“Magne”, “brëndu” e “disëndu dasprà”: era questo il Carnevale di Coazze

Dopo l’Epifania e in attesa delle Ceneri si sviluppava il periodo di Carnevale. Erano momenti di riposo nel mondo contadino, si faceva legna e qualche riparazione in casa e c’era tempo nelle lunghe notti per “le vià”. Nelle stalle, i locali più caldi (ci pensavano le mucche) della casa si vegliava, chiacchierando ma anche continuando a lavorare: fare tela, lavorare a maglia, scegliere le castagne, piccole riparazioni. Poteva capitare che arrivassero “le magne” a vivacizzare la serata. Erano di solito maschi che si presentavano mascherati, con abiti femminili e voce in falsetto, per non essere riconosciuti. C’era chi faceva scena muta, soprattutto se visitava amici o parenti, che anche con la voce alterata avrebbero potuto riconoscerlo. Era un tira e molla continuo, tra domande indagatrici e risposte elusive. La soddisfazione era non farsi riconoscere e sentire magari ancora il giorno dopo parenti e amici che si interrogavano sulla identità delle “magne” visitatrici della notte precedente. Si poteva “alè ań màgna” fin da dopo l’Epifania, mentre si andava in “brëndu” solo gli ultimi giorni di Carnevale, “li drié giòrn”.

“Brando”, che a Coazze è anche il nome di una borgata e un cognome diffuso, deriva dall’antico francese “Branler”, che significa “ondeggiare, scuotere”. Brando è anche il nome di un’antica danza monferrina molto vivace. Dal verbo deriva pure il nome di una caratteristica ricetta marinara ligure a base di merluzzo, il “brandacujun”, che richiedeva appunto di girare e rimestare a lungo l’impasto, assecondando l’ondeggiare della barca. Dal verbo potrebbe derivare anche il termine “randè” (saltare, con slancio), oggi poco usato nel patuà francoprovenzale di Coazze, ma testimoniato dalla espressione “randè lu falò” (saltare il falò), pratica iniziatica imposta un tempo agli sposi, specie se la sposa non era della borgata.

Il gruppo dei brëndu, probabilmente nel Carnevale del 2009, con tre versioni della véii, foto di Marco Rosa Marin.
Il gruppo dei brëndu, sempre accompagnato dalla véii, in via Cavour a Coazze, 17 febbraio 2015.

Alè ań brëndu”, che potremmo tradurre all’incirca con “girovagare”, era un modo divertente per procurarsi gli ingredienti per una bella cena carnevalesca. Da soli, ma meglio in gruppo, si girava per le case a chiedere “Parëń për carlëvé ?” “Niente per carnevale?”. Maschere curiose (è in questo contesto che è nata “la véii”) e l’accompagnamento musicale erano un ottimo richiamo e inducevano la gente ad essere generosa. Di solito offriva uova, caramelle e biscotti ai piccoli. Tome e bottiglie di vino erano più rare ma molto gradite. Una bella frittata in compagnia concludeva la giornata. Questa pratica è quella più persistente e prima del Covid ancora praticata, in modo quasi istituzionale, con accompagnamento musicale e supporto motorizzato!

Un’usanza praticamente sparita, e di cui non c’è particolare rimpianto, era invece quella del “sabato disperato”. Non solo a Coazze l’ultimo sabato di carnevale era “lu disëndu dasprà”. I giovani si divertivano a fare le “dësdéʃie”, scherzi e dispetti, di solito innocenti, a volte pesanti. Si nascondevano o scambiavano di posto oggetti e attrezzi, spesso le vittime erano i panni stesi, specie la biancheria intima. Se andava bene finivano sugli alberi vicini, molto peggio era ritrovare coperte, lenzuola o materassi in mezzo ai prati o addirittura nei “baciàss” (lavatoi). Si prendevano di mira soprattutto le case dove c’erano le “mariòire”, le ragazze nubili. Guido Mauro Maritano, in Tramié a l’arp, ricorda la disperazione di Custantìń du Dré d’ Sëń Flì (borgata Flizzo, di Forno), più volte bersagliato per le sue giovani figlie e poco consolato dai vicini che come unico rimedio alle ripetute scorrerie gli consigliavano di trovare loro un marito. Come dicevo, non solo a Coazze, ma in molti paesi c’era questa usanza, oggi quasi sparita. Ricordo di aver letto di qualche eccesso vandalico in anni passati a Villar Focchiardo.

  

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