Il lavoro stagionale – estate: fienagione e mietitura

Cap. 7° /2 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Il lavoro quotidiano in casa e nella stalla non sempre era considerato lavoro.

Il lavoro vero, che fa sudare e affatica, era quello dei campi, dei boschi e delle fabbriche. Nei campi variava secondo le stagioni.

2) ESTATE

Taiè lu fèŋch

Era la stagione delle grandi fatiche. Al lavoro quotidiano si aggiungevano la fienagione, la mietitura, la trebbiatura e mille altri lavori, spesso sotto la minaccia dei temporali. La gente si affannava dalle quattro del mattino fino alle dieci di sera.

La fienagione – I falciatori “seitùr” comparivano nei prati alle prime luci dell’alba con le falci dal lungo manico (“dài”), che la sera precedente avevano battuto e ribattuto sul filo della lama per renderlo più tagliente. Si cominciava a falciare così presto perché l’erba, asciugata la rugiada, diventa più dura, difficile da tagliare.

Verso le sette arrivavano i rinforzi: le donne e i ragazzi che nel frattempo avevano munto le mucche. Essi venivano a portare la colazione agli uomini che falciavano e a spargere l’erba delle andane (“andàgn”), colonne parallele che le falci avevano lasciato nel prato. Era il momento delle forche e dei tridenti. Sotto il sole estivo l’erba appassiva e nel pomeriggio i fienatori tornavano con le “véie”, rastrelli dai denti radi come hanno le vecchiette; rivoltavano il fieno per farlo seccare da tutte le parti, poi al tramonto lo ammucchiavano in piccoli cumuli, “li maceirùń”, per preservarlo dall’umidità. Se il tempo volgeva al brutto, i mucchi erano grossi grossi. Che divertimento per i bambini saltare i mucchi e magari finire nel fieno morbido e profumato. Se gli adulti vedevano, quante sgridate!

L’indomani mattina si tornava a spargere (“aspancè”) il fieno e al pomeriggio a dargli ancora una girata. Ma intanto bisognava falciare, spargere, rigirare l’erba tagliata quel mattino. E i lavori si sovrapponevano.

Al pomeriggio le maggiori attenzioni erano per il fieno tagliato il giorno prima, ormai secco. Si ammucchiava in lunghe colonne, le “chialìre”. Si srotolavano sul terreno i “trapùń” (aste di legno con i buchi per far passare delle corde). Su di esse si mettevano le bracciate di fieno, poi si stringevano le corde con la troclea (“naviì”) e si otteneva un grosso fagotto. Il portatore scavava al centro un buco per infilare il capo, poi, con o senza aiuto, sollevava il fagotto sulla testa e lo portava a casa, magari da prati assai lontani.

Alla fine lo aspettava ancora una fatica: salire la scala a pioli del fienile con il carico sulla testa, disfarlo e spargere il fieno. Portato via il fieno, i ragazzi e gli anziani rastrellavano con cura il prato, perché neppure una filo andasse perduto.

Adesso arrivano i trattori: tagliano, spargono, raccolgono, imballano e tutto finisce in gloria!

p 75 -Si diffonde l’automobile, i trattori cominciano ad alleviare la fatica contadina, ma sui prati impervi e i sentieri disagevoli i lavori e i trasporti restano manuali.
Una falce tagliente rendeva più rapido ed efficace il taglio dell’erba: “martlè lu dài” (martellare la falce) era un’operazione preliminare, ma “lu seitùr” (il falciatore) aveva sempre con sé, nella custodia agganciata alla cintura sulla schiena, la “cu” (la cote) per affilare di tanto in tanto la lama. Foto dell’Archivio Etnografico di Frazione Cervelli (Coazze)
p 75 -Tagliare l’erba era un’arte e una fatica.
p 75 – Si torna nei prati con gli attrezzi della fienagione: “purtùr, rasté, fòrci e dài”. Siamo nel 1941 a borgata Barone (Cervelli) Foto fornita da Rosina Lussiana, tratta da “Coazze … come eravamo“.
p 75 – Trasporto del fieno a spalle con il “purtùr”. Se tagliare l’erba era un compito maschile, a portare il fieno nel “tèc” erano spesso le donne. Peso e volume rendevano il trasporto molto impegnativo. Qui Erminia, la cugina di Bruno Tessa, che ha fornito la foto (del 1970 alla Mattonera) pubblicata su “Coazze … come eravamo“.

