Le case dei paesi e delle borgate

Cap. 3° – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

1) LE CASE DEI PAESI

Quando la bisnonna era bambina, le case erano decenti, ma scomode, alte due o tre piani. Le scale interne erano ripide, buie. Le stanze piccole e basse. Al centro degli alloggi c’era la cucina dove dominava il “putagé” a legna, con il forno e il recipiente per l’acqua calda. Sul piano di cottura c’erano dei cerchi metallici concentrici che si toglievano quando si doveva cucinare a fuoco vivo e si rimettevano quando c’era solo da mantenere in caldo la pietanza. Nelle cucine mancavano i rubinetti. Oh bella! Penseranno i ragazzi del terzo millennio. Già, perché l’acqua arrivava in pochissime case. E allora per lavarsi, bere e cucinare? Si andava a prendere l’acqua con i secchi in cortile o alle fontanelle nelle piazze e nelle vie. In cucina c’era sempre il secchio dell’acqua con il suo mestolo (la “càsi”) per bere e in camera da letto c’era un piccolo mobile con la brocca piena d’acqua, un catino e un asciugamano di tela con le iniziali della padrona di casa ricamate rosso su bianco o bianco su bianco.

La bisnonna ricorda che d’inverno, nelle stanze prive di riscaldamento, l’acqua gelava nelle brocche e allora per lavarsi si andava in cucina o nella stalla. I ragazzi erano tentati di passarsi in fretta le mani bagnate sulla faccia (“lavarsi come il gatto”) ma le madri incalzavano: “Con il sapone, anche il collo e le orecchie!”

Mancavano i bagni, le docce e i deodoranti. Tutto era sostituito dai “basiń”, recipienti di lamiera zincata o dai mastelli di legno dove si mettevano a mollo i panni. Il signor sapone, in pezzi, sostituiva tutti i detersivi: solo le signorine e le signore, per essere eleganti, cercavano le saponette profumate e qualche volta tenevano nel cassettone una piccola boccetta di profumo.

E per il wc.? Sui balconi c’era “lu còmu”, un gabbiotto di legno o di mattoni imbiancati, che aveva un buco nel centro, collegato a uno scarico. Era spesso usato da più famiglie con tante discussioni per le precedenze. D’inverno si rischiava di congelare là dentro. Immaginate doversi tirare fuori dal letto riscaldato da cumuli di coperte, uscire all’esterno sul balcone, entrare nel gabbiotto gelido… Per evitare i malanni allora si ricorreva ai vasi da notte, ora diventati oggetti di antiquariato, alcuni addirittura ricercati per le loro decorazioni. D’estate bisognava difendersi dai cattivi odori ricorrendo alla candeggina che disinfettava e deodorava senza bisogno di tanta pubblicità. Qualcuno di questi “servizi” è ancora visibile nelle case dei centri storici, trasformato in ripostiglio, dal giorno che le piastrelle e i sanitari, colorati o bianchi abbaglianti, occuparono di prepotenza gli spazi delle case nuove e vecchie. In campagna il gabbiotto era in cortile, sul lato più lontano dalla casa. Si possono immaginare le corse (da Olimpiade) sotto la pioggia battente, il ventaccio, la grandine o le difficoltà quando la neve intrappolava i piedi. Va da sé che, nello spalare il cortile, si dava la precedenza al sentiero verso il gabbiotto. A proposito, quando la sorella del nonno, emigrata ai primi del Novecento negli Stati Uniti, ritornò ottantenne in visita dopo la guerra, raccontò che a Westville, nell’Illinois, aveva incontrato un altro coazzese che non si capacitava del fatto che gli americani si ostinassero a costruire i gabinetti in casa. Secondo lui non era igienico!

Nelle case di ringhiera, in fondo ai balconi c’era il “còmu”, il gabinetto comune. In tempi più antichi e nelle borgate spesso il “còmu” si trovava in fondo al cortile, lontano dalla casa.
pag. 32 – Non c’era l’acqua corrente nelle case, ma fontane e lavatoi (“baciàs”) pubblici.

Nei paesi c’erano i lavatoi pubblici che sfruttavano l’acqua dei torrenti o dei canali. L’acqua scorreva pure in un incavo in mezzo alla strada. La bisnonna ricorda che un Sabato Santo, quando le campane di Pasqua cominciarono a suonare (allora lo facevano di sabato) la gente del mercato, in via Umberto I a Giaveno, si bagnò gli occhi, secondo un’antica usanza, con l’acqua limpida che scorreva nel canaletto centrale. Non corse alle fontanelle.

