano liberale e autorevole a cui guardare per proseguire il percorso verso l’unità e l’indipendenza, che in quella situazione sembrava irrimediabilmente compromesso. Col suo coraggio si guadagnò la stima di Napoleone III e dopo le battaglie di San Martino e Solferino, nella Seconda Guerra d’Indipendenza, gli zuavi francesi lo “promossero” loro sergente onorario.

Lu rài e Severìń lu marghé ai Sëlrì d’amùń

Vittorio Emanuele conobbe Teresa Luisa Rosa Maria Vercellana, “la béla Rusìn” nel 1842 e continuò a frequentarla assiduamente. Rimasto vedovo della regina Maria Adelaide d’Asburgo nel 1855, che gli aveva dato sei figli, il re rifiutò matrimoni d’interesse politico o dinastico e nel 1869, sentendosi in punto di morte per una brutta polmonite, sposò la “Béla Rusìn”, cui aveva dato il titolo di Contessa di Mirafiori e Fontanafredda, con rito religioso a San Rossore. Matrimonio morganatico, senza ereditarietà di beni e titoli per lei e i due figli nati dalla loro unione. Vale la pena di ricordare che all’anagrafe vennero denunciati come figli di ignoti e gli venne attribuito il cognome Guerrieri, sono Vittoria nata il 1° Dicembre 1848 ed Emanuele Alberto nato il 4 Ottobre 1851. I due figli verranno riconosciuti come legittimi dalla madre solo nel 1879 , trasmettendo al figlio il titolo di conte di Mirafiori e Fontanafredda.

Oreste Re nel bel libro Alpeggi e borgate nelle vallate alpine racconta un episodio, non so quanto certo, che avvalora l’immagine di una persona “alla buona”, più a suo agio con i pastori che con i cortigiani. Ho trascritto le parti in dialetto secondo le regole di grafia adottate per questo sito.

La grande passione di Vittorio Emanuele II era la caccia e un giorno salì nel vallone del Sangone. Sorpreso da un violento acquazzone il re col suo seguito si rifugiò nell’alpeggio Sellerì superiore. ”Arrivarono inzuppati fino alle ossa e chiesero ospitalità al vecchio Severìń il marghé (Severino il margaro) che con la famiglia aveva condotto il bestiame lassù affittando il terreno dal comune di Coazze. Severìń non riconobbe nessuno del gruppo reale, ma osservando l’equipaggiamento e soprattutto le finissime camicie indossate, offrendo quelle di tela spessa per il cambio, non poté fare a meno di esclamare ‘Vuʃàuti cuń vòste ciamìʃe u bagnà cùme d’ànie, bücà ‘l nòste ‘d téla spësë, l’éva i pàsat pa!’ (Voi con le vostre camicie vi bagnate come le anatre, guardate le nostre di tela spessa, l’acqua qui non passa!). Il re sorrise, spremendosi la barba; fece un cenno d’assenso e non rispose nulla. Dopo questa battuta, il contadino accese un bel fuoco, portò toma, latte, burro ed un buon vino tenuto nascosto in una buca della baita; partecipò anche al colloquio degli ospiti con il dialetto tipico dei contadini delle Alpi. Gli illustri cacciatori si fermarono alcune ore, poi, completamente asciugati e rifocillati, dopo aver ringraziato e ricompensato il buon Severìń al quale lasciarono diversi capi di selvaggina, si accomiatarono per scendere a valle. Il re, prima di uscire, trasse di tasca un foglietto, scrisse alcune righe e consegnandolo a Severìń, soggiunse: ‘Severìń,  se i vèńi a Türìń, pasé a truvéme. I stagh ‘n piàsa Castél, ciamè ëd Vitòrio, presenté stu bièt e av purtaràń da mi’ (Severino, se venite a Torino passate a trovarmi. Abito in Piazza Castello. Chiedete di Vittorio, presentate questo biglietto e  vi introdurranno da me).

