Nella ricorrenza del 240° anniversario della nascita di Alessandro Manzoni, avvenuta a Milano il 7 marzo 1785, pubblichiamo una serie di articoli come introduzione ed analisi del suo capolavoro I promessi sposi. Sono il frutto della rielaborazione del corso su questo romanzo, tenuto dalla professoressa Patrizia Truffa presso l’Università della Terza Età di Giaveno e Alta Valsangone nell’anno accademico 2023-2024.
Nella pagina di questo sito dedicata ad Alessandro Manzoni sono riportate in formato PDF le diapositive che hanno fatto da base alla trattazione della professoressa Truffa. Si trovano accanto ad approfondimenti biografici sull’autore ed i suoi familiari e a un quadro complessivo delle sue opere.
Il cattolicesimo secondo Manzoni
•Manzoni ritiene che la Chiesa non debba essere in contrasto con la modernità, ma porsi a capo delle esigenze di cambiamento anche sociale in nome della profondità della visione del Vangelo.
•Solo la Chiesa è in grado di portare gli uomini alla giustizia, non per mezzo di rivoluzioni cruente, ma attraverso un cambiamento profondo dell’animo umano.
•Il cattolicesimo di Manzoni non si occupa tanto dei dogmi, ma è calato nella Storia; è un cattolicesimo operante nei vari campi dell’umano: i principi evangelici devono essere messi in pratica nella realtà della vita.
•Nei personaggi dei Promessi Sposi la religiosità assume svariate forme: si incontrano figure che incarnano il potere religioso negativo della Chiesa, come la Monaca di Monza e Don Abbondio e altre il potere religioso positivo, come Padre Cristoforo e il Cardinale Federigo.
La chiesa cattolica nel Seicento
•La visione della Chiesa del XVII secolo di Manzoni non è solo parte della sua ideologia, ma è storicamente fondata. Nel 1600 la Chiesa cattolica sta vivendo un periodo di radicali innovazioni dopo la Riforma protestante del 1500.
•In seguito al Concilio di Trento (1545-1563) la Controriforma si sta faticosamente facendo strada sia attraverso la restaurazione (non sempre positiva: si pensi all’Indice dei libri proibiti o all’eccesso di formalismo) di valori tradizionali in opposizione a quelli affermati dalla Riforma protestante, sia attraverso un rinnovamento dottrinale (il Catechismo tridentino è del 1566 e ad esso collaborò Carlo Borromeo).

•Il rinnovamento è anche organizzativo: dalla crescita di nuovi ordini religiosi volti all’apostolato tra i più umili (teatini, cappuccini, filippini, camillini) o alla formazione dei giovani (somaschi, barnabiti e gesuiti: quest’ultimi curarono in particolare la risposta cattolica alle chiese protestanti), fino alla creazione dei seminari per il clero secolare al fine di migliorare la preparazione morale e teologica dei nuovi sacerdoti.
•Si cerca anche di costruire le premesse per un più profondo contatto tra vescovi e preti e il popolo di Dio (visite pastorali, obbligo di residenza nella diocesi e nelle parrocchie), imponendo anche il divieto per il clero di accumulare benefici.
Il personaggio di Padre Cristoforo
•Nel capitolo 4, dopo la descrizione di un paesaggio naturale e umano con i primi segni di quella carestia che determinerà importanti sviluppi nella storia, e mentre Padre Cristoforo lo attraversa per recarsi a casa di Lucia, Manzoni ce lo presenta con queste parole:
«Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? – Bisogna soddisfare a tutte queste domande».
•«Il padre Cristoforo da ***» è il primo personaggio storico del romanzo: Manzoni forse si ispira al padre Cristoforo Picenardi da Cremona, distintosi per carità e dedizione durante la peste milanese del 1630.
•Questo è quello che sappiamo con certezza del personaggio storico, ma nel romanzo la figura di fra Cristoforo si muove con personalità autonoma e indipendente dalla fonte storica.
•Il fascino del personaggio nel romanzo deriva dalla tensione tra la sua indole forte, irruente, e il richiamo della fede all’umiltà e al perdono.
•Questa opposizione è la caratteristica principale del personaggio, costantemente ribadita nel capitolo 4 quasi tutto a lui dedicato: nello sguardo («due occhi come cavalli bizzarri»), nei costumi e nei caratteri giovanili, negli atteggiamenti sociali prima e dopo la vocazione, nei suoi sentimenti.


