Il lavoro stagionale – inverno: far legna nei boschi, spalare la neve

Cap. 7° /4 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Il lavoro quotidiano in casa e nella stalla non sempre era considerato lavoro.

Il lavoro vero, che fa sudare e affatica, era quello dei campi, dei boschi e delle fabbriche. Nei campi e nei boschi variava secondo le stagioni.

4) INVERNO

In inverno la terra riposa. La linfa scorre sotto le cortecce degli alberi e si concentra nelle radici sottoterra, mentre tutti i vegetali sembrano neri, secchi, morti.

La gente della montagna però non va in letargo.

Come raccontato nel capitolo sul lavoro quotidiano, uomini e donne erano occupati in lavori di falegnameria, di riparazione. Recuperavano le parti ancora buone delle lenzuola logore, filavano, tessevano, lavoravano a maglia, rattoppavano. Tutto questo oltre i normali lavori quotidiani e l’approvvigionamento dell’acqua per le persone e gli animali. D’inverno viene buio presto e allora il lavoro si svolgeva alla luce delle lanterne e dei lumi, senza interruzione.

Non mancavano i lavori pesanti. Tra questi il taglio degli alberi nel bosco, per le necessità domestiche o per guadagnare qualche soldo. Alcuni andavano a giornata sotto un padrone.

Quando nevicava fitto fitto i boschi erano avvolti nel gran silenzio. Perfino i corvi smettevano di gracchiare.

Appena spuntava il sole a tingere di rosa la neve, i boschi risuonavano di colpi di accetta, di richiami, dello stridio delle seghe, di suggerimenti gridati, di esclamazioni. Allora non c’erano le motoseghe. Se il tronco da abbattere era piccolo si usava la scure, se era grosso come il castagno o il faggio, due boscaioli afferravano uno “strumpùr”, una lunga sega che aveva un manico ad ogni estremità, e segavano, segavano, finché l’albero crollava. Ben attenti a prevedere la direzione della caduta per evitare di essere schiacciati.

L’albero, quando veniva attaccato dalla sega, o colpito alla base dalla scure, cominciava a tremare come avesse i brividi della febbre, poi sussultava. Il tronco però resisteva. Ancora un poco, poi cominciava ad oscillare ed infine veniva giù di schianto con un fracasso che faceva fuggire gli animaletti del bosco.

I boscaioli esultavano, Ce l’avevano fatta. La parte più pericolosa del lavoro era terminata. Avevano ragione, ma vedere il gigante a terra in tutta la sua lunghezza, dava una malinconia infinita. Quell’albero aveva affrontato per decenni le bufere di vento e di neve, i fulmini, la siccità che gli faceva allungare le radici sottoterra alla ricerca dell’acqua. Aveva resistito a tutto. In quel grosso albero si rivedeva il giovinetto, alto un metro, che sfoggiava i suoi primi germogli e si apriva un varco verso la luce e il giovane alto e sottile che stormiva al vento e godeva la carezza del sole!

Ora stava lì per terra. Solo qualche rametto si agitava ancora alla brezza.

Mario Moschietto prepara la fascina
Sequenza fotografica di Bartolomeo Vanzetti
La fascina si lega con la ritorta (la feisinë is lìiat cuŋ la iòrta) .

I boscaioli, seduti sul tronco, riprendevano fiato, si dissetavano, calcolavano quanto potevano ricavare per dar da mangiare ai figli. Dopo un po’ con la sega piccola, la scure e la roncola (“fusët”) sfrondavano i rami, li ammucchiavano e li legavano in fascine, indispensabili per accendere il fuoco, una volta seccate. Nello stesso tempo i più giovani e forti, ripresa la sega grande, facevano a pezzi il tronco secondo le misure richieste dal padrone o dal negoziante di legna.

Mario Moschietto con un carico di legna appena tagliata e trasportata con un sistema ingegnoso.

Fin dalla Rivoluzione Francese il metro stero, era l’unità di misura di volume usata per la legna da ardere, senza doverla pesare. Il simbolo “st” (dal francese stère, derivato dal greco antico στερεός «solido» ) è un’unità di misura corrispondente a un 1 m3 di pezzi di legna lunghi un metro, ben accatastati parallelamente gli uni agli altri. Il peso corrispondente va stimato in base al tipo di legna. Un metodo tradizionale e radicato, ma la misura in Italia non è più legale dal 1981.

Ammucchiati alla bell’e meglio i pezzi, passavano al taglio di un altro albero e così di seguito.

Più tardi, tagliato il bosco, sradicati i ceppi (le “spè”, “le sёppe”), caricavano i pezzi sulla slitta, dividevano la legna “bella” da quella da ardere, poi, passata una corda sulla spalla, si avventuravano sui viottoli in discesa, tirando e frenando per non essere travolti dal carico. Ancora più difficile spingere in salita i tronchi interi fino alla strada a portata di carro (“a purtà ‘d cartúŋ”), disincagliandoli dalle gole dei valloncelli stretti e profondi. Faticacce.

Oggi le motoseghe hanno velocizzato il lavoro, che resta sempre pericoloso.
Accatastare legna è un’arte, specie se si deve trasportare sobbalzando su strade sterrate. Foto Edmondo De Amici.

La bisnonna ha un ricordo preciso della condanna a morte del bellissimo pino (forse un abete) che faceva ombra alla sua casa e alla sua aia. Era altissimo e si vedeva da lontano. La decisione era maturata, un poco alla volta, perché era diventato pericoloso durante i temporali, ma l’esecuzione della sentenza veniva sempre rinviata. Poi dopo la guerra, più di sessant’anni fa, la mattina di Santo Stefano (l’indomani di Natale), con l’aiuto di parenti e amici, si procedette. La bisnonna non volle vedere niente. Se ne andò in paese e non tornò fino a che il pino non fu ridotto a una catasta. Tornando, già da lontano, notò il vuoto che stava al posto della grande freccia verde che spiccava sulla neve e sul bosco. Ma il vuoto più grande lo trovò a casa. Tutto sembrava nudo, piccolo e povero.

Svegliarsi con la neve alle borgate alte era meraviglioso, sembrava di vivere dentro una fiaba: i boschi, le case, il mondo circostante erano trasfigurati. I guai però cominciavano subito. Si era completamente isolati. Perfino il suono delle campane giù in paese si sentiva appena. E allora c’era un altro lavoro per i montanari: aprire con la pala, sui viottoli, una piccola striscia calpestabile, sempre in gara con la neve che la riempiva; e questo per chilometri…

Borgata Tonda sotto la neve, foto di Bartolomeo Vanzetti
Baite del Ciargiùr du Forn sotto una nevicata davvero abbondante. Foto di Luigi Darbesio.

Se nelle borgate qualcuno stava male era fortunato se trovava un medico alpinista, nella maggior parte dei casi non restava che raccomandarsi a Dio.

Si spalava anche di notte per gli operai e le operaie delle fabbriche del fondovalle, che facevano i turni dalle sei del mattino alle due del pomeriggio, dalle due alle ventidue. In quei tempi nelle fabbriche si pagavano solo le ore effettivamente lavorate e, se si facevano troppe assenze, si veniva licenziati.

E allora per “non perdere giornata” si spalava, si spalava per chilometri.

A fatica si creano passaggi tra muri di neve (Foto di Maria Carla Rosa Brusin).
Spalatrici all’opera.

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.