Bàte lu grëŋ e la séla

 La mietitura – Aveva in comune con la fienagione il gran caldo, le punture dei mosconi e dei tafani, la rabbia per gli scosci improvvisi di pioggia, ma era ancora più faticosa: le “gèrbe” (covoni)  devono essere maneggiate con delicatezza se no perdono i preziosi chicchi e per questo non si possono appoggiare alla ‘riposa’. Inoltre la falce che si adoperava per tagliare gli steli del grano e della segale era molto ricurva e con il manico corto, per cui si doveva lavorare chinati. Questa falce si chiamava falce messoria o “mёsüri”.

A casa i covoni erano sistemati in locali inaccessibili alle galline che non vedevano l’ora di beccare i chicchi nelle spighe.

Raccolti i covoni, i campi erano pazientemente spigolati, non una spiga doveva restare in terra.

Poi veniva l’ora della battitura che portava sempre un gran trambusto in casa.

Si cominciava alla vigilia: si scopava ben bene l’aia, si toglievano tutti gli ingombri (legna, panche, recipienti) e si spargeva in modo uniforme la “bùʃa” diluita con acqua. Sì, proprio lo sterco delle mucche allo stato puro: senza fuscelli, pagliuzze, sassolini ed ogni altra impurità. Rovesciare grosse secchiate di quel semiliquido, senza lasciare neanche un centimetro di cortile scoperto e senza ammucchiarne troppo in certi punti, era un’operazione delicata.

Perché tutto questo? Per impedire al grano di venire a contatto con la terra e la eventuale sporcizia del cortile. Ma è mai possibile? E con le “bùʃe”? Sì, perché il sole di luglio faceva il miracolo: trasformava la “bùʃa” liquida in uno strato duro, chiaro, asciutto, assolutamente pulito. Era l’asfalto dei poveri…

Guai però se pioveva: la copertura si scioglieva a contatto dell’acqua e bisognava ricominciare la preparazione dell’aia. Allo stesso tempo bisognava tener lontani i cani, i gatti, le galline e i bambini: con le loro impronte avrebbero rovinato la copertura. Le galline si chiudevano nel pollaio, i cani e i gatti nella stalla, ma i bambini, con i loro veloci piedini, non si potevano legare! Quando il cortile era perfettamente asciutto, si calavano i covoni sull’aia, si slegavano e si cominciava a batterli con la “galàvia”. Una fila di donne e uomini partiva da un lato del cortile e avanzava tenendo in mano un bastone attaccato a una striscia di cuoio, per dare slancio a un altro bastone che colpiva le spighe a terra, facendone uscire i chicchi. Se la fila dei battitori procedeva allo stesso ritmo, si diceva che “battevano all’oca”, se invece procedevano ciascuno per conto suo ad un ritmo accelerato, battevano “a bataiët o a bataiùŋ”. Il perché di questi modi di dire la bisnonna non l’ha mai saputo.

p 77 – Battitura del grano a borgata Colombo. Foto fornita da Guido Lussiana, pubblicata in “Coazze … come eravamo“.
La famiglia Ostorero impegnata nella battitura del grano a Cervelli, nel cortile di borgata Pantera, dove alle feste della borgata, dopo la Messa, gli “Amici dei Cervelli” offrono ancora oggi il pane cotto nel vecchio forno. I teloni di plastica hanno sostituito ” l’èiri ambuʃulà”. Battendo a “bataiùŋ” le “galàvie” (correggiati) sono colte in posizione diversa e la foto, del Museo Etnografico di Cervelli, rende bene la sequenza dell’azione.
p 77 – Trebbiatura meccanica, 1948, Foto fornita da Rosanna Deirino

Nella pianura di Giaveno si trebbiava alle cascine con macchinari, prima a vapore, poi elettriche. Essi divoravano cumuli di covoni in poco tempo e il loro rombo si sentiva da lontano. Oggi a Giaveno, per la festa del pane, una di quelle macchine trebbia ancora per la gioia dei bambini e la nostalgia degli anziani, che rivivono un pezzo della loro gioventù.

p 77 – Dimostrazione di battitura del grano con le “galàvie” durante la Festa del pane a Giaveno. Sullo sfondo la trebbiatrice meccanica usata per molti anni ai “Singiàn” (Borgata San Giovanni di Trana).

