Immacolata: quando a Selvaggio si strofinava “l’anciùa”

In un articolo del 1984 Ennio Baronetto descrive su Luna nuova la festa patronale di Selvaggio, la borgata divisa tra Coazze e Giaveno, ma appartenente in gran parte alla Parrocchia di Coazze. Una chiesetta vi sorgeva dal 1600, dedicata in origine, secondo la relazione del parroco coazzese Don Michele Peretti, ai santi apostoli Filippo e Giacomo e poi, dopo la proclamazione del dogma dell’Immacolata  nel 1854 e le apparizioni di Lourdes, alla Madonna Immacolata. La chiesetta era malandata e monsignor Carlo Bovero riuscì a inizio Novecento a raccogliere i fondi e a coinvolgere la popolazione per la costruzione di una nuova chiesa, ben presto meta di pellegrinaggi e successivamente ingrandita fino alla forma attuale con i campanili gemelli alti 52 metri, che svettano inconfondibili nel cielo della Val Sangone.

Ennio racconta di una festa che non c’è più nei suoi aspetti popolari. La distribuzione del “pane della Carità”, la convivialità, la processione da Coazze sono un ricordo, come l’acciuga, che se mai c’è stata, non pende più dal soffitto in attesa di una strisciata di polenta, ma al limite si scioglie nella “bagna cauda”, un piatto costoso e ricercato.

Articolo di Ennio Baronetto, tratto dall’allora quindicinale Luna Nuova dell’8 dicembre 1984:

SELVAGGIO – Ogni anno l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, ricorre la festa patronale di Selvaggio, un tempo conosciuta in Valle, come “Fehta di fuss” o “Fehta dl’anciùa”. Non so ben quale sia l’origine della prima definizione, ma conosco, per averla sentita raccontare dai vecchi del paese, l’origine della seconda. Quando nelle borgate di montagna, esisteva un campanilismo che si manifestava in ogni momento della vita quotidiana e nei rapporti tra gli abitanti delle borgate vicine, dando origine a proverbi, leggende e detti popolari, gli abitanti di Selvaggio meglio conosciuti nei dintorni come “li bourdagnët” erano considerati molto parsimoniosi e persino un po’ taccagni. Si diceva che era uso in tale ricorrenza, appendere al soffitto della cucina, un’acciuga e che i commensali durante il pranzo, le sbattevano contro, abbondanti fette di polenta, che acquistavano a questo contatto piuttosto violento un po’ di gusto, senza consumare l’acciuga che poteva essere utilizzata in altre occasioni. Sicuramente non c’è mai stato nulla di vero in ciò, se non le condizioni di estrema miseria che in tempi non molto lontani caratterizzavano le nostre zone e che la fantasia e l’ironia di qualche bontempone hanno cercato di sdrammatizzare ricamandoci sopra questi detti, tramandati poi di padre in figlio. Molti anni sono passati da quando presumibilmente accadevano queste cose. Il campanilismo degli abitanti delle borgate è un lontano ricordo degli anziani ed è completamente sconosciuto tra i giovani. Quel po’ di  benessere che ha modificato gli usi ed i costumi della nostra gente e spazzato via molte tradizioni, ha relegato per alcuni anni nel ricordo dei vecchi, le manifestazioni della “fehta dl’anciùa”. È merito del circolo selvaggese “La Tcharità”, l’aver riproposto le tradizioni di questa festa semplice. Chi trascorre a Selvaggio l’8 di dicembre, può incontrare per le strade, un gruppo di giovani accompagnato da un drappello di musicanti, intento a distribuire per le case, il pane detto “della Tcharità”, benedetto durante la Messa nel Santuario del paese. Alla guida dell’allegra brigata vi è un portatore di un “garbìń” sul quale è fissato un trespolo a più ripiani con sopra delle grosse ciambelle di pane. In cima al trespolo troneggia la scultura lignea di un gallo, ornata da nastri colorati. Un tempo il gallo veniva confezionato con pasta di pane, ma le difficoltà che i fornai incontravano nel modellarlo in modo che presentasse bene e che non andasse in frantumi al minimo urto, hanno suggerito l’attuale soluzione. Anche il “garbìń” costituisce una variante alla tradizione, introdotto negli anni recenti. In passato i ripiani ed il gallo, poggiavano su uno sgabello che veniva portato sul capo e mantenuto in equilibrio afferrando con le mani, le due gambe che costituivano l’estremità inferiore dello sgabello. La fatica ed il mal di capo a cui era soggetto il portatore e la sua poca disponibilità a far festa alla fine del giro del paese, hanno suggerito la più comoda soluzione attuale. Al pomeriggio ed alla sera un tempo si ballava sul ballo a palchetto o nel salone del ristorante del paese e ciò costituiva un momento di incontro tra i numerosi abitanti che dalle borgate dell’alta scendevano numerosi per partecipare alla festa. Oggi non è più possibile organizzare il ballo a causa degli alti costi da sostenere. Per fare un po’ di festa e ritrovarsi con la gente, nel pomeriggio vengono offerte le caldarroste, le paste di meliga ed un buon bicchiere di vino a tutti gli intervenuti. Arrivederci a tutti dunque. Arrivederci alla “Fehta dl’anciùa”.

LUNA NUOVA n.23 dell’8 12 1984, rubrica “Ciose bisòciose”, articolo di Ennio Baronetto

Selvaggio come il Cervino

Selvaggio – Chi ha italianizzato i toponimi per le carte militari ha spesso fatto disastri, non è il caso delle borgate d’oltre Ollasio. Selvaggio deriva dal latino “silva” = selva, bosco e si addiceva all’antico aspetto del luogo, che doveva essere boscoso e incolto. Il termine in patuà “Sërvàgiu” risente del rotacismo, la tendenza a virare la elle in erre, proprio di molti dialetti. Ad esempio per la località valdostana “La Servàz” e per una cima famosissima, il Cervino. Che non ha nulla a che vedere con i cervi, ma nasce da un equivoco: il latino “mons” si usava per “colle”. L’antico nome del colle del Gran San Bernardo è Mons Poeninus e faceva il pendant a un altro colle che univa il Vallese alla Valle d’Aosta, il Mons Silvius o Mons Servinus, attualmente colle Teodulo. Servinus è diventato Cervino ed è ormai attribuito alla montagna omonima, che non è certo coperta di selve. È più che probabile che il mons latino ne abbia qualche responsabilità.

Il Cervino incappucciato, 30 gennaio 2010
Festa patronale dell’Immacolata 1993, davanti al Santuario del Selvaggio il gruppo che si prepara alla distribuzione del pane della Carità.

Commenti e ricordi

Davide Musacchi – 08/12/1993 eravamo davanti al bar della Livia in piazza a Selvaggio e come da tradizione si passava in tutto il paese a distribuire il pane benedetto con la banda, in alcune case preparavano anche la colazione ed il vin brulé.

Stefano Tizzani – Ubaldo primo a sinistra e Katia vestita di chiaro.

Piero Guglielmino –  I musicanti erano la squadra “d’ Begne” (Beniamino Oliva): Graziano, Ruggero, Umby, Silvana, Luca, io e mio fratello e forse Felice “Cice” Davi e Sandro Rege.

Luca Giorda – Gran bei ricordi di quando si festeggiava ancora l’8 dicembre tutti assieme e il pomeriggio la castagnata che faceva mio zio Dario Stoisa.

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.