Lo “straniamento” dei Francoprovenzali

Atti del convegno CORECOM su Comunicazione e rapporti transfrontalieri delle minoranze alpine in Piemonte, Torino, Museo della Montagna, 19-20 aprile 2006.
La Piana di San Nicolao ai piedi delle “scale” i tornanti che portano al Lago. Sulla destra l’alpeggio.

In questo intervento fatto ad un convegno nel 2006 ho sostanzialmente sviluppato l’idea che bisogna guardare alla realtà con prospettive che superino i luoghi comuni:

  1. Se si guarda alla lingua come solo codice comunicativo il patois è moribondo, se si riconosce ad esso un valore simbolico, di storia e di identità, la prospettiva è diversa.
  2. Le frontiere alpine sembrano fisse, in realtà nel corso della storia sono mutate più volte, a dispetto degli interessi delle popolazioni interessate.
  3. Televisione ed internet, che sembrano estranei al mondo dei montanari, possono essere strumenti di cui appropriarsi per farsi conoscere e trasmettere la propria cultura e la propria identità.

Lo “straniamento” dei Francoprovenzali

Mi capita, insegnando letteratura, di usare termini, formule espressive un po’ particolari, come “simbolo” e come “straniamento”.  A proposito del francoprovenzale mi sono accorto, proprio recentemente, innalzando le nostre bandiere nei vari comuni, sull’onda del progetto della Provincia di Torino legato alle Olimpiadi, che il simbolo bandiera ha un suo valore, quindi, al di là dell’esistenza concreta dei Francoprovenzali, il francoprovenzale comincia a diventare un’entità di riferimento e il valore del simbolo non è mai da sottovalutare, perché non dimentichiamoci che per dei simboli, a volte anche sbagliati, gli uomini hanno lottato e purtroppo sono anche morti. Quindi l’importanza del simbolo nella difesa e nel mantenimento della lingua non è affatto da trascurare. Io ho constatato che il patois è uno strumento comunicativo meno pertinente alla realtà moderna, noi abbiamo un patrimonio linguistico che sicuramente è più adatto alla vita contadina, all’allevamento, all’alta montagna. Di fronte ai neologismi, come d’altra parte capita all’italiano, che umilmente si inchina all’inglese tante volte,  ci troviamo in difficoltà nell’usare il nostro patois, la nostra lingua per comunicare, però mi sono anche accorto che man mano che l’uso del patois scende, l’attaccamento ad esso, la valorizzazione del patois cresce. Negli anni Cinquanta gli attrezzi della vita contadina, simbolo di fatica, cominciavano ad essere messi nelle soffitte, o addirittura bruciati o svenduti, erano anche gli anni in cui il patois era considerato la lingua della povertà, dell’emarginazione, della grossolanità. Ma proprio negli anni in cui il patois stava sparendo, ecco che diventava simbolicamente un forte valore, così come capita di riacquistare magari nei mercatini a caro prezzo quegli attrezzi che i nostri nonni hanno svenduto o abbandonato. Quindi, se non c’è una funzionalità comunicativa così pressante, c’è sicuramente un valore simbolico che non è da trascurare.

E a proposito del tema del convegno, richiamo un altro termine cui ho accennato prima: il concetto di “straniamento”, cioè la capacità di guardare il mondo da una prospettiva un po’ diversa, perché altrimenti scadiamo nei luoghi comuni.  Se noi guardiamo le nostre montagne, ci appaiono immobili, perché noi le guardiamo con l’occhio dell’uomo che vive qualche decina d`anni su questa terra e non con la prospettiva geologica della trasformazione e così cadiamo nello stesso rischio se noi guardiamo alle frontiere con l’occhio della cronaca, cioè della nostra attualità, e non con l’occhio della storia, perché  allora ci accorgiamo che queste frontiere che noi diamo per scontate, in realtà, soprattutto nella nostra area, hanno avuto una mobilità incredibile, per cui zone che noi riteniamo profondamente vincolate, ancorate ad uno stato, non lo erano, non solo a livello politico ma religioso.  Mi è capitato di leggere, ad esempio, la protesta della Diocesi di Aosta contro il Papa, nel 1611, in piena Controriforma, che chiedeva un contributo per una crociata,  per le lotte contro i Turchi che allora premevano sui confini orientali d`Europa, perché i valdostani appartenevano all`Archidiocesi della Tarantaise e non si sentivano assolutamente vincolati al Papa di Roma, ma alla chiesa gallicana.

E così possiamo dire di Moncenisio, che ha visto la frontiera, a seconda delle guerre, spostarsi di qua e di là in modo  incredibile, però sempre sulla testa degli abitanti della montagna. Nel 1860, quando Napoleone III, per l’aiuto dato nella Seconda Guerra d’Indipendenza, ottenne la Savoia e il Nizzardo, il Piano del Moncenisio  venne lasciato all`Italia; peccato che nella Piana del Moncenisio ci fossero in realtà i pascoli di Lanslebourg, di Lanslevillard, insomma dei francesi, così  come i Savoia si tennero come riserva di caccia di Vittorio Emanuele II, gran re cacciatore, diversi alpeggi delle Alpi Marittime che però appartenevano ai Francesi. Così capitò nel 1947 quando, a guerra finita,  Ferrera Cenisio perse il suo alpeggio bellissimo della Piana di San Nicolao e tutte le zone alpine nostre persero dei pascoli importanti: notate, pascoli importanti tra l`altro di persone che magari litigavano per i pascoli, ma che parlavano, se non la stessa lingua, sicuramente patois della stessa famiglia linguistica.

Troppe volte la montagna ha subito e il rischio è sempre quello: che la montagna subisca le comunicazioni. Comunicare per la montagna rischia sovente di essere un complemento di moto per luogo, cioè di attraversamento e non un bel complemento di fine: la comunicazione dovrebbe anche essere per la montagna, perché la montagna è svantaggiata orograficamente, indubbiamente, quindi bisogna cercare delle altre prospettive.

A questo proposito ricordo che anche due forme comunicative moderne come la televisione, ma soprattutto la rete di internet, che è una nuova frontiera di cui oggi si è parlato poco, ma in cui io credo molto, in realtà in montagna faticano; faticano perché è difficile, con un sistema di ripetitori, coprire tutto e, per internet, perché la banda larga fatica ad arrivare nelle zone di montagna dal momento che non c’è presenza che induca a grandi investimenti. Pensiamo invece alla grande potenzialità di internet, perché internet ci consente, tra l’altro, di comunicare quella che secondo me è la bellezza della nostra lingua e cioè proprio la nostra fonetica, il nostro accento e di comunicarlo a tutto il mondo e probabilmente anche con dei costi non clamorosi.

Un invito che rivolgo a tutti noi è proprio quello di lottare, non solo per avere una giusta copertura televisiva, ma anche, come hanno fatto i nostri vecchi che si sono adattati ad un territorio difficile, ricavandone il massimo di risorse, per fare in modo, per una volta, che la comunicazione non ci passi sulla testa, non sia a nostro discapito, ma sia un modo, per noi minoranze di farci conoscere.

Intervento di Guido Ostorero, dell’Associazione studi e ricerche francoprovenzali  Effepi, al convegno CORECOM su Comunicazione e rapporti transfrontalieri delle minoranze alpine in Piemonte, Torino, Museo della Montagna, 19-20 aprile 2006.