•All’inizio del romanzo Padre Cristoforo ha circa sessant’anni ed è un frate dell’ordine dei francescani cappuccini che vive nel convento di Pescarenico, un paese a pochi chilometri da quello di Renzo e Lucia.
•Invece nel capitolo 4 viene raccontata la sua vita di trent’anni prima, agli inizi del 1600: il suo nome alla nascita era Lodovico ed era figlio di un agiato mercante. Trascorse una giovinezza dissoluta fino al giorno in cui uccise un nobile nel corso di un duello.
•L’orrore per il delitto commesso e la volontà di espiare il suo peccato lo indussero a cambiare radicalmente vita e a prendere i voti religiosi.
•Da quel momento visse in assoluta povertà, mettendosi al servizio di deboli e perseguitati e piegando il suo temperamento impulsivo alla volontà di Dio.
•La biografia così sintetizzata non sarebbe un buon esempio di realismo, sarebbe troppo agiografica! Invece il narratore è attento a segnalare fin dalle prime manifestazioni della personalità di Lodovico «un non so che d’altero e d’inquieto», «un misto d’inclinazione e di rancore», cioè un’inquietudine che potrà trasformarsi in cambiamento.
•Il narratore osserva inoltre che Lodovico «sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi», prendendo volentieri le parti di un debole sopraffatto, anche se doveva anche lui «adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare».
•Anche durante il duello «Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo» e uccise il suo avversario solo quando questi passò a fil di spada il vecchio e affezionato servitore Cristoforo.
Capitolo 4° – Fra Cristoforo, il ritratto e l’antefatto
Il padre Cristoforo [da ***] era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.

Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore. […] Il padre di Lodovico […] fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto. Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico.
S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggi[a]to, dopo una trista riuscita, o inquietato per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.[…]

[…] Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.[…] Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo. Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. “Permettetemi, padre,” disse, “che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo.” […]

