L’ultimo pane di papà

35 anni fa, il 31 dicembre 1988 mio padre, Pietro Ostorero, cessava l’attività. Si spegneva definitivamente l’ultimo forno a legna della Val Sangone. Lo aveva costruito suo padre, Beniamino, dopo essere tornato dalla prigionia in Ungheria e dal presidiare la Libia. Era stato congedato il 20 dicembre 1919 col grado di caporale e la qualifica di panettiere. Il mestiere lo aveva imparato ai Sërvéi (Cervelli), cuocendo nel forno di borgata Pantera (la Pantìri). Si era anche fidanzato con Letizia, della vicina Giovalera (Giuvalìri), che nel frattempo aveva perso il braccio destro in un grave infortunio alla Cartiera Sertorio. In America erano iniziati i “Roaring Twenties”, i ruggenti Anni Venti, ma anche i miei nonni non scherzavano: in pochi mesi Beniamino, un tuttofare, costruiva a Sangonetto due stanze e un forno a legna, sposava Letizia e nel 1921 cominciava a fare e vendere pane, mentre la moglie metteva al mondo il primogenito Giuseppe, “Pinòt”, e poi Gemma e Ferruccio nei due anni successivi!

La scelta di Sangonetto era stata strategica. Era una borgata di poche case, ma vi passavano le strade per Forno, Indiritto e Cervelli, che si animavano nei giorni di mercato e nei fatidici cambi di turno nelle fabbriche. Non c’era orario, bisognava servire chi passava alle 5,30, per il turno della mattina, e chi passava dopo le 22, dopo il turno del pomeriggio. Mio nonno non era alto (m.1,60 nel documento di congedo), ma forte ed energico. Lavorava da solo, senza macchinari, oltre un quintale di farina al giorno e l’acqua bisognava andare a prenderla alla fontana. Mia nonna gestiva il negozio, con un braccio solo faceva pacchetti quasi ermetici (allora si impacchettava quasi tutto, le merci si vendevano sciolte). La sorella Erminia dava una mano in casa e badava ai figli, che nel 1926 diventavano quattro con la nascita di Pietro, mio padre. Lavorando giorno e notte (un modo di dire che in questo caso non è un’iperbole) l’attività prosperava e mio nonno aggiungeva stanze alla casa. Mia nonna investiva sugli studi: Giuseppe in seminario avviato al sacerdozio, una prospettiva stroncata dalla Campagna di Russia, da cui non è più tornato. Gemma in convitto a Torino per arrivare al diploma magistrale. Ferruccio e Pietro, allergici al collegio come il figlio di Peppone, si sarebbero impiegati alla FIAT, Ferruccio fino alla pensione, mio padre per pochi mesi. Con l’accusa di vendere pane ai partigiani mio nonno venne arrestato dai tedeschi e stette un mese in carcere a Pinerolo e poi alle “Nuove” di Torino, vicino alla cella di Enrico Valobra, l’ebreo poi deportato e morto a Mauthausen. Mio padre, che aveva iniziato da poco a lavorare in FIAT, dovette stare a casa per continuare l’attività di panificazione e da quel momento il suo destino fu segnato. Con mia mamma  Rosa Usseglio Gros, (la Ruʃèta da Cùmba), sposata nel 1945, affiancò i genitori nella conduzione della panetteria e del negozio di alimentari, che nel frattempo aveva ottenuto la privativa dei tabacchi.

   

Mio nonno Beniamino Ostorero era nato negli ultimi giorni del 1895, ma venne “consegnato” all’anagrafe come nato il primo gennaio del 1896. Questo gli risparmiò qualche mese di guerra. Quando venne fatto prigioniero e portato in Ungheria il mestiere di panettiere gli risparmiò la fame. Finita la guerra venne mandato alcuni mesi a presidiare la Libia e solo alla fine del 1919 venne congedato.
1930 circa. Letizia e Beniamino accanto ai loro quattro figli: Ferruccio, Pietro, Gemma e Giuseppe.
La panetteria di Sangonetto nel 1930 circa. Da sinistra, seduta, mia nonna Letizia, accanto i figli e alcuni amici. In piedi a sinistra mio nonno Beniamino.
Fin da bambino mio padre, come i fratelli, aiutava mio nonno in panetteria. A 17 anni, nel 1943, essendo quasi sotto leva, riuscì ad entrare in FIAT, con la speranza che, svolgendo un lavoro strategico, non sarebbe stato arruolato. Ma quando il padre Beniamino venne arrestato dai tedeschi, con l’accusa di collaborazionismo con i partigiani, Pietro (curioso che la tessera sia intestata a “Pierino!) fu obbligato a rinunciare per continuare l’attività della panetteria, cosa che fece poi per 45 anni.

