I lavori e i cibi di ogni giorno – mezzogiorno, la polenta e l’acciuga

Cap. 6° /2 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

2) MEZZOGIORNO

Verso le undici del mattino, una donna, qualunque cosa stesse facendo, lasciava tutto e si precipitava in cucina. Accendeva di nuovo il fuoco con i legnetti delle fascine, metteva a bollire un paiolo d’acqua per fare la polenta o per cuocere le patate. Le castagne secche che richiedevano una cottura più lunga, le preparava la sera prima: a pranzo le versava nella conca, morbide, profumate, dolci.

Mentre l’acqua bolliva, preparava la tavola, lavava l’insalata, tirava fuori le tume o scaldava il latte. Le patate e le castagne cotte erano un’alternativa alla polenta, la regina del menù. Essa si cuoceva in un grande paiolo, posato sulla stufa o agganciato alla catena del caminetto. In questo caso, rimestando la farina gialla, gettata a pioggia nell’acqua bollente, il paiolo ruotava. Allora si appoggiava una pietra piatta contro di esso e la si teneva ferma con il piede. E così la cuoca, oltre alla sudata, subiva il disagio dell’equilibrio instabile e degli schizzi bollenti ravvicinati. Per cuocere la polenta occorreva il suo tempo! Per farla liscia senza grumi ci volevano almeno tre quarti d’ora di rimestamento. Era una bella fatica, dato che era il piatto base di una famiglia numerosa! Al tempo della bisnonna bambina, inoltre, si preparava la polenta densa che, una volta rovesciata fumante sul tagliere, si tagliava in fette consistenti, usando un filo. Niente a che vedere con le polentine morbide che oggi accompagnano salsicce e spezzatini! O con le farine precotte che diventano polenta a velocità ultrasonica!

Per tener fermo il paiolo (peiröl)  mentre si girava la polenta (as tüiràvat la pulènta) si appoggiava una pietra che si teneva ferma col piede. Foto tratta da C’era una volta a Viù di Donatella Cane, Elena Guglielmino, Marilena Brunero.
Un momento di riposo con accanto la Bas-ciòla, la sacca di juta in cui riporre l’erba tagliata con la “mësüri”. Foto di Bruno Gallardi.

Se a pranzo avanzava un po’ di polenta (e non succedeva spesso), si faceva abbrustolire e si mangiava a merenda o a cena, oppure… Accadeva spesso che uomini e donne, al mattino prestissimo, partissero dalle borgate alte per andare sui “brich” a raccogliere l’erba nei posti più scoscesi della montagna, dove neppure le bestie pascolavano.  Essi prendevano con sé la “bas-ciòla”, sacca di iuta per mettere l’erba, una piccola falce detta “mёsüri”; tra la canottiera e la camicia ficcavano una fetta di polenta, abbrustolita o no, e partivano per le lontane rocce che nascondevano tra i dirupi un filo d’acqua e qualche manciata d’erba. Quando il sole era alto (non avendo orologi, si regolavano con il sole e la fame), si sedevano sui sassi, tiravano fuori la fetta di polenta fredda e pranzavano. Dopo tornavano a raccogliere l’erba. Al tramonto scendevano in equilibrio precario lungo tracce e sentieri sassosi. Certo non erano preoccupati per il colesterolo! Mentre essi faticavano in solitudine lassù sui “brich”, al suono della campana di mezzogiorno, il resto della famiglia si metteva a tavola intorno alla polenta fumante (“mangiare la polenta” voleva dire pranzare; “andare a fare la polenta” andare a preparare il pranzo (“lu dinè”).

Va bene la polenta. E le pietanze?

Erano diverse, ma quasi mai più di una per pasto. Si alternavano le “tumè”, il latte (spesso scremato, “d’sfiurà”), grandi catini d’insalata (verde d’estate con un uovo sodo o pomodori, di patate o barbabietole rosse d’inverno), frittate, patate fritte. Qualche volta il merluzzo, cucinato con cipolle, latte e qualche fetta di pane o patate. Nella “bagna” le fette prendevano il sapore del merluzzo e diventavano merluzzo a tutti gli effetti. Il merluzzo e le acciughe sotto sale si potevano conservare a lungo nelle case, che non avevano mai visto un frigorifero, ed erano considerati il cibo dei poveri, mentre il mangiare dei ricchi erano le carni e i salumi. Nei giorni freddi e nevosi un piatto che portava allegria nelle cucine e nelle stalle era la “bàgna càuda”, semplicemente “la bàgni”. Essa faceva venire l’acquolina in bocca ai montanari con il suo odore che si sentiva a distanza. Anche questo era un piatto economico. Gli ingredienti, eccetto le acciughe, si trovavano in casa: aglio, panna o latte, verdura. Il segreto della buona riuscita era il dosaggio degli ingredienti, coccolati a fuoco lento nel “fuiòt” (tegame di terracotta) fino ad ottenere una crema vellutata senza bruciacchiature. Una volta cotta si doveva mangiare bollente, intingendo le verdure direttamente nel “fuiòt” al centro della tavola su un fornelletto pieno di brace.