Via Umberto a Giaveno, col caratteristico canaletto centrale, per lo scorrimento delle acque. (Collezione cartoline d’epoca di Carlo Giacone)
Anche nei paesi più grandi i negozi avevano porte e finestre normali e non grandi vetrine illuminate. Qui la drogheria dei coniugi Fasano a Giaveno (Collezione cartoline d’epoca di Carlo Giacone)

La caratteristica più appariscente dei paesi dopo la Chiesa, le piazzette, il Municipio e le grandi scuole elementari, erano i negozi. Non bisogna pensare che, settanta anni fa, fossero grandi e variopinti come quelli di oggi. La normale finestra faceva anche da vetrina. Le insegne, di latta e senza neon, si cambiavano soltanto con il passaggio a un nuovo proprietario. C’erano negozi che occupavano una sola stanza, riempita di merci fino a togliere il respiro. Certe botteghe che vendevano sale e tabacchi erano strapiene di un’infinità di cose, comprese le caramelle e i dolcetti conservati in grandi vasi di vetro appoggiati al bancone. A quei tempi non c’erano le confezioni che tutti conoscono. Si andava a far la spesa con le “tàs-ce” di tela. Anche lo zucchero si vendeva sfuso, incartocciato in una carta di un particolare blu, che ancora si chiama “color carta da zucchero”. Il sale, prevalentemente grosso, si incartava in una carta giallastra più grossolana. Anche il vino si poteva comprare sfuso, portando da casa il fiasco vuoto.

I bambini potevano avere le caramelle e i cioccolatini dei grandi vasi luccicanti sul bancone con il permesso dei genitori, uno alla volta o perfino tre o quattro in occasioni speciali. La bisnonna non ricorda che ci fossero negozi che vendessero solo giocattoli; forse c’erano, ma lei ha visto sempre i giocattoli accanto ad altre merci. Pochi in verità e non molto grossi. Gli sguardi desiderosi dei bambini si posavano anche su quelli piccoli. Alla domenica e nei giorni di mercato c’erano le bancarelle che vendevano mini giocattoli e dolcetti. A Coazze fuori dalla Chiesa c’era il banchetto della “Léna”, di fronte al cancello di Villa Prever quello della “Bèga”, frequentatissimi dai ragazzi. Con due soldi essi compravano quattro “pàste di mèlia” o un giocattolo di 10 cm.

2) LE CASE DELLE BORGATE

La Valsangone è disseminata di borgate in pianura e sulle montagne. Il Comune di Giaveno ne conta più di un centinaio, quello di Coazze un po’ meno. I capoluoghi avevano meno abitanti delle borgate nel loro complesso. Nel 1901 la frazione Maddalena da sola ne contava 2773, mentre Giaveno capoluogo ne contava 1892.[1] Ora invece è il contrario: le borgate oltre i 900 m. di altitudine sono deserte.

Una volta erano abitate tutto l’anno fino ai 1100 metri. Erano piene di voci, di canti, di richiami. Si sentivano i cani, i ‘ciuchìń’ e i ‘rudùń’ delle bestie al pascolo, i colpi dei taglialegna nei boschi, il battere del martello sulle falci.

Sulle borgate, soffocate dalla vegetazione disordinata, solo qualche strido di uccello rompe il silenzio, adesso!

È difficile catalogare le borgate. Non basta dividerle in piccole e grandi perché varia la loro conformazione, la posizione nel territorio e nei confronti del sole e dell’acqua. A parità di altitudine la temperatura e il clima possono essere molto diversi. E così la vicinanza ad una strada e all’acqua abbondante possono rendere la vita meno difficile.

Se guardiamo alla disposizione delle case troviamo molte differenze.

– Ci sono borgate con le case addossate le une alle altre, raggruppate in cerchio con passaggi stretti, gradini e dislivelli, in posizione di difesa dal vento, dal freddo, dai nemici. Esse sottraggono il minimo spazio al terreno fertile, come le borgate Aletti e Tonda all’Indiritto di Coazze.

L’abitato “chiuso” di borgata Tonda “Sëń Tùnda”, sul contrafforte al centro l’aerea chiesetta di Borgata Rocco.

