Il lavoro stagionale – autunno: tempo di semina e di raccolto 

Cap. 7° /3 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Il lavoro quotidiano in casa e nella stalla non sempre era considerato lavoro.

Il lavoro vero, che fa sudare e affatica, era quello dei campi, dei boschi e delle fabbriche. Nei campi variava secondo le stagioni.

3) AUTUNNO

Sëmnè lu grëŋ e la séla – seminare il grano e la segale

Anche l’autunno era stagione di grandi lavori:

-la semina dei cereali (grano, segale, orzo) avveniva normalmente nei campi in cui si erano raccolte le patate, questa rotazione riduceva di molto la necessità di concimare. Anche i semi si spargevano a mano e, subito, si ricoprivano di terra perché gli uccellini spiavano dagli alberi sperando di farsi una scorpacciata di chicchi;

Cüì la früta e ël cëstagne – raccogliere la frutta e le castagne

-la raccolta della frutta (pere, mele, castagne), nelle annate buone contribuiva in misura notevole al bilancio della famiglia. Tra tutte era spettacolare quella delle castagne da ottobre in poi. Per “dvàte ‘l cistàgne” gli uomini si arrampicavano sui castagni, poi con una pertica, stando in equilibrio precario, percuotevano i rami per far cadere i ricci delle castagne. (Non potevano aspettare che cadessero da soli perché temevano le nevicate precoci). Il bosco risuonava di colpi.

A terra squadre di uomini, donne e bambini raccoglievano i ricci (“arìs”) nelle ceste dal manico di legno (“curbéle”) usando le molle di legno (“pёssiòire”); quando erano colme le portavano in un mucchio (“l’arisèi”) coperto di rami e di frasche.

Raccolta di ricci e foglie, foto tratta dal libro Polenta e castagne, di Marica Barbaro. Dietro la raccoglitrice la gerla per le foglie, in mano a lei “lu pich” con cui comincia a estrarre le castagne dai ricci.

I ricci così si sarebbero ammorbiditi con le piogge e la fermentazione e sarebbe stato più facile aprirli con un martelletto di legno (“lu pich”) nel tardo autunno. Dopo la raccolta dei ricci si passava ancora tra le erbe a cercare le castagne eventualmente nascoste (“armёnè”). Dopo che era passato il padrone, anche i poveri potevano raccogliere le castagne rimaste tra le erbacce (era l’equivalente della spigolatura in pianura). Occuparsi dei ricci, nonostante le nebbie, le piogge, i primi brividi di freddo, le dita intirizzite, era un lavoro tranquillo, rispetto alla fatica e ai rischi dell’abbacchiatura (non solo per le cadute dagli alberi, ma anche per il pericolo di un riccio negli occhi); tuttavia un inconveniente c’era: decine di spine nelle dita che rendevano doloroso il lavoro. Si cercava di toglierle con un ago disinfettato sul fuoco e con l’aiuto di una persona della famiglia. Non sempre l’operazione riusciva.

Intorno ai giorni dei Santi e dei morti, per le borgate si diffondeva il profumo delle caldarroste, le castagne “brüsatà”, che faceva dimenticare le spine dei ricci. Le castagne ingolosiscono anche bollite nella pentola, arrostite diventano irresistibili anche oggi. Allora erano frutti salvavita e anche dolciumi. A sera, nei cortili delle case, si vedevano le fiamme di tanti fuochi e intorno bambini gioiosi che saltavano, mentre un adulto teneva nelle mani un padellone bucherellato, dal lungo manico, sospeso sulla fiamma. Poi lo scuoteva facendo saltare le castagne per cuocerle da tutte le parti senza bruciacchiarle; così si anneriva e bruciava solo la buccia, mentre all’interno la polpa restava morbida e fragrante. Di solito erano i padri, i nonni, gli zii che facevano arrostire le castagne, ma anche le donne di casa ci sapevano fare. A mano a mano che le castagne cuocevano si mettevano in un secchio o in un catino, si coprivano con un panno umido per mantenerle calde, e intanto si mettevano altre castagne nel padellone, anche queste con un taglio nella buccia, per evitare che scoppiassero al calore del fuoco. Infine mangiarle belle e calde era una festa per grandi e piccoli. Se poi c’era un fiasco di vino…ma bastava anche l’acqua di sorgente. Alcuni uomini sulle “brüʃatà” ci mettevano la grappa, vietatissima ai bambini. A dire il vero la bisnonna non ha mai assaggiato questa specialità, neanche da adulta, perché temeva di rovinare il sapore delle castagne, già tanto buone senza niente.

Le castagne più grosse si vendevano ai commercianti, perché il loro prezzo era uguale a quello della farina per la polenta. Tante famiglie con la vendita delle castagne riuscivano a procurarsi la farina di meliga per tutto l’anno. Le castagne più piccole si facevano seccare sulla “chièia” (graticcio) o sui balconi e venivano utilizzate  per l’alimentazione umana e del bestiame.

E c’era un’altra singolare raccolta nel tardo autunno: la raccolta delle foglie secche cadute dagli alberi. I boschi erano tutto un frusciare raso terra e un intrecciarsi di discorsi tra le persone, armate di rastrelli e di scopini, fatti con rametti di betulla (“ramasòt”), che servivano a snidare le foglie dai cespugli e dalle erbacce per farne grosse lenzuolate o fagotti come quelli del fieno. Le foglie secche, specie quelle dei faggi, servivano a riempire i sacconi che facevano da materasso  e per la lettiera delle mucche. Erano preziose. Per questo motivo i contadini si affrettavano a raccoglierle prima della neve, che talvolta arrivava improvvisa già ai Santi, o del vento impetuoso che faceva pulizia nei boschi, scaraventando le foglie nei torrenti o sul terreno di altri proprietari.

E come fare senza foglie nella stalla? Come fare il “paiùŋ”?

Per fare in fretta, quando c’era la luna piena, i montanari andavano nei boschi anche dopocena, di notte, nonostante il freddo che irrigidiva le mani. I ragazzi allora si auguravano una bella nevicata per evitare di fare “gli straordinari” al chiaro di luna! Gli adulti invece erano soddisfatti quando riuscivano a raccogliere tante foglie e felci secche. Per i bambini l’autunno voleva dire la ripresa della scuola che cominciava il 1° ottobre con le giornate ancora tiepide di sole e con l’attrattiva della fiera di Giaveno. I bambini si sentivano imprigionati nella rete delle lezioni e dei compiti, degli orari e degli obblighi. Costretti molti di essi a lunghe camminate con il bello e il cattivo tempo. Come invidiavano i compagni che abitavano vicino alla scuola!

Gli scolari delle borgate alte si consolavano con i colori e le sfumature dei boschi e l’allegria di strascicare i piedi nel folto tappeto delle foglie cadute sul sentiero. Ma le foglie facevano anche pena, schiacciate senza pietà nel fango e sulle pietre. Era bello vederle staccarsi dai rami e volteggiare come una nube nel vento, ma dava malinconia pensare che non sarebbero mai più tornate sugli alberi, diventati tristi e scuri, spogli come scheletri.

Cüì d’bulài a l’é chéisi iŋ travài – raccogliere funghi è quasi un lavoro

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