Ancora alcune riflessioni su Fra Cristoforo
La vocazione religiosa di Lodovico è risposta ad un’esigenza spirituale, non frutto del timore della vendetta o una svolta impulsiva sull’onda della folla che lo invita a scappare.
Il rimorso per la violenza che ha compiuto accelera una scelta che è radicata nel suo modo di essere. Lo stesso nome di Cristoforo, quello del vecchio servo, gli ricorderà per sempre il suo delitto, anche se il rimpianto per il delitto sarà addolcito dal perdono di Dio e dalle sue decisioni generose e radicali (donare tutto il suo patrimonio e mettersi a servizio degli umili).
Il racconto su Padre Cristoforo sottolinea la violenza dei rapporti sociali nella società del Seicento: essa si manifesta nello scontro fisico (il duello e l’assassinio); nella prepotenza e arroganza sociale (i privilegi e le esclusioni di classe patite da Lodovico; la riunione della famiglia nobiliare per soddisfare il proprio orgoglio); negli atteggiamenti verbali (il diverbio tra Lodovico e il suo nemico; la faticosa diplomazia nel dialogo tra il padre guardiano e il fratello dell’ucciso).
Al di sopra della violenza agisce però la forza della fede che riesce a indicare l’unica strada buona e giusta per risolvere i contrasti umani e lo scandalo della violenza subita e imposta. Così accade al ricevimento del fratello dell’ucciso, dove la sola figura di padre Cristoforo è sufficiente a trasformare un’occasione mondana in un momento di umana, collettiva consolazione.
Lo stesso «pane del perdono» che Cristoforo chiede al fratello dell’ucciso non è un simbolo per annullare la mortificazione per il male compiuto, ma è il compagno di vita che porterà sempre con sé fino a lasciarlo in eredità a Renzo e Lucia: ricorderà loro la violenza di cui era frutto, ma anche il bene di cui è stato seme.
Il personaggio di Don Abbondio
È l’anziano parroco del paese di Renzo e Lucia e ha un ruolo fondamentale nella storia perché la sua decisione di non celebrare le nozze determina gli eventi successivi.
Con la sua viltà, «non era nato con un cuor di leone», svolge il ruolo di aiutante di don Rodrigo, finendo di assecondarne i disegni criminosi: è la figura dell’uomo gretto e angusto che non sa opporsi al male per paura delle conseguenze.
Manzoni lo giudica negativamente, ma senza scegliere toni drammatici: spesso sottolinea gli spunti di comicità nel suo comportamento anche per far riflettere il lettore su quanto di simile a don Abbondio ci sia in ogni uomo.
Inoltre un uomo «non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno» non può certo contare sulla legge e sulla giustizia in una società corrotta nei suoi aspetti morali e istituzionali come quella seicentesca. E questo vale non solo per Abbondio…
È il primo personaggio che si incontra nel capitolo 1 e dalla sua biografia si viene a sapere che ha scelto il sacerdozio per amore del quieto vivere e per mettersi al riparo, lui del tutto privo di coraggio, di un ceto che ritiene riverito e potente («vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»).
Nel corso del romanzo non muta atteggiamento, dimostrandosi sempre remissivo nei confronti dei potenti e altezzoso verso chi è debole o meno istruito (si veda l’uso del latinorum nel capitolo 2 per disorientare il povero Renzo e imporgli le norme del diritto canonico riformulate a suo uso e consumo. È il primo esempio nel romanzo di uso immorale e violento della cultura).


Don Abbondio nel romanzo
•Dopo il capitolo 2 compare nel capitolo 8, confermando i tratti del suo carattere, ma offrendo, di fronte al tentativo di matrimonio a sorpresa, un’immagine di sé più mobile e reattiva, soprattutto perché finalizzata a tutelare i suoi egoistici interessi.
•Riappare nei capitoli 23 e 24 quando assiste (controvoglia e dopo aver raggiunto il castello su una mula di fianco all’innominato a cavallo: non si sa di chi avesse più paura!) alla liberazione di Lucia.
•Ha un lungo colloquio con il cardinal Federigo nei capitoli 25 e 26 in cui, attraverso indimenticabili soliloqui, contrappone ai più alti valori spirituali della fede una visione meschina e negativa della vita, fatta solo di diffidenza e rabbia per tutti coloro che ritiene colpevoli di aver turbato la sua tranquillità e il suo desiderio di «essere lasciato vivere», siano essi don Rodrigo o Renzo e Lucia o il cardinale stesso!
•Nei capitoli 29 e 30 si rifugia nel castello dell’innominato per sfuggire ai Lanzichenecchi, continuando a mostrare la sua abituale diffidenza, ma aiutato dal bisbetico buonsenso di Perpetua e dal furbo senso pratico di Agnese.
•Nel capitolo 33 accoglie Renzo al paese, facendogli l’elenco dei vivi e dei morti, senza dimostrare pietà o maggiore umanità.
•Solo la certezza della morte di don Rodrigo lo convince a celebrare le nozze di Renzo e Lucia (capitoli 37 e 38).

