Cesare Pavese e il paese che non c’è

Qualche considerazione in margine a  La luna e i falò    e a   Cesare Pavese

Ultimo romanzo, scritto pochi mesi prima del suicidio, La luna e i falò è il testamento di un fallimento, il compendio della ricerca di Pavese, che dopo averlo completato si sente come “un fucile sparato” (Davide Lajolo).

Scheda segnaletica di Cesare Pavese, arrestato e mandato al confino nel 1935

Anguilla, trovatello affidato a una famiglia contadina della collina di Gaminella, presso Santo Stefano Belbo, e poi garzone del sor Matteo alla ricca fattoria della “Mora”, in America fa fortuna e torna a cercare il paese dell’infanzia.

Nuto (nella realtà Pinolo Scaglione), falegname, ex partigiano, contadino e comunista, tradizionalista e consapevole della modernità, solitario e socievole suonatore di clarino nelle feste di paese, gli fa da guida e mediatore.

Pinolo Scaglione, il Nuto della “luna e i falò”, falegname e suonatore di clarino

Anguilla cerca un mito, il paese fissato nel ricordo, ma non può trovarlo ed esplodono le contrapposizioni che lo confermano sradicato e inadeguato.

La prima contraddizione: “dove sono nato non lo so” dice in apertura Anguilla, di cui non sapremo mai il vero nome, perché era un trovatello e quindi non cerca il paese natio, ma un paese, perché “un paese ci vuole”.

La seconda contraddizione: Anguilla “vuole” un paese direbbe Schopenhauer, ma è il paese del mito, la memoria l’ha trasfigurato e guida la ricerca, ma muovendosi nella realtà dei luoghi, mai così meticolosamente “nominati” e identificabili in Pavese, non può che constatare che il tempo ha cambiato le cose, che il paese-mito non esiste. Pavese identifica il mito con un luogo unico “A un luogo fra tutti, si dà un significato assoluto … Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascendono sul resto del mondo con questo suggello mitico.” (“Del mito, del simbolo e altro”). Il romanzo racconta il pellegrinaggio dell’esule al suo “santuario”, racconta il fallimento di chi lo cerca con pignoleria e lo trova distrutto. Il mito in Pavese non è vaga favola, ma ricerca concreta di significanti, come il “fanciullino” pascoliano denomina per appropriarsi, così fa Pavese, ma non trova il “nido” protettivo delle cose conosciute. Più cerca razionale, meticoloso e ossessivo, più scopre nei significanti significati rovesciati.

La guerra soprattutto ha cambiato tutto, ha rovesciato tutto: i falò invece di “risvegliare la terra” bruciano la miseria e la disperazione del Valino e della famiglia che ha sterminato, bruciano il corpo dell’angelica Santina, che si è rivelata ambigua collaborazionista ed è stata uccisa e bruciata; “la Mora”, fattoria ricca e popolosa, è in rovina e la famiglia dispersa,  la grassa terra di Langa rigetta cadaveri e con loro tensioni, accuse, rivendicazioni che la guerra civile appena conclusa ha acceso e che si insinuano nel tentativo di tornare alla normalità della vita, non coperte dal suono del clarino di Nuto e dei musicanti che accompagnano le feste dei paesi circostanti. Ecco la terza contraddizione: La guerra, che ha rivoltato il mondo, ha sostituito alla dittatura fascista la democrazia, ma ha confermato l’inadeguatezza di Pavese, costretto a convivere con il rimorso mai superato per la mancata partecipazione attiva alla Resistenza e per la richiesta di grazia dal confino. Pavese non legge il positivo democratico della guerra, e il negativo più che nei morti e nella violenza lo trova nella guerra che ha distrutto il paese del ricordo e gli presenta un paese reale dove tutto è uguale e tutto è diverso. La guerra ha portato via a Pavese l’autostima, ad Anguilla il paese-mito.

Ma la ricerca della “Luna e i falò” sembra distruggere con quello di Anguilla il paese tipologico di tanta letteratura. L’ambiguità del paese rifugio, “paese Eden” di Manzoni e Verga, ad esempio, è coglibile. Lucia lo saluta teneramente come luogo di affetti e sicurezze, eppure lì ha subito le pesanti attenzioni di Don Rodrigo, il sopruso collegato di Don Abbondio, il tentativo di rapimento. Ma l’alternativa, il mondo infido della Monaca di Monza, dell’Innominato o, per Renzo, la Milano carnevalesca e rovesciata dalla carestia, è il male e quindi la sensazione che resta nel lettore rimane quella del Paradiso perduto e della discesa agli inferi.

