I lavori e i cibi di ogni giorno – sera: la tela e la liscivia

Cap. 6° /4 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

4) SERA

Dopo tutto questo andirivieni si cenava. Era il momento della minestra che poteva essere di verdura o di latte con farina e un pugno di riso, se c’era. In autunno si mettevano in cantina sotto la sabbia i sedani, le carote per le minestre d’inverno che si riducevano ai cavoli, ai fagioli secchi e alle onnipresenti patate.

D’estate si cenava tardi. La luce del giorno si spegneva dolcemente mentre i borghigiani, seduti su una panca o su un tronco d’albero in cortile, con le scodelle sulle ginocchia o su una tavola di pietra mangiavano e si godevano il fresco. Finalmente seduti. Nelle borgate dove c’erano molti giovani si intonavano canzoni e gli anziani si aggiungevano al coro. Lo scrittore Luigi Pirandello rimase sorpreso e ammirato, quando venne in villeggiatura a Coazze nel lontano 1901, dai cori che alla sera si alzavano dalle borgate vicino al paese come Ruffinera o da quelle lontane come Pianiermo. Ma quando le stelle avevano riempito il cielo, la gente, stanca morta, crollava dal sonno sui letti, nel fienile, sulla paglia. L’alba e la sveglia erano già lì. D’inverno faceva buio alle quattro del pomeriggio e si cenava presto. Poi nella stalla si cominciava la “vijà”, uno dei momenti di relax dei montanari come vedremo in un altro capitolo.

La téla

Nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento a Coazze e nelle sue borgate si sentiva il battere ritmico delle spole. In ogni famiglia, per lo più nella stalla, c’era un telaio a mano. Era ingombrante, complicato, ma sotto le mani esperte delle tessitrici affascinava più della ruota del mulino. Da bambina la bisnonna ne ha visto qualcuno funzionare: in un fantastico incrocio di fili e di movimenti nascevano tele belle e robuste per lenzuola, biancheria, tovaglie, asciugamani bianchi o a quadretti grandi e piccoli, a righe, bianco su bianco o colorati su bianco, con finizioni eleganti e perfette. Era un lavoro apparentemente magico che in realtà richiedeva abilità tecniche, intelligenza logica e una buona dose di concentrazione. Le stesse doti e una manualità perfetta erano richieste agli artigiani che costruivano e riparavano le tante parti, piccole e grandi, del telaio che dovevano combaciare alla perfezione. Non tutti erano in grado di portare a termine un lavoro del genere. L’arte del ‘fare tela’ sarebbe andata perduta con il sorgere delle industrie tessili, se a Coazze il maestro Bruno Tessa non si fosse lanciato alla ricerca dei frammenti dei vecchi telai smontati, dispersi, e se non avesse intervistato ed ottenuto la collaborazione di tante persone anziane, prime tra tutte le sue zie.

Sembrava un’impresa impossibile, anzi disperata! La passione e la tenacia hanno invece compiuto il miracolo: all’Ecomuseo di Coazze si può vedere un telaio bello e funzionante. Sotto le mani del maestro rinascono le tele di una volta in tutta la loro bellezza. Tele di canapa, di cotone, di lino, ecologiche come quelle di un tempo. Il maestro Bruno non si è fermato: le ha fatte conoscere in Italia e all’estero e poi ha scritto un libro. Un’avventura tra ritrovamenti, storia e tecnica di un’arte che ha caratterizzato la Valsangone. Un ricordo importante delle fatiche e delle abilità dei nostri antenati.

Teresa mentre fila al filarello “ruët”
Bruno Tessa “Maéstru” al telaio “talèi”, mentre fa passare la navetta “nautë” tra i fili della trama e dell’ordito per incrociarli e tessere la tela. Ampi dettagli sui telai e la tecnica del “far téla” si trovano nel libro da lui scritto La tessitura a Coazze, della collana I ahcartari dell’Ecomuseo dell’Alta Val Sangone, Alzani Editore, Pinerolo, 2007.