Capitolo ottavo: la notte degli imbrogli
È un capitolo-chiave dell’opera: si chiude la prima parte del romanzo, quella ambientata nel paese, e si creano i presupposti per le future trame del racconto. Di qui in avanti cambieranno i luoghi e i due protagonisti saranno separati.
Caratteristica fondamentale della narrazione è la costruzione ad incastro delle diverse situazioni: tre scene corali in cui i protagonisti conoscono solo la loro parte.
1.Il tentativo di matrimonio a sorpresa compiuto da Renzo e Lucia con Tonio e Gervaso per testimoni. Agnese ha il ruolo di distrarre dalla custodia della canonica Perpetua attraverso coinvolgenti pettegolezzi.
2.Il tentato rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo (il tema della casa violata)
3.Il fallimenti del matrimonio a sorpresa: gli strilli di don Abbondio, le campane suonate dal sagrestano Ambrogio, il paese in subbuglio, i bravi in fuga, Renzo, Lucia e Agnese in fuga anch’essi verso Pescarenico.
4.I fuggitivi lasciano il paese in barca sul lago: l’Addio monti.
In tutto il capitolo prevalgono le sensazioni uditive (silenzio, voci, grida, campane, nuovo silenzio…) messe in luce dalla tecnica del raddoppiamento (piano piano, zitto zitto, pian pianissimo).
Qui viene descritta la figura di Don Abbondio: la sua pigrizia senile, il monotono ripetersi delle sue abitudini, il suo geloso sistema di vita.
Anche gli oggetti che lo circondano (la vecchia seggiola, la vecchia zimarra, la vecchia papalina) sono logorati dal tempo e sottolineano parallelo avvizzimento del volto (faccia bruna e rugosa, sopraccigli, baffi, capelli bianchi) . Anche i suoi gesti denunciano la taccagneria del parroco: da cauto e sospettoso (esame dei soldi, restituzione della collana, ricevuta) diventa poi capace di movimenti precipitosi e furibondi (agilità e aggressività della paura); la sua voce inizialmente stizzosa e lamentosa, diviene poi alta, incontrollata, per chiudersi in uno “sgangherato” grido d’aiuto. Sembra un balletto comico, una farsa, ma la riflessione finale ci dice altro…

Carneade! Chi era costui? — ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata [ambasciata]. — Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? — Tanto il pover’uomo era lontano da preveder che burrasca gli si addensasse sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. […] In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio. […] “Deo gratias,” disse Tonio, a voce chiara. “Tonio, eh? Entrate,” rispose la voce di dentro. […]
Don Abbondio stava, come abbiam detto, su una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor dalla papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna. “Ah! ah!” fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo. “Dirà il signor curato, che son venuto tardi,” disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. “Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?” “Ah! e mi dispiace.”
“L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perché vi siete condotto dietro quel… quel figliuolo?”
“Così per compagnia, signor curato.”
“Basta, vediamo.”
“Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo,” disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.
“Vediamo,” replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.
“Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla. ”
“È giusto,” rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: “va bene?”
“Ora,” disse Tonio, “si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.”
“Anche questa!” disse don Abbondio: “le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?”
“Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito… dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così… dalla vita alla morte…”
“Bene bene,” interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna.
[…] Don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: – ora, sarete contento? – e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: “signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie.”
Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia.
La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: “e questo…” che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: “Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!” Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, del tutto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: “Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!” Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: “apra, apra; non faccia schiamazzo.” Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: “andiamo, andiamo, per l’amor di Dio.” Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento. In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
Il personaggio del Cardinal Federigo

Il Cardinal Federigo Borromeo accoglie il pentimento dell’Innominato.
Il Cardinal Federigo Borromeo nella storia (1564-1631)
•Autentico personaggio storico, che Manzoni ricostruisce attingendo ai documenti dell’epoca, Federigo appartiene a una nobile famiglia lombarda e prende i voti religiosi ispirato dalla vita del cugino, san Carlo Borromeo.
•Nominato cardinale e arcivescovo di Milano, rifiuta i privilegi del suo rango e si serve del proprio patrimonio personale per soccorrere le persone in difficoltà.
•Fra i tratti della sua personalità spicca l’amore per la cultura, testimoniato dalla fondazione della biblioteca ambrosiana a cui affianca un collegio, una pinacoteca e una scuola di disegno (oltre che dal fatto che nel romanzo approfitta di ogni momento per leggere un libro!).