Verga, proponendo l’ideale dell’ostrica, costruisce il mito del paese fuori dalla storia, immutabile nella ciclicità delle stagioni, che protegge anche l’ultimo sul piano sociale, se rispetta le regole (Rocco Spatu), ed espelle inesorabile solo chi, come ‘Ntoni o Lia, le ha violate. È la sua risposta alla violenza della storia e della lotta per la vita, una risposta inadeguata alla fiumana del progresso e superata nelle opere successive, ma che nei Malavoglia costruisce la solita dicotomia del paese rifugio contrapposto alla “Storia” cattiva. Ma il paese rifugio è un paese di fratelli coltelli a ben guardare (es. discorsi dei paesani durante la visita del consòlo per la morte in mare di Bastianazzo).

Anche al nido pascoliano Pavese non crede più, forse con voluta ironia si chiama “Il nido” la palazzina dell’avida marchesa, che taglieggia il Valino fino alla tragedia e poi muove gli avvocati per cercare di farsi rimborsare il danno provocato dall’incendio da Cinto, povero bimbo sciancato sopravvissuto casualmente al dramma. Dramma che non trova pietà in paese, né nel parroco che nega l’ufficio religioso, né nelle malelingue. Il nido protettivo pascoliano, la rete di solidarietà paesana verghiana, l’Eden manzoniano sono smascherati da Pavese. Il paese, in opposizione dicotomica con la città e il mondo, non è rifugio, non c’è. Devi imparare il mestiere di vivere. Tra le colline “mammelle” di Gaminella e del Salto, divise dal solco del Belbo, Anguilla e Pavese cercano la dea madre, l’origine di tutti i miti, e non la trovano, l’alternativa è lo stradone di Canelli, in fondo vi è la città, il mare, il mondo. Ma alla fine del mondo c’è il ritorno e il ciclo si chiude nel fallimento.  

Se Anguilla è l’inetto di tanti romanzi del Novecento, dov’è l’antagonista sano, a cui ci ha abituato Svevo? Nuto senza dubbio. Non è un falso sano come i vari Macario, Balli, Guido, Augusta dei romanzi sveviani, è piuttosto uno che, direbbe Pirandello, ha capito il “giuoco delle parti”.  Nuto è il mediatore tra la tradizione contadina della luna e il messaggio rivoluzionario del sol dell’avvenire, guida Anguilla negli inferi di una ricerca fallimentare, cerca di fargli capire che l’unica via è il compromesso, anche con se stessi. Adattarsi alla realtà, rinunciare al mito. Nuto, saggio e abile artigiano trascorre il romanzo nel tentativo di insegnare al suo interlocutore il “mestiere di vivere”, ma Pavese non lo impara, e non trovando il coraggio di vivere finisce per trovare quello di morire.

Monumento funebre a Cesare Pavese nel cimitero di Santo Stefano Belbo
Sulla collina della Gaminella, 12 maggio 2011

Cesare Pavese – biografia

9 settembre 1908 – 27 agosto 1950

Casa natale di Cesare Pavese a Santo Stefano Belbo

Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paese delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva una proprietà. La famiglia si trasferisce a Torino, ma le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno, come in Pascoli, con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà negativamente sull’indole del ragazzo, sempre più scontroso ed introverso. Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo evidenzia due elementi fondamentali: la morte del padre e la tendenza al «vizio assurdo» , la vocazione suicida, che affiora nelle lettere del periodo liceale dirette all’amico Mario Sturani. Un terzo elemento potrebbe essere il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile, ma rintracciabile in alcune pagine de Il Mestiere di vivere. L’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo, la voglia di affermarsi e il sentirsi inadatto alla vita lacerano l’adolescenza di Pavese e lo spingono a cercare nella letteratura la soluzione ai conflitti interiori.

Studia nell’Istituto «Sociale» dei Gesuiti e nel «Ginnasio moderno» quindi passa al Liceo «D’Azeglio», dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti. Dapprima Pavese è assai riluttante ad impegnarsi attivamente nella lotta politica, è però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila. Trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle osterie tra gli operai e la gente qualunque. Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista La cultura, insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea, un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce dalla sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte. Nello stesso anno viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis . Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio ad un periodo nuovo nella narrativa italiana.

Pavese e Monti nella foto di Classe del Liceo “D’Azeglio”

Nel 1933 Pavese partecipa con entusiasmo alla nascita della casa editrice Einaudi, per l’amicizia che lo lega a Giulio:  sono gli anni migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna, che ha sposato un altro. La vicenda ispirerà il suo primo romanzo, Il carcere, ma lo getta in una crisi profonda. Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi: sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene respinto perché malato di asma. Si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire a essere attivo e presente, motivi ispiratori de La casa in collina. Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista forse per illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. Il suo impegno è sempre e solo letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò. Recatosi a Roma per lavoro conosce una giovane attrice: Constance Dowling. S’innamora. Ma lei sceglie la carriera e torna in America, Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…

Costance Dowling, l’attrice di cui si innamorò Pavese

A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo capolavoro) non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido si toglie la vita in una camera dell’albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Scrive sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi Cesare Pavese.» Aveva 42 anni.

L’albergo “Roma”, in Piazza Carlo Felice a Torino, in una stanza del 3° piano Pavese si suicidò il 27 agosto 1950.

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.