Nelle famiglie si tesseva sia per le necessità famigliari (esempio il corredo delle ragazze), ma anche su ordinazione. Per tessere occorreva il filo. Per esempio in Valsangone si usava tanto la canapa. Il filo di canapa non cresce sulle piante come le ciliegie. Bisogna coltivare le piantine, farle crescere e quando sono abbastanza alte, tagliarle e farle macerare in una pozza d’acqua. Dopodiché gli steli vengono cardati con una spazzola di ferro (poveretti!) e filati a mano con il fuso e la rocca o con il filatoio a pedale, il ruèt o ruёt (come si fila la lana delle pecore). In ogni caso ci volevano abilità, tempo e pazienza per avere un filo uniforme senza nodi o sfilacciamenti che portano alla rottura. Durante la guerra non si trovava più la lana vera ed allora tutte le famiglie nelle borgate tenevano delle pecore e anche i bambini imparavano a filare e a lavorare a maglia, almeno le sciarpe e le calze. Le maglie e i maglioni erano riservati alle donne e alle ragazze grandi. Le tele della Valsangone avevano successo anche fuori della valle e così si cominciò a cercare altro filo, nella pianura verso Torino e nel pinerolese, ricche di coltivazioni di canapa. Molto prima che la bisnonna nascesse, suo nonno (che poi l’avrebbe accompagnata tante volte in montagna), come molti coazzesi, a piedi andava a prendere il filo a Reano, Villarbasse, Piossasco, Rivalta, Orbassano e in Valsusa (Vaie, Sant’Antonino, Bussoleno, Susa). In questi luoghi i coazzesi erano apprezzati e sapevano in quali cascine, in quali case c’erano delle ragazze che stavano per sposarsi e quindi bisognose del corredo. Il nonno raccontava che i contratti che egli faceva con i “casiné” erano di questo tipo:

-il padrone della cascina (o la padrona) cedeva a lui che chiamavano “tëssiùr” una quantità di filo di diverse qualità e richiedeva una quantità e qualità di tela calcolata in RAM e RAS ( 1 ram = m.7,20 –1ras = cm. 60) per una certa data. Il contratto si concludeva con una vigorosa stretta di mano;

-il “tëssiùr” aveva diritto al compenso per la lavorazione.

Come in tutti i contratti si discuteva, ma in genere, i rapporti tra i “casiné” e i cercatori di filo erano basati sulla fiducia e sull’amicizia e comprendevano anche l’ospitalità per la notte, la cena e un bicchiere di vino, sempre. I cercatori di filo, in genere, si muovevano sul finire dell’estate perché le tessitrici lavoravano a tempo pieno nel tardo autunno e nell’inverno, libere dai lavori dei campi. (A meno che nelle famiglie di allora ci fosse una persona che si dedicasse solo alla tela). Concluso il contratto, i “tëssiùr” risalivano, passo passo, la valle con le gerle cariche. A primavera con i pesanti rotoli ritornavano in pianura, sempre a piedi e incassavano un po’ di denaro che faceva comodo nella stagione senza raccolti. Intanto ritiravano altro filo, ricevevano ordinazioni di tele tessute con il filo del “tëssiùr”. E le donne si rimettevano al telaio… Le famiglie si organizzavano, ma i sacrifici erano molti.

Un altro lavoro quotidiano era il lavaggio dei panni dei bambini, i quadrati di tela, (“le pàte”) e le fasce (allora non c’erano i pannolini usa e getta) a cui si aggiungevano gli altri indumenti, asciugamani, maglie, ecc…

D’inverno era un dramma perché il “baciàs” (lavatoio) o le pozze del torrente erano ghiacciate. Bisognava rompere il ghiaccio e poi lavare a mani nude (i guanti non c’erano ancora). Le mamme avevano sempre le mani gonfie, arrossate, con le screpolature (“scravàse”) che facevano un male cane. Dopo aver lavato nell’acqua gelida, tornate a casa con il peso del “basìń”, le loro mani cominciavano a scaldarsi, formicolavano con un dolore intenso ben noto agli alpinisti e agli sciatori. E poi c’era il problema di far asciugare gli indumenti lavati. In caso di maltempo rimanevano appesi per giorni sui balconi e sulle cordicelle tirate in cucina. Alla domenica tutti si cambiavano la biancheria e il lunedì c’era un mucchio di roba da lavare. Per non tenere troppo a lungo le mani nell’acqua fredda, si mettevano a mollo i panni nella stalla, con una pentolata di acqua calda, separando i bianchi dai colorati, poi eroicamente si andava al “baciàs” che non sempre era vicino a casa. Ma d’estate le cose andavano meglio?