•Dotato di eccezionali qualità morali e spirituali, si mostra sempre affabile, umile e modesto (lottando inizialmente con la sua indole) e, nel romanzo, è il solo esponente dell’alto clero a comportarsi secondo i principi cristiani e a non piegarsi al potere politico.
•È l’emblema della Chiesa della Riforma cattolica: non la chiesa corrotta (Gertrude) e paurosa (don Abbondio) contro cui aveva lottato Lutero, ma neppure la Chiesa controriformistica, distaccata, ascetica e dogmatica.
•È l’esempio di una Chiesa coraggiosa e militante, al servizio degli umili, capace di usare potere e prestigio per attuare il Vangelo: un ideale nobilissimo della missione del sacerdote!
Il Cardinal Federigo nei Promessi sposi
•Compare nel capitolo 22 con un lungo flash-back, di andamento saggistico, condotto sulle fonti, per raccontarne la vita: è l’agiografia di un uomo di fede, nobile, buono e dotto.
•Entra effettivamente in scena nel capitolo successivo (c.23) nel quale ha un lungo colloquio con l’innominato che si conclude con la confessione e l’assoluzione dello stesso. Subito dopo Federigo organizza la liberazione di Lucia chiedendo a don Abbondio e alla moglie del sarto di andare a prenderla al castello.
•Successivamente visita Lucia e Agnese a casa del sarto, dove scopre il ruolo che il parroco ha avuto nella vicenda (capitolo 24) e, una volta giunto nel suo paese per la visita pastorale, lo convoca per chiedergli conto delle sue azioni (capitoli 25 e 26).
•Per quanto Federigo parli in modo sempre diretto, forte e incisivo ottiene effetti diversi: nel colloquio con l’innominato (che dura pochi minuti) il dialogo è chiaro e senza incomprensioni, tra due personaggi di pari statura morale; quello con don Abbondio (che sfrutta il «vuoto» tra due capitoli per dilatare la durata) vede il curato chiuso nelle sue paure, che interpreta i rimproveri come una persecuzione e non un invito al cambiamento, quindi attesta una sostanziale incomunicabilità tra lui e il cardinale.
•Al termine del colloquio non c’è conversione in don Abbondio, solo ripensamento: «si mostrava abbastanza commosso». Sia pure in modo faticoso, limitato e forse momentaneo qualcosa ha raggiunto il curato…


Capitolo 25 – Don Abbondio a colloquio con il cardinal Federigo
Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, “signor curato,” cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso lungo e serio: “signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?”
― Hanno votato il sacco stamattina coloro, ― pensò don Abbondio; e rispose borbottando: “monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.”
“Domando,” riprese il cardinale, “se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.”
“Veramente… se vossignoria illustrissima sapesse… che intimazioni… che comandi terribili ho avuti di non parlare…” E restò lì senza concludere, in un cert’atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
“Ma!” disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: “è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.”
“Monsignore,” disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, “non ho già voluto dire… Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare… Però, però, dico… so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perchè vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto… Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.”
“Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.”
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
“E non avete avuto altro motivo?” domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
“Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,” rispose questo: “sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio.”
“E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?”
“Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita…”
“E quando vi siete presentato alla Chiesa,” disse, con accento ancor più grave, Federigo, “per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?”
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: “monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla.”
“E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.”
— Anche questi santi son curiosi, — pensava intanto don Abbondio: — in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote. — E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma.
“Torno a dire, monsignore,” rispose dunque, “che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare.”
“E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?” E tacque in atto di chi aspetta.
Il personaggio di Gertrude, la monaca di Monza
•La storia di Gertrude è la versione romanzesca delle vicende di Marianna de Leyva, appartenente a nobile famiglia di origine spagnola, che fu costretta dal padre a farsi monaca, con il nome di Virginia nel 1591, con gravi conseguenze che la porteranno in tribunale per scandalosi delitti.
•Manzoni adatta il personaggio reale alla sua vicenda inventata e approfondisce la sua personalità con gli strumenti della letteratura: il fascino ambiguo e misterioso della monaca è subito evidente nella descrizione dei suoi tratti fisici e psicologici nel capitolo 9.
•È tra i personaggi più complessi del romanzo perché, pur essendo «vittima» delle circostanze, in molte occasioni si trasforma in «carnefice».
•È una figura moralmente ambigua, perché nel suo animo la vanità e la prepotenza convivono con la sofferenza interiore e i sensi di colpa, che ne fanno un personaggio indeciso e insicuro; nei rapporti con gli altri oscilla tra il desiderio di essere accettata e quello di imporre la propria volontà.
•Anche nei confronti di Lucia da «aiutante» si trasforma in una subdola «antagonista», consegnandola nelle mani dell’innominato.
•Nella biografia numerosi personaggi secondari partecipano attivamente al dramma di Gertrude, ma i protagonisti sono Gertrude, il padre e il loro rapporto.