– Altre sono esposte al sole, agli orizzonti dei monti e della pianura come ad esempio Mattonera, Giaconera, Bagagera.

pag. 34 – Borgata Bagagera “Bagagìri”, (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 34 – Borgata Chianalotto (Foto di Luigi Darbesio)

– Altre si sono allungate sul ciglio di una strada o di una mulattiera come  Pontepietra, Molé di Forno, Rosa a Coazze.

Se invece consideriamo l’esposizione al sole e la vicinanza ai torrenti troviamo borgate immerse nell’ombra del fondovalle o aggrappate ai costoni della montagna tanto che sembrano scivolare a valle da un momento all’altro. Eppure sono lì da secoli, tormentate dalla siccità cronica. Le borgate del fondovalle darebbero un bel po’ della loro acqua per i pomeriggi d’inverno al sole!

In genere le borgate sorgono in zone riparate dal vento, vicino a una sorgente, in sicurezza rispetto ai torrenti e alle frane. I montanari d’istinto sapevano dove costruire, senza studi di geologia, senza piani regolatori. Le borgate sono andate in rovina per la mancanza di manutenzione più che per le frane e le esondazioni.

Nel panorama variegato della Valsangone non mancano le borgate sulle creste e su poggi ventosi come la Borgata “Ciandèt” di Giaveno o Pianiermo e “Ciargiùr” di Coazze. Perché questa scelta? Per tenere d’occhio il territorio? Per la vicinanza di una cava? I costruttori non possedevano altro che quel pezzetto di terra? I montanari di una volta si stabilivano ovunque ci fosse un po’ di erba per gli animali? O forse perché la bellezza degli orizzonti confortava, almeno per un momento, la loro dura fatica?

Le case delle borgate, come tutte le case rurali, erano grandi. Comprendevano, oltre i locali dell’abitazione, la stalla, il fienile, il pagliaio, i depositi per la frutta, le patate, i ricci delle castagne (combustibile per il camino o la stufa), le foglie secche (quelle morbide di faggio per le “paiáse”, i materassi di allora, le altre per il “paiùń” e la lettiera delle mucche).

Ottanta, cento anni fa le case nuove erano poche. Quasi tutte erano centenarie, spesso rifacimenti di abitazioni più antiche.

Davanti alla casa c’era il cortile, spesso condiviso con i vicini,[2] la tettoia (“bënàl”) per gli attrezzi e la legna, a volte sostituita dal portico a pian terreno davanti alla cucina e alla stalla. Su alcune facciate si notavano i pilastri o le colonne di pietra che sostenevano i balconi di legno e il tetto coperto da “lo∫e” (lastre di pietra grigia).

Le scale erano esterne, in cortile, per semplificare le costruzioni e risparmiare spazio. Potevano essere capolavori a più rampe con i pianerottoli e i corrimani oppure semplici gradini di pietra scalpellata senza nessun appoggio o addirittura con i gradini incastrati in un muro laterale. Eppure su e giù per queste scale rudimentali correvano i bambini (anche a gattoni) e gli adulti che avevano fretta!

E poi c’erano le scale a pioli, vere scale mobili, indispensabili per la raccolta della frutta, per mille lavori, e per raggiungere l’apertura dei solai non collegati a una scala fissa per mancanza di spazio. Le scale a pioli variavano per larghezza, lunghezza, spessore. Le costruivano i contadini o lo specialista, “l’as-cialé”. Si cominciava con il taglio di un albero alto e dritto, ad esempio un larice, una “malësa”. Poi si scortecciava, si privava dei rami; lo si squadrava, si tagliava a metà nel senso della lunghezza e lo si lasciava in terra finché la linfa fosse del tutto asciugata. Dopo un po’ di tempo, nelle due parti lunghe, si facevano i buchi, a distanza regolare, e venivano inseriti i pioli (i gradini di legno). Era un lavoro di precisione perché da esso dipendeva la vita delle persone che sarebbero salite o discese. Le case delle borgate erano costruite in pietra, intonacate o no, con muri spessi, tirati su con grande bravura a mani nude.