Come racconta Ennio Baronetto nel suo libro “Si, am suvìnat, üra am suvìnat” (Alzani Editore, 2001), sua mamma è stata tra le ultime a lavare in panni nel torrente Ollasio.
Ricordo quando mia madre e le altre donne di Sangonetto si recavano a lavare i panni in questo “baciàs” ora desolatamente solo.
La piazza del Freinetto “Freinài” in un’immagine d’altri tempi, un uomo con la gerla, una donna inginocchiata che lava nel “baciàs”, che oggi è stato completamente rifatto.

Certamente. Ma anche l’estate aveva i suoi inconvenienti quando prosciugava le sorgenti e bisognava andare per forza al rio a lavare. La bisnonna ricorda che un’estate, forse nel ’44, con una sorella più giovane era andata a sciacquare la roba nell’acqua spumeggiante del rio del Brando, affluente dell’Ollasio, in una valle stretta circondata dai boschi. Non si accorsero del temporale che stava arrivando. Finito di lavare, presero il “basìń” metallico ognuna per un manico e fecero una salitella in fretta perché sentivano tuonare. Arrivate sul terreno pianeggiante furono investite da raffiche di pioggia, mentre i fulmini le accecavano. Si misero a correre. Durante i temporali non bisogna correre e non bisogna tenere o portare oggetti metallici. Ad un tratto un tuono fortissimo e, nello stesso tempo, una luce abbagliante mista ad aria molto calda le investì. Mollarono il “basìń” e sotto il diluvio corsero verso casa. Dovettero rallentare, senza fiato, tra tuoni e lampi, ora meno forti. I genitori venivano loro incontro con gli ombrelli… Finito il temporale vollero tornare per riprendere la roba lavata e videro, proprio all’altezza del “basìń”, un albero a metà schiantato con la corteccia mancante su un lato, dalla cima alle radici. La bisnonna, che si vantava di non aver paura del temporale, non lo disse mai più.

La liscivia – “mënè la lisië

C’era poi un modo tutto speciale di lavare la biancheria ‘grossa’: lenzuola, copriletti, tovaglie, asciugamani, ecc… che, allora erano tutti di tela fatta in casa. Le famiglie erano numerose, perciò il mucchio era grande. Si aspettava un periodo di bello stabile e si procedeva al bucato con la cenere. Un lavoraccio che di tanto in tanto si doveva fare. Il giorno della ‘lësië’ o ‘lisië’ era un giorno di nervosismo e di rivoluzione in casa. Non veniva rispettato l’ordine dei lavori abituali; parenti o amiche, che venivano ad aiutare la padrona di casa, giravano nel cortile e in cucina tra ansie e risate. I bambini venivano sgridati più del solito: sempre tra i piedi col pericolo di scottarsi con l’acqua bollente! Si procedeva così: si prendeva un mastello grande, una specie di botte (“la sëbra”) che aveva in basso un buco chiuso da un tappo. Lo si collocava su una lastra circolare di pietra (“astùr”) con una canalina incisa lungo il bordo, per far scorrere l’acqua. Si metteva dentro la biancheria bagnata, la più sporca sotto. Sulla biancheria si metteva un lenzuolo contenente cenere setacciata, mescolata a scaglie di sapone e liscivia. La cenere derivante da legna di castagno non si doveva utilizzare perché contenente tannino, che macchiava la biancheria. Si metteva una griglia, o un “fiurèi” di tela grezza, per trattenere i pezzetti di carbone, sfuggiti alla cenere setacciata che si poneva dentro. Poi veniva la parte più difficile e pericolosa: trasportare dalla cucina e rovesciare i pentoloni d’acqua bollente sulla cenere. E ripetere questa operazione molte volte, a mano a mano che bolliva nuova acqua sul fuoco, tenuto acceso al massimo. L’acqua filtrava lentamente nei panni, trasportava le virtù detersive della cenere e diventava ranno (liscivia). Si iniziava con l’acqua fredda che già era uscita dal buco, veniva riscaldata e portata nel finale a ebollizione. Si diceva “nöu bot bianchët, nöu bot tëbiët, nöu bot büiët” (nove volte acqua fresca e limpida, nove volte tiepida e nove volte bollente). Alla fine si toglieva il tappo e si raccoglieva il ranno nel recipiente perché serviva ancora in futuro per mettere a mollo i panni da lavare. Attenti a non tenere le mani nel ranno, che è corrosivo! Dopo che i panni erano ben scolati, si tiravano fuori e si torcevano. Torcere le lenzuola di tela di casa è una fatica! Infine si sciacquava la tela nel “baciàs”.