•Manzoni rappresenta in modo diretto e preciso le vessazioni psicologiche cui Gertrude è sottoposta, condannandole esplicitamente. E non perdona certo il padre che segue solo la religione dell’orgoglio e del privilegio.
•Ma non è nemmeno indulgente nei confronti di Gertrude perché la considera priva di forza interiore, incapace di opporsi alla malvagità e, soprattutto, di accettare con animo cristiano il progetto che la Provvidenza sembra avere su di lei.
•La biografia di Gertrude è anche la testimonianza storica del fenomeno tanto drammatico quanto diffuso della monacazione forzata che ancora perdurava nel 1800 e di cui ci sono ampie testimonianze in varie opere letterarie più o meno riuscite.
•Nel capitolo 9 vengono descritte l’infanzia e l’adolescenza di Gertrude come lento avvicinarsi al suo destino; nel capitolo 10 si narrano l’avvio alla monacazione forzata e la tormentata e peccaminosa vita in convento.
• Secondo Manzoni la consuetudine della monacazione forzata, ingiusta e crudele, è specchio dell’egoismo e della violenza anche privata dei potenti. Inoltre attesta una concezione meschina e corrotta dei privilegi sociali. Pertanto questa è un’altra occasione in cui Manzoni rinnova la sua aspra critica alla civiltà seicentesca.
La descrizione dell’aspetto fisico di Gertrude
La prima presentazione della Monaca di Monza avviene attraverso le parole del barrocciaio:
“La signora,” rispose quello, “è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione; e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare. ”
Nel Fermo e Lucia Manzoni era prodigo di particolari su Geltrude, cui dedicava ben sei capitoli; nei Promessi sposi dedica a Gertrude due capitoli e propone un ritratto fisico che è già rivelatore di uno stato d’animo.
La descrizione è particolarmente attenta alla mobilità espressiva degli occhi (neri neri, con sopraccigli neri) e delle labbra (pallide, ma che spiccano sul volto bianchissimo); al portamento e al modo di indossare l’abito che non si addicono del tutto a quelli che dovrebbero caratterizzare una monaca.
Nel tratteggiare il ritratto di Gertrude, Manzoni ricorre all’utilizzo di due colori contrapposti: il bianco e il nero (bianca la benda e il viso, neri il velo, i capelli, il saio e ancor di più gli occhi e le sopracciglia): anche il contrasto cromatico fa comprendere lo stato interiore turbato, lacerato da conflitti profondi, da esigenze opposte, dalla lotta tra bene e male, da una personalità contraddittoria.
Dal punto di vista espressivo la descrizione è giocata su antitesi e parallelismi che rimandano continuamente alle caratteristiche psicologiche e morali del personaggio.
Capitolo 9: La descrizione dell’aspetto fisico di Gertrude
«Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.»