La bisnonna da giovane andava in montagna e rifletteva sui muri, perfettamente perpendicolari che si vedevano alle borgate alte, sui pietroni d’angolo collocati sugli spigoli con tanta abilità. Pensava alle fatiche per portare in quel luogo pietre, sabbia, travi e poi mettere insieme tutte queste cose.

pag. 36 – Borgata Girodera “Girudìri”. Pietra e legno erano materiali a km 0 e sono stati usati in modo quasi esclusivo per la costruzione delle case della borgata. (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 36 – Borgata Dogheria “Dugrië”. Ora la natura sembra volerseli riprendere e l’opera dell’uomo tornerà ad essere bosco e pietraia. (Foto di Bartolomeo Vanzetti)

Ancora nella prima metà del Novecento ogni famiglia si costruiva la sua casa. Naturalmente senza impianti elettrici e idraulici, senza antenne televisive. La luce elettrica e l’acqua in casa l’avevano solo i centri abitati in pianura.

Girando per le montagne si vedono ancora case ben costruite, nonostante la situazione di abbandono. Per esempio a “Sën Mamél”, sulla strada di Pian Gorai. E poi una sorpresa: sulle facciate che vanno in rovina si vedono ancora dipinti belli, espressivi, degni delle case nobili, come quelli della borgata Prietto all’Indiritto. Essi la dicono lunga sulla qualità di quella gente che si ammazzava di fatica, doveva risparmiare il centesimo su tutto e poi si toglieva il pane di bocca e pagava un pittore per dipingere e decorare le case e i piloni della borgata!

Particolari architettonici e costruttivi delle baite dell’alta Val Sangone

La colonna rotonda e la struttura a palancati che la sovrasta sono peculiari e rendono riconoscibile questo angolo rustico della Val Sangone. Si tratta del famoso forno di Borgata Tonda dell’Indiritto di Coazze. Molto più difficile scoprire dove si trovano i sottostanti particolari architettonici e costruttivi tipici delle antiche case della nostra valle, dove la pietra prevale sul legno.
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
pag. 30 – (Foto di Bartolomeo Vanzetti)
Madonna del Rosario con S. Michele Arcangelo di G. Bruni, 1868, a borgata Mamel (Foto di Marco Guglielmino, 1999)

Le case con i pilastri piacevano alla bisnonna, ma la sua non li aveva. Benché fosse anch’essa centenaria, non aveva i pilastri, i balconi larghi, il portico davanti alla cucina e alla stalla. Il portico divideva a pianterreno la casa a metà, perché lo attraversava la stradetta della borgata. Però al primo piano la casa tornava di nuovo a unirsi mediante il fienile dell’ “arséta”, il fieno di secondo taglio raccolto in agosto e prediletto dalle mucche. Non aveva i balconi larghi la casa della bisnonna, ma aveva una terrazza coperta, riparata dalle piogge. Una terrazza che ha visto le tavolate delle feste e i giochi dei bambini. La bisnonna ricorda tanti pomeriggi di fine inverno, quando il sole è già forte e il gorgoglio della grondaia e lo stillicidio della neve fondente accompagnavano i suoi giochi.

La terrazza era anche un osservatorio. Di lì la bisnonna con la famiglia, durante la guerra 1940-45, vedeva bombardare Torino di notte e di giorno, e le sue mani stringevano la ringhiera per farsi forza contro l’orrore. E di lì, spesso videro avvicinarsi i tedeschi rastrellatori quando non sbucavano dai boschi.

pag. 39 – La casa della bisnonna Livia Picco, prima dei lavori di ammodernamento.
pag. 39 – La casa della bisnonna dopo i lavori di ammodernamento.

Anche la casa della bisnonna era antica. Nella seconda metà del 1700 (più di duecento anni fa) fu quasi distrutta da un incendio e rimase scoperchiata per sette anni. A quel tempo era abitata da un’antenata, vedova con due figli piccoli Pietro e Leonardo (il trisavolo della bisnonna). Questa antenata di cui si è dimenticato il nome, non aveva i soldi per far riparare la casa. Fu ospitata per la notte nella stalla dei vicini, la famiglia Ruffino per tutto il tempo. Forse il bestiame lo avrà tenuto nei ruderi rabberciati, ma non si sa. Poi i bambini crebbero e divennero “bòcia”, trasportarono le pietre dalla cava più vicina “du Ro’ da Lu∫íri” e ricostruirono la casa così bene che resistette ai secoli. Gli incendi a quei tempi erano frequenti: si usavano lumini e lanterne per l’illuminazione, si cucinava sulla fiamma libera del camino. Per un niente, qualcosa prendeva fuoco e l’incendio si estendeva alla paglia e al fieno. L’acqua era poca e il rio era spesso lontano!