Mio padre nato, vissuto e morto praticamente sempre nella stessa casa, era tradizionalista e per i quarantacinque anni dedicati a far pane è rimasto legato ai rituali e ai formati ereditati dal padre. Sordo alle mode degli additivi, dei mille formati, delle pizze e dei dolci, ha continuato a sfornare solo “michè e pëŋ citu”. Quando negli anni Settanta sono arrivate pressioni per convertire il forno a legna in uno più moderno e “igienico” a combustibile, ha resistito e quasi pensato di chiudere. Alla fine ha avuto ragione, anzi per il pane cotto nel forno a legna arrivavano clienti anche da lontano. Nel corso degli anni si è comunque dotato di macchinari che alleviassero la fatica e accelerassero la lavorazione, l’impastatrice e la tornitrice, che non incidevano sulla tipologia e la qualità del prodotto. Nell’autunno del 1954 aveva acquistato un camioncino FIAT, fondamentale per approvvigionarsi di sale e tabacchi al Magazzino del Monopolio di Avigliana. Con questo portava anche il pane al venerdì all’Indiritto e la domenica a Forno, dove si teneva il mercato nella piazza della chiesa. Poi è cominciato l’esodo dalle borgate. La stagione estiva bilanciava la diminuzione di residenti e l’attività è proseguita tranquilla fino agli Anni Ottanta, quando una serie di fattori ha spinto alla chiusura: mia mamma debole di cuore, i tre figli che avevano preso altre strade, i clienti in diminuzione per l’emigrazione. Solo quando si è stabilita la data, la fine del 1988, ho veramente capito che avrei assistito a una svolta epocale nella storia della mia famiglia. I ritmi della panificazione che avevano scandito i nostri orari, il via vai nel negozio che aveva accompagnato la nostra vita, erano una presenza tanto abituale da essere scontata, inavvertita. Ma ora nel buio e nel freddo di un forno spento sarebbero finiti settant’anni, due generazioni, migliaia di clienti, milioni di micconi. Mi sono reso conto che avevo provato gioie esclusive: il profumo fragrante del pane appena uscito dal forno, la morbidezza di un grissino ancora caldo, gli aromi avvolgenti delle “siùle pièŋe” di San Giovanni, la carezza ruvida della pagnottina di “pëŋ d’mèlia” posata nella mano protesa. Le apprezzavo ora, come spesso capita, che le avevo perse.

Alcuni fotogrammi del filmato: l’accensione del forno
Mio padre alla impastatrice “la machina da ampastè”
la tornitrice “la machina da antürnì”

Da qualche anno Antonella e Roberto mi avevano coinvolto nell’esperienza di Giaveno TV, guidavo l’appuntamento quindicinale di “A nosta moda” e avevo imparato ad usare una telecamera. Presi una delle migliori decisioni della mia vita: filmare mio padre alle prese con l’intero ciclo della panificazione col forno a legna. Non potevo rendere i profumi e i sapori, ma almeno le fasi, i gesti e gli strumenti che generavano il miracolo del pane fragrante li avrei avuti come ricordo mio, nostro, di tutti. Ricordo che la sua trasmissione mi aveva emozionato, che il commento in diretta mi aveva creato qualche difficoltà. Per fortuna lo avevamo registrato e, anche se un po’ impacciato, resta una sottolineatura indispensabile per capire la complessità della panificazione artigianale e che occorre tanta esperienza per gestire un “forn a bo”.

Questo filmato è stato girato nel dicembre 1988 e documenta le fasi di una delle ultime panificazioni di mio padre, usando i macchinari e il forno a legna costruito da mio nonno nel 1920.

Commenti e ricordi

Fulvio Cariola – Ricordi di infanzia. Patacchino, o villeggiante che dir si voglia, sono rimasto legato ai “Servéi”… Quanta strada tutte le mattine delle vacanze per andare a prendere il pane. Imparare gli orari del forno per accaparrarsi una biova che ovviamente non arrivava a casa… Non nascondo la tristezza provata quando dopo anni sono tornato “amùn lai… La Tisia l’era sarà…” Il cortile con le pietre levigate vuoto e quella casa totalmente vuota. Ma quel sapore del pane appena sfornato. Il suo profumo resterà per sempre nei miei ricordi. Potrei descrivere il negozio centimetro per centimetro. Compreso Guido che di tanto in tanto aiutava…

Loriana Ardito – Grazie per questo documento storico molto piacevole. Complimenti ai nonni così lungimiranti, in particolare un gran battimani alla nonna Letizia per aver investito anche sull’ istruzione dei figli che, visti i tempi e i luoghi di provenienza, non era così scontato. Questo documentario dovrebbe essere proiettato nelle scuole, ai bimbi delle elementari e ai ragazzi delle medie per far sì che capiscano il gran lavoro a cui erano assoggettati i nostri nonni che potevano contare solo sulla forza delle loro braccia. Ci sarebbe da parlarne per ore!

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