La biografia di Gertrude nel capitolo IX
PRIMA DELLA NASCITA
Viene presentata come l’ultima figlia del principe, già destinata, come tutti gli altri fratelli e sorelle, alla monacazione forzata dal padre, che applica la legge del maggiorasco per riservare titoli e beni al solo primogenito. Per Gertrude verrà scelto il convento di Monza perché la famiglia ha molto prestigio e potere proprio su quella città.
ALLA NASCITA
Il nome di Gertrude viene scelto per richiamare una santa di nobile famiglia; i primi giochi sono bamboline vestite da monaca e santini; tutti i paragoni su di lei vengono fatti con la floridezza di una badessa.
A SEI ANNI
Gertrude entra in convento per essere educata, dove riceve privilegi e distinzioni: viene chiamata “la signorina”, ha posti privilegiati, chicche e carezze, familiarità rispettosa da chi la serve e chi dovrebbe educarla. Molte monache agiscono per acquisire al convento un personaggio che avrebbe dato prestigio e garantito protezione, altre fingono di non vedere, altre non vedono, altre ancora la compatiscono, ma non agiscono.

ADOLESCENZA
E’ l’età critica che emerge soprattutto nei rapporti con le compagne: alcune di queste sono destinate al matrimonio e fanno balenare a Gertrude l’ideale di una vita diversa fatta di divertimento e vanità, un tratto del suo carattere che non tarda ad emergere.
Gertrude si auto convince che dipenderà da lei scegliere e che nulla si potrà fare senza il suo consenso, anche se sa bene che il padre tutto ha già deciso. Per ora Gertrude aspetta e si rifugia nel sogno e nell’immaginazione, sempre più sola e isolata.
PRIMI PASSI VERSO LA MONACAZIONE
Prima dell’esame per essere accolta in monastero Gertrude deve passare un mese fuori dal monastero stesso: non vede l’ora di tornare a casa perché si aspetta di vivere quella mondanità che tanto l’attirava. In realtà le cose precipitano: su consiglio di un’amica scrive una lettera al padre per comunicargli la sua volontà di uscire dal convento. Pertanto a casa trova emarginazione e isolamento, più segregazione che in convento. In tale contesto si invaghisce di un paggio (ragazzotto per il narratore; ragazzaccio per il padre) e gli invia un biglietto. Scoperta e denunciata da una cameriera è costretta alla segregazione in camera sua fino alla resa: dopo quattro o cinque giorni di prigionia, non resistendo più alla solitudine, volendo essere trattata diversamente da parenti e servitori, rabbiosa e umiliata, scrive una lettera “piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza” con la richiesta di perdono al proprio padre.

La biografia di Gertrude nel capitolo X
PASSI FATALI VERSO IL CHIOSTRO
Il padre ottiene con cinica abilità il consenso di Gertrude ad entrare in convento e diffonde subito la notizia in famiglia per renderla irreversibile. Il padre alterna minacce e lusinghe; le zie e la nutrice solleticano la vanità di Gertrude. Tutti sono entusiasti e si affrettano i preparativi per la cerimonia. Gertrude si reca con il padre dalla badessa per fare la richiesta ufficiale di entrare in convento. La badessa festeggia tale decisione per il prestigio e i vantaggi che la famiglia di Gertrude può portare al convento.
Gertrude si rende conto di aver fatto passi forse irreparabili verso una scelta detestata, ma non osa ribellarsi. Sente che il cerchio le si stringe intorno (non ne fa parola – e così non coglie l’ultima possibilità di salvezza – con il vicario, il sacerdote incaricato di esaminarla sulla sincerità della vocazione perché ricorda le velate minacce nelle parole del padre che le preannuncia la visita) e anche le feste e la mondanità la disgustano. Chiede quindi di anticipare l’entrata in convento: “e fu monaca per sempre”.