Adesso le case delle borgate più vicine al paese sono state vendute, ristrutturate, sono irriconoscibili. Anche la casa della bisnonna. Suo padre a malincuore ha dovuto prendere questa decisione: lassù la vita era impossibile e poi l’edificio secolare aveva bisogno di troppe riparazioni.  Quando sono state costruite le strade, nel dopoguerra, la gente si stava già trasferendo a valle.

La bisnonna tuttavia vuole portare i ragazzi a curiosare dentro le case di una volta, per dare un’idea di come erano, prima che la vegetazione selvatica le invadesse, rendendole impenetrabili o le ristrutturazioni le trasformassero completamente. I locali più vissuti della casa erano la cucina e la stalla. In tre stagioni dell’anno (autunno, inverno, primavera) diventavano anche “salotto”, soggiorno e dormitorio. Nella cucina spiccava il camino o, nelle case “più moderne”, la stufa. Nel camino una sbarra di ferro orizzontale reggeva le catene (“cèńe”) a cui si agganciavano i paioli, mentre sul fuoco o sulla brace si mettevano i treppiedi come appoggio per le casseruole e i tegami. I camini di allora davano un senso di benessere quando erano accesi, ma avevano i loro limiti: disperdevano il calore nella canna fumaria e scaldavano solo nelle immediate vicinanze. La cucina inoltre si apriva direttamente sul cortile e l’andirivieni di una famiglia numerosa convogliava tantissima aria fredda. Nella cucina si trovavano: il tavolo e le sedie (più o meno eleganti o malandati), dei ripiani di legno o una “stagéra” o un armadio a muro per i piatti e tutto il necessario per preparare i pasti. Le “stagére” e i ripiani erano ingentiliti da strisce di carta tagliuzzate con le forbici, per formare ingegnose decorazioni. Sui tavoli della cucina hanno fatto i compiti generazioni e generazioni di scolari, spesso disturbati dal via vai dei famigliari, dagli strilli dei fratellini. Alle loro lamentele si sentivano rispondere: “Quando fai una cosa, pensa a quello che fai e non badare a tutto il resto”. Per un certo periodo, quando la bisnonna faceva i compiti ebbe il conforto di una calda presenza: un gattino rossiccio che faceva le fusa accovacciato sui piedi o sulla nuca, mentre lei si mordeva le dita sul problema “che non veniva” o sulle “trappole” della grammatica.

Nelle cucine non mancava la panca o la “prìri”, il muretto in pietra su cui si appoggiavano i secchi dell’acqua pulita per bere e cucinare, i paioli e le “brùńse” (pentole di ghisa).

La “brùńsa” appesa alla “cèńa” (catena), foto tratta da C’era una volta a Viù di Donatella Cane, Elena Guglielmino, Marilena Brunero.
Dino Rege mostra come si portava il “bà∫u” con i secchi.

Se neppure nei paesi c’era l’acqua in casa dappertutto, figuriamoci nelle borgate e nelle baite! Bisognava andare a prendere l’acqua alla sorgente, qualche volta lontana o in fondo a un prato ripido. Si agganciavano i secchi al “ba∫u”, un’asta di legno leggermente incurvato, con due tacche alle estremità per i secchi, e si risaliva il sentiero, spesso ghiacciato o scivoloso, in equilibrio instabile, con un secchio colmo dietro la schiena e un altro davanti. Per le necessità della famiglia non bastava un viaggio. Inoltre, per la maggior parte dell’anno, le bestie non andavano al pascolo e quindi bisognava portare l’acqua anche per loro. Per le mucche bere un secchio d’acqua è come per le persone berne un bicchiere. Che sollievo quando nella bella stagione bevevano al rio o all’abbeveratoio! La rivoluzione del gas in bombole e dell’acqua in casa arrivò alcuni anni dopo la guerra.

Le stalle erano in genere rettangolari con lo spazio ben ripartito. Sul lato più lungo stavano le mucche ed eventualmente le capre, legate alla greppia con delle catene. Sopra le greppia c’era la rastrelliera che veniva riempita di fieno e di erba mattino e sera. Sul lato più corto stavano i vitelli. Sul lato lungo, parallelo a quello delle mucche, troneggiava il “paiùń”, un recinto di assi che tratteneva foglie secche ricoperte di paglia: serviva per riposare o anche come letto per tutta la famiglia negli inverni freddi. Le stanze erano gelide e di termosifoni neppure l’ombra! Di fianco al “paiùń” c’era il “salotto”. Uno spazio tenuto pulitissimo con delle panche e degli sgabelli, vicino a una finestra o alla porta che aveva un finestrino incorporato. Nel soffitto sopra il “salotto” c’era un gancio per il lume a petrolio. D’inverno tutta la vita sociale delle borgate si concentrava in questo spazio. Infatti era il luogo dedicato alla “vià”, come si vedrà più avanti.