I signori, invece, mettevano un mini “fuiòt” per ogni commensale su fornelletti in miniatura. I più frettolosi la mettevano direttamente nel piatto in piccole quantità, da rinnovare sovente, per averla sempre calda.

Se poi c’era un fiasco di vino, appannato al calore della cucina o della stalla, la festa era completa. Le scorpacciate di bagna erano memorabili! La bagna cauda era un piatto sociale: occasione di incontri tra parenti, amici, coscritti. Un antidoto contro il freddo, la nebbia, il malumore, la miseria.

Era dunque amatissima nella nostra valle. Soltanto qualcuno la detestava per via dell’aglio: una minoranza trascurabile. Quando era stagione, la polenta si accompagnava con i funghi impanati o in umido. Naturalmente quelli “belli” si vendevano, ma anche i “brutti” erano saporiti. Era un mangiare goloso, “galüp”. Con le “garìtule” gialle (i gallinacci o finferli) si facevano anche frittate, molto apprezzate all’inizio della stagione, ma poi mangiale oggi, mangiale domani e dopodomani, venivano a noia. Ma se quella era la pietanza del giorno, l’alternativa era la “pulènta tàla”, senza companatico. Un’altra pietanza che si accompagnava con tutto, erano le acciughe sotto sale, al verde con il prezzemolo tritato e l’aglio tagliato fine fine o al rosso con la conserva. Quante pagnotte con le acciughe nei campi o in gita per merende o colazioni!

“bàgni ciàuda” o “bagna cauda” in piemontese.
“anciùe au vërt”, acciughe al verde foto dal sito di Lorenzo Vinci

I valsangonesi non mangiavano carne?

La mangiavano in circostanze ben precise, che davano all’avvenimento il valore di un rito. A parte l’eventuale selvaggina o il pezzo di carne acquistato dal contadino quando gli moriva una bestia, la carne rappresentava la festa: la domenica e ancor più la festa patronale, di cui si parlerà più tardi.

Alla domenica il capo di casa andava in paese alla “Messa prima”, alle sei del mattino, poi in macelleria comprava un pezzo di carne con l’osso per il bollito della festa. Non che mancasse qualche alternativa: poche fettine di salame cotto, due o tre decimetri di salsiccia per trasformare un piatto di rape fritte in pietanza di classe. Ma il cibo tipico della domenica era il bollito, per varie ragioni: cuoceva da solo, bastava schiumarlo e mantenere acceso il fuoco. Niente, rispetto al lungo rimestare della polenta. Faceva risparmiare il tempo necessario a preparare la minestra di verdura. Carne e brodo cuocevano insieme. Ed inoltre, se per caso avanzava un pezzo di bollito, la pietanza per il lunedì era quasi pronta: tagliuzzato a dovere nel soffritto di cipolla, con l’aggiunta di patate tagliate a cubetti e di conserva di pomodoro, diventava una prelibatezza. Talvolta la vittima della domenica era una vecchia gallina che non riusciva più a fare le uova. Questa aveva in comune con la carne acquistata la durezza coriacea delle fibre, per cui andava messa sul fuoco alle otto del mattino. Tutti erano convinti che i bovini e le galline avanti negli anni facessero un buon brodo! Verso le undici nelle borgate e in paese cominciava a diffondersi il profumo del bollito che rinfrancava gli animi e gli stomaci abituati alla polenta.

Nei ricordi della bisnonna, i pasti prima e dopo la guerra fino agli anni Sessanta, erano austeri e nel tempo di guerra un’avventura, anche se la gente della montagna, in un modo o nell’altro mangiava. Ma nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento i pasti, raccontati dai nonni, erano il segno di una povertà estrema che non va dimenticata. In certe famiglie il pranzo consisteva nella polenta e un’acciuga. Non una a testa. Non da mangiare. No. Era una per tutta la famiglia, appesa a un filo e ciascuno strofinava ad essa la sua fetta di polenta per ricavarne un po’ di sapore.

Alla borgata Carbonero di Coazze abitava una donna con numerosi figli. Essa mandava ogni giorno una ragazzina a comperare una “tumë” per accompagnare la polenta e le dava 10 centesimi. Un giorno la venditrice, che aveva finito quelle da 10 centesimi, diede alla bambina una “tumë” da dodici centesimi, facendole credito. Ma non era poi tanto più grossa dell’altra. La bambina corse a casa tranquilla, ma la madre la sgridò: non doveva prendere la tuma da 12 centesimi, piuttosto doveva tornare a casa a mani vuote! Lei poteva spendere solo 10 centesimi e non poteva e non voleva fare debiti. Una volta cominciata la strada dei debiti non se ne viene più fuori!

I nonni della bisnonna, pensando alla povertà della loro giovinezza, dicevano ai nipoti si sentirsi “sgnur” (dei signori) perché mangiavano pane tutti i giorni, se pure a costo di grandi fatiche. Infatti le famiglie delle borgate ricavavano dai loro campetti grano e segale che, trasformati in farina, portavano al panettiere per cuocere il famoso pane “d cüsióira” pagando soltanto la cottura. Non bastava per tutto l’anno, ma era un bel risparmio per la famiglia. “Lu pëń d’ cüsióira” era profumato e aveva un sapore indimenticabile, anche se non era bianchissimo.

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