Le borgate di montagna, senza strade, senza corrente elettrica non potevano essere raggiunte dai bestioni meccanici. I loro mucchietti di covoni non potevano paragonarsi a quelli delle cascine. I montanari si arrangiavano con le “galàvie” a braccia. Questo sistema aveva i suoi tempi e dava delle preoccupazioni per i cambiamenti atmosferici: il vento avrebbe portato via gli steli slegati sull’aia o addirittura le fatiche di un anno. E la fame si sarebbe affacciata dai boschi!

Poco prima della guerra alla borgata della bisnonna giunse una voce: esistevano delle piccole trebbiatrici a manovella. Il papà della bisnonna e il vicino di casa andarono a Pinerolo a scovarne una. Infine, rastrellati i soldi di due famiglie, la comprarono. In quelle settimane d’estate l’attesa della trebbiatrice era al colmo. E un bel giorno arrivò portata e scaricata dove finiva la strada. Accorsero dei giovanotti forti e volonterosi. La macchina era bella, rossa. Era tedesca, una Leitner, grossa come un furgoncino dei più piccoli. Ma tutta di metallo e quindi pesantissima.

I montanari non si persero di coraggio. Legarono saldamente due stanghe di legno alla trebbiatrice e, a spalla, un passo dopo l’altro, la portarono su, dandosi il cambio. Arrivò in cortile festeggiatissima. La bisnonna non ricorda bene, ma certamente arrivarono i bicchieri e più di un “litrót”. I bambini, intorno alla macchina, intralciavano gli adulti che dovevano montare le grosse manovelle ai lati. Ah, se i tedeschi avessero continuato a costruire trebbiatrici!

E venne il giorno della trebbiatura. I bambini non stavano più nella pelle!

Macchina per battere il grano, richiedeva un uomo per alimentare la tramoggia con le spighe e 2 o anche 4 uomini per girare le manovelle laterali.

Le manovelle laterali erano collegate al rotore, cilindro irto di denti d’acciaio, che stava nella pancia della macchina. Due persone per parte, puntando i piedi per terra, spingevano a tutta forza le manovelle e il rotore rombava sminuzzando le spighe. In quei giorni scattava la solidarietà contadina di parenti e amici, perché bisognava dare il cambio, sovente, alle persone che dovevano far girare il rotore. Sull’aia si formava una catena di lavoranti: mentre uno disfaceva i covoni, un altro “dava da mangiare” gli steli alla macchina, cioè li spingeva nell’imboccatura. Il rotore, girando, li trascinava dentro e sgranava le spighe. Bisognava fare attenzione alla quantità degli steli e al modo di porgerli, altrimenti il rotore ingolfato si fermava con un lungo vuuuff.

Allora si aspettava che la macchina fosse completamente ferma. Districare gli steli attorcigliati attorno al rullo non era facile. Se poi era segale che aveva gli steli molto più lunghi del grano, erano dolori! Se non c’erano intoppi, dal lato opposto all’imbocco la trebbiatrice sputava a getto continuo la paglia che i ragazzi tiravano indietro e i nonni legavano di nuovo in covoni. I chicchi di grano intanto venivano giù a cascata, finivano nei secchi, in attesa di un giorno di vento per venire separati dalla pula (“vòrva”). Come?

Con una pala concava di legno (la “galusì”) dal lungo manico, si gettava in aria il contenuto dei sacchi, un po’ alla volta. I chicchi pesanti ricadevano sul lenzuolo, la pula, la buccia secca dei chicchi, molto leggera, volava via.

Rispetto alla battitura con la “galàvia” la piccola Leitner faceva risparmiare moltissimo tempo e concentrava la fatica dei trebbiatori in pochi giorni, diminuendo i pericoli del tempo.

La bisnonna ricorda i giorni della trebbiatura come una festa. I bambini erano esaltati dal rombo del motore, dalla nebbia del pulviscolo, dal trambusto.

I più piccoli facevano la spola tra l’aia e la sorgente. L’acqua fresca era apprezzata da tutti ed essi, che si sentivano ringraziare, si consideravano già grandi: erano capaci di aiutare. Sorvegliavano anche i fiaschi di vino al fresco ma questi erano troppo preziosi e li maneggiavano gli adulti.

Intanto le nonne in cucina preparavano le pietanze della festa a conforto del morale e del fisico dei lavoranti.

Ma che fine ha fatto la gloriosa Leitner rossa?

Quando la famiglia della bisnonna e quella dei vicini smisero di fare i contadini e abbandonarono la borgata, la trebbiatrice intristì nella stalla e la ruggine se la divorò. Peccato!

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