C’erano stalle minuscole con una sola mucca e due o tre capre. Le pecore non stavano nella stalla, ma in altro stanzone perché la loro magnifica pelliccia “ecologica” teneva caldo come una stufa! E c’erano stalle grandi con quattro o cinque mucche. Lì si stava veramente bene anche nelle notti più rigide.

Piccola o grande che fosse la stalla, quando entrava uno sconosciuto gli animali lo squadravano con occhi indagatori. Tutti i musi voltati verso di lui. Altri ambienti caratteristici erano i solai e la cantina (“lu storn”). Non bisogna pensare che essa contenesse file di bottiglie pregiate o damigiane panciute. Era il regno del latte e dei formaggi, delle patate e dei cibi, conservati nelle gabbietta appesa al soffitto, detta “muschéra”, l’antenata del frigo. In pochissime case soltanto, la cantina e le stalle avevano l’onore di un soffitto in muratura o di mattoni con le nervature, che convergevano al centro della volta ricurva. I pavimenti al piano terreno erano di terra battuta (e quando pioveva tanto, qua e là si formavano pozzanghere da saltare sportivamente). Ai piani superiori pavimenti e soffitti erano fatti con assi di legno. Beate le persone che dormivano nella stanza sopra la cucina! Lì saliva un po’ di fumo, ma anche il tepore. Sopra la stalle si trovava il fienile. Nel fienile c’era un buco, la “tràpa” da cui si faceva scendere direttamente il fieno nella stalla. I ragazzi si divertivano a saltare giù dalla “tràpa” nel “paiùń”. Ma dagli adulti quante sgridate!.

Curiosando, curiosando, siamo arrivati alle camere da letto, poche per le famiglie numerose di quei tempi. In genere c’erano due stanze attrezzate con il lettone, un armadio, striminzito rispetto ai nostri armadioni, un tavolino e, qualche volta, i comodini. Gli indumenti talvolta erano collocati su lunghe aste (“pèrtie”) appese orizzontalmente al soffitto. Queste erano le stanze dei genitori e dei nonni. I ragazzi erano parcheggiati in camerette, fienili e stalla, a seconda dell’età e della stagione, le culle in camera dei genitori, i più grandicelli in un lettino in camera dei nonni o addirittura nel loro lettone. Un particolare: i materassi di lana erano un lusso, molte volte si sostituivano con sacconi riempiti con foglie di faggio o di granoturco. Era la storica “paiása” o “paiási”. Se i bambini facevano la pipì a letto era molto più facile far asciugare o cambiare il contenuto del “paiasòt”.

pag. 41 – Una camera da letto ormai in disuso (Foto di Bartolomeo Vanzetti)

Allora non esistevano i pannolini usa e getta e i piccoli, avvolti in fasce e quadrati di cotone o canapa, (le “pàte”), erano sempre bagnati.

I mobili, gli utensili della casa si tramandavano di padre in figlio e diventavano, talvolta, oggetto di liti accanite.

Da bambina la bisnonna ha sentito raccontare dai nonni che, in una borgata di montagna dell’Indiritto, due figli, alla morte del padre, si divisero l’eredità: le sedie, il tavolo, i paioli, le “brùńse”, le posate e le scodelle di legno. Sembrava che la divisione procedesse bene. Alla fine restava l’armadio guardaroba. E lì scoppiò la guerra. Lo volevano tutti e due e non c’era verso di farli ragionare. Volarono insulti. Ciascuno gridò i propri meriti verso la famiglia, negati furiosamente dall’altro.

Erano sul punto di prendersi a botte, quando un parente, con ironia, suggerì:

“Spaccatelo in due!”. Detto e fatto. Afferrarono la sega e lo tagliarono a metà. E così giustizia fu fatta!


[1] In: Giaveno e i suoi protagonisti, Aghepos, 2006, pag. 63).

[2] Il cortile si chiamava “àiri” se davanti a una sola casa, “còrt” se condiviso da più abitazioni, mentre “li cürtì” erano i prati più vicini alle case.

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