Qualcuno intanto aveva legato delle corde da un albero all’altro nel prato e le donne arrivate con i recipienti traboccanti di biancheria pulita, si mettevano a stendere nel sole e nella brezza.

Si vedevano anche da lontano i festoni della biancheria stesa ad asciugare.

Era il gran pavese della montagna!

Alla sera era piacevole andare a letto con le lenzuola, lavate con la cenere e asciugate all’aria viva dei monti. Avevano un profumo che nessuna polverina chimica potrà mai dare! Ai tempi della bisnonna giovane, quando c’erano i tedeschi, un lenzuolo steso in un certo modo, era anche un segnale di pericolo. Voleva dire che essi stavano arrivando. Spesso si bagnava apposta per poterlo stendere. Sostituiva benissimo il telefono che mancava.

“L’astùr” di Michele Rege

Il racconto della “bisnonna” mi ha richiamato quello di Michele Rege, con la mamma Delfina che rievoca il procedimento della “lisië”, con qualche variante rispetto a Livia:

Mia madre mi racconta che un tempo, quando non si buttava niente, quando le scatole di sardine bucherellate con un chiodo diventavano grattuge per pulire le mucche, quando i bidoni delle acciughe diventavano secchielli, quando non esistevano le lavatrici, i detersivi, e gli ammorbidenti, per lavare e sbiancare a fondo la roba, si faceva la “lisië” e quella pietra, “l’astùr”, nei cortili delle borgate, se c’era, serviva a tutti. Dalla primavera all’autunno ogni due o tre mesi gli si metteva sopra una grande tinozza, ogni famiglia aveva la sua, solitamente di legno “la sëbra”. Biancheria varia, lenzuola, federe e coperte di “lis”,venivano insaponate e sistemate lì dentro.

Delfina accanto ad uno splendido esemplare di “astùr”, la pietra scanalata su cui si “passava” la liscivia. Foto tratta dal libro “Racconti e ricordi della Val Sangone

Sulla sommità, su una vecchia tela che serviva da filtro,  si setacciava uno strato di cenere. Quindi si aggiungeva la dose di acqua e “lisciva”, unico detersivo in commercio oltre il sapone. Poi si versava piano piano acqua fredda fino a riempire la tinozza e piano piano la si svuotava tramite un foro alla base. Il liquido che colava dal beccuccio dell’“astùr” veniva raccolto nei secchi e riversato sopra. Questa operazione doveva ripetersi diverse volte per ben 3 cicli. 6 volte con il liquido freddo, 7 volte con il liquido scaldato e 9 volte con il liquido bollente. Si poteva anche derogare a seconda dei capi da lavare, ma nella nostra zona la regola era: “sèis freidët, sèt tëbiët e növ büiët”. Finalmente si poteva estrarre il bucato che doveva essere ritorto, sciacquato nel lavatoio e steso. Il liquido rimasto, prima di essere buttato, serviva ancora per lavare roba colorata, pantaloni di velluto o frustagno e indumenti da lavoro. Logicamente rifacendo tutto il procedimento da capo. Anche i maschi aiutavano a fare la “lisië”. Si doveva  portare la roba bagnata a sciacquare e poi stenderla su delle corde pulite, tenute da parte solo per quel lavoro.  Le corde venivano tese anche nei prati tra una pianta e l’altra e sostenute con appositi paletti biforcuti detti “pòie”. Brava mamma Delfina se me l’hai contata giusta: “l’astùr”, per quel lavoro l’avevo dimenticato, ma il profumo delle lenzuola dopo la “lisië” mi sembra proprio di ricordarlo ancora!

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