INQUIETUDINI E INSOFFERENZE DEI PRIMI ANNI DI CONVENTO
I primi anni di clausura sono per Gertrude un inferno: invece di rassegnarsi e affidarsi al conforto della fede, si tormenta in continuazione con i rimpianti: è astiosa con monache ed educande; non accetta di rinunciare alla propria bellezza; invidia le sue coetanee fuori dal convento. Sfoga la propria insofferenza tra capricci e accessi d’ira.
L’INCONTRO CON EGIDIO «scellerato di professione»
La tresca con Egidio (secondo la storia Giovanni Paolo Osio) sembra darle nuova vita, ma in realtà accentua il disadattamento con il disordine dei sensi e l’abbandono a pulsioni incomposte. La relazione clandestina e colpevole la porta ad alternare comportamenti quieti e sereni con momenti tempestosi e persino volgari. Un giorno maltratta a tal punto una conversa che questa la minaccia di rivelare tutto ciò che sa. Dopo alcuni giorni la donna scompare. Il narratore lascia intendere che non si tratta di una fuga ma di un assassinio e il lettore conserva pochi dubbi sugli autori del delitto.

Nel Fermo e Lucia vi è un ampia descrizione del rapporto tra Gertrude ed Egidio e del delitto; nei Promessi sposi Manzoni si serve della figura retorica della reticenza per tacere del loro rapporto: “la sventurata rispose”.
“Tre parole interrotte e sospese da un fine di proposizione e periodo, da un violento a capo. Questo punto e a capo apre come un vuoto, quasi un abisso angoscioso, un silenzio di indicibile orrore” (Getto).
Anche dopo il delitto Manzoni allude soltanto ai sensi di colpa di Gertrude sottolineando in anafora “quante volte” ripensava alla donna.
UN ANNO DOPO
Il capitolo si chiude con il ritorno al presente, al quotidiano: Manzoni riprende le fila e sintetizza il colloquio tra Gertrude e Lucia, con domande sulla persecuzione di don Rodrigo e su Renzo che creano in Lucia non poco imbarazzo. Lucia si confida con Agnese, che la rassicura dicendo che i potenti sono tutti un po’ matti. Questa volta la saggezza popolare è inadeguata e provoca un effetto comico.

Gertrude nei capitoli successivi
Gertrude ricompare nel capitolo 18 dove si occupa di Lucia con una sollecitudine sempre più affettuosa e intima, mista però a una morbosa curiosità che disorienta e inquieta la stessa Lucia.
Nel capitolo 20 Gertrude tradisce Lucia inducendola a uscire dal convento per una commissione con un pretesto e con ricatti affettivi cui l’ingenua e dolce Lucia non può resistere: verrà così rapita dai bravi dell’innominato. Si osservi come Gertrude continua a oscillare tra ciò che decide e ciò che non vorrebbe decidere, tra il compiere ciò che sa essere male e la possibilità del bene: anche in quest’occasione non saprà scegliere la cosa migliore!

Nel capitolo 37 il narratore ci informa che i delitti di Gertrude sono stati scoperti e che ella sta trascorrendo la vita nell’espiazione dei suoi peccati.
Confronto tra GERTRUDE e FEDERIGO BORROMEO
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•È nobile. | •È nobile e colto. |
•È arrogante e insicura. | •È umile e coraggioso. |
•È incostante, invidiosa e spesso altera nei rapporti con gli altri. | •È affabile, cortese, disponibile a un facile rapporto con i semplici. |
•Non sa decidersi ed è sempre in contraddizione anche con se stessa. | •È deciso e diretto: sa sempre quali sono i suoi obiettivi. |
•Si serve del potere per procurarsi privilegi e piaceri. | •Si serve del potere come strumento di servizio ai più deboli. |
•È curiosa e pettegola. | •È curioso del mondo, ma discreto. |
•Prova emozioni improvvise, mostrando una sensualità senza controllo. | •Filtra le sue emozioni e i suoi sentimenti attraverso la fede e la ragione. |
•È sola e non sa vivere in solitudine. | •Riempie i momenti di solitudine con i suoi amati libri. |
La sua vocazione è frutto di violenza e imposizione. | •La sua vocazione è frutto della chiamata di Dio e della sua libera accettazione. |