Alpeggi e borgate nelle vallate alpine, Re Oreste, Susa Libri, 1999

Allontanatisi gli inaspettati amanti dell`arte venatoria, Severino non ci pensò più e tornò alle sue faccende abituali. Non molto tempo dopo passò per l’alpeggio il parroco del Forno, al quale Severìń raccontò l’episodio e, a confermare la verità, gli mostrò il biglietto: ‘Chi c’a íët smiàme lu cap u ët lasàme lu bièt!’ (colui che mi sembrava il capo mi ha invitato e mi ha lasciato un biglietto). Il sacerdote lesse quasi incredulo ed esclamò: ‘Ma a l’èra ‘l re!’ (ma era il re!). ‘Lu rài? (il re?) – replicava ancora stupito Severìńe u ët ‘nvitame a sa chë?’ (e mi ha invitato a casa sua?). Per il momento la cosa finì lì, ma in seguito il margaro del Sellerì non ebbe più pace sin quando, un bel giorno, se ne venne a Torino in Piazza Castello, vestito a festa, in compagnia del fratello. Si presentarono all’indirizzo avuto e furono accolti dal comandante il corpo di guardia che, vistoli di primo acchito, con buone parole cercò di persuaderli a cambiare direzione. Ma il testardo Severìń, da buon montanaro, non mollò e ad un certo punto, spazientito per la sufficienza dell’ufficiale, estrasse il biglietto scritto dal re e gli disse: ‘Büca ‘n poch, mi i ièi lu bièt!’ (Guarda un po’, io ho il bigliettol). Cambiò lo scenario: il capitano dei dragoni introdusse i due contadini immediatamente nella sala reale. Vittorio Emanuele ll non si fece attendere, andò incontro a Severìń con la sua cordialità abituale e, battendogli la mano sulla spalla, gli disse sorridendo: ‘Cum a và, Severìń? Fínalmènt i se v’nü a truvéme!’ (come va, Severino? Finalmente, siete venuto a trovarmi!). Chiacchierarono affabilmente a lungo, poi il re disse: ‘Ambelelà i l’éve mustràme le vòstre bèstie, adess iu fas vëdde le mie!’ (lassù mi avete fatto vedere le vostre bestie, adesso vi faccio vedere le mie!) e, pigliandolo a braccetto, lo condusse alle scuderie passando per i lussuosi androni del palazzo reale. Il re osservava compiaciuto, poi ad un tratto chiese a bruciapelo: ‘E biń, Severìń, cosa ‘na dìe d`Ie mìe bèstie?’ (E bene, Severino, cosa ne pensate delle mie bestie?) Severino non rispose e tentennò con il capo, il re ripeté la domanda e finalmente l`astuto contadino ribatté: ‘Mi l’mùʃu möi vàce, e im dùnunt lu lac, ël tumè e lu böru. Vui u musèi vòste bèstie?’ (io mungo le mie mucche, ed esse mi danno il latte, le tome e il burro: voi mungete le vostre bestie?). Il re scoppiò in una fragorosa risata, gli batté la mano sulla spalla e commentò: ‘I l’éve raʃùń, Severìń, vùi la sévi pi lùńga che mi!’ (Avete ragione, Severino, voi la sapete più lunga di me!).” (Alpeggi e borgate, pagg. 32-34)

Veduta dell’alpeggio Sellerì a monte, in un’epoca non troppo lontana da quando è avvenuto l’incontro tra il re Vittorio Emanuele II e Severino. Oggi gli edifici sono stati completamente ristrutturati e ospitano il Rifugio “Fontana Mura“. Questa cartolina entra di diritto tra quelle segnalate nell’articolo sulle cartoline sbagliate, perché attribuisce l’alpeggio a Giaveno, mentre si trova non solo sul territorio ma appartiene al Comune di Coazze, che lo affitta. Inoltre usa il termine “alpi” che è improprio, se non alpeggio avrebbe dovuto usare “alpe”, ma forse si riferiva al fatto che gli alpeggi sono due. Quello inferiore si trova comunque distante e a 1545 metri di altitudine. Anche l’altitudine indicata è sbagliata, l’Alpeggio Sellerì superiore si trova a m.1726 di altitudine.

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