Nella ricorrenza del 240° anniversario della nascita di Alessandro Manzoni, avvenuta a Milano il 7 marzo 1785, pubblichiamo una serie di articoli come introduzione ed analisi del suo capolavoro I promessi sposi. Sono il frutto della rielaborazione del corso su questo romanzo, tenuto dalla professoressa Patrizia Truffa presso l’Università della Terza Età di Giaveno e Alta Valsangone nell’anno accademico 2023-2024.
Nella pagina di questo sito dedicata ad Alessandro Manzoni sono riportate in formato PDF le diapositive che hanno fatto da base alla trattazione della professoressa Truffa. Si trovano accanto ad approfondimenti biografici sull’autore ed i suoi familiari e a un quadro complessivo delle sue opere.
La giustizia ne I promessi sposi
•Italo Calvino ha osservato che ne I promessi sposi i rapporti di forza si dispongono in un triangolo che ha per vertici tre autorità: il potere sociale, il falso potere spirituale e il potere spirituale vero.
•Soffermiamoci sul primo: il potere sociale, che è sempre avverso agli umili.
•Secondo Manzoni la storia è una vicenda dominata dalla volontà di sopraffazione e dall’arbitrio dei potenti, pertanto nel romanzo i personaggi politici sono sempre condannati.
•Secondo Manzoni la giustizia è impossibile su questa Terra, ma i buoni devono lottare e operare per essa, nell’ottica del cristianesimo attivo.
•Per ora tralasceremo i grandi personaggi storici (il padre di Gertrude, scaltro e disumano; l’ambiguo cancelliere Ferrer; don Gonzalo Fernandez de Cordova, caricatura del governatore di Milano) per fermarci su due categorie di personaggi che rappresentano l’arbitrio del potere nel romanzo: i «cattivi» veri e propri e i loro collaboratori, quella «zona grigia» di cui parla Primo Levi, costituita da chi non compie il male per propria iniziativa, ma o collabora ad esso o non fa nulla perché non accada (i «vili»).
Il potere sociale – i CATTIVI
Il potere sociale – i VILI
Don Abbondio | L’avvocato Azzecca-garbugli |
Il conte zio | Il padre provinciale |
La spia Ambrogio Fusella | Il notaio criminale |
Il Nibbio e i bravi |
IL PALAZZOTTO DI DON RODRIGO
•Fino al capitolo 5 don Rodrigo compare solo nelle parole degli altri personaggi: occupa uno spazio virtuale che in questo capitolo si solidifica in uno spazio concreto, la sua abitazione.
•Unico tra i protagonisti, don Rodrigo non viene presentato né con la biografia né con un ritratto, ma viene focalizzato attraverso l’ambiente in cui vive. La sua entrata in scena viene preceduta dalla descrizione del suo palazzotto.

•Si osservi la collocazione del palazzo rispetto al villaggio; la descrizione della casa presentata con un diminutivo che la ridimensiona (palazzotto), e con particolari che indicano la mediocrità di don Rodrigo come potente (imposte sconnesse).
•Si notino anche gli strumenti di lavoro e di morte mescolati alla rinfusa.
•Si osservino le guardie: due creature vive e due morte: ammonimento ai visitatori, ma senza nessuna sinistra potenza. Inoltre in questo accostamento i bravi potenziano le loro caratteristiche animalesche.

Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro.
Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grandi avvoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore.
IL PERSONAGGIO DI DON RODRIGO
•È un giovane nobile che dall’alto del suo palazzo, spalleggiato da un gruppo di bravi al suo servizio, domina il villaggio dove vivono Renzo e Lucia.
•Appartiene a un’antica famiglia della quale fanno parte anche altri due personaggi del romanzo, il conte zio e il cugino Attilio.
•Nell’abitazione sembra non esserci traccia della ricchezza passata, ma restano i privilegi e la prepotenza.
•Principale antagonista di Renzo e Lucia, don Rodrigo è un personaggio statico, perché in tutta la vicenda agisce sempre e soltanto per imporre il proprio potere, senza evoluzione o cambiamento.
•Fin dall’inizio egli ci appare come figura imprecisa, indecisa nei comportamenti, che trova sicurezza solo nel suo ruolo di padrone di casa e nella prepotenza dei suoi privilegi di casta.

•I suoi gesti sono sempre dettati da orgoglio, superbia e desiderio di vendetta. Anche l’infatuazione per Lucia, nata da una scommessa, assume dimensioni sproporzionate soltanto perché egli non tollera l’umiliazione della sconfitta.
•Soltanto di fronte all’innominato don Rodrigo viene definitivamente ridimensionato a «malvagio mediocre»: deve accettare le regole imposte, riconoscendo la superiorità nobiliare, economica e sociale di colui che vuole come aiutante.
•In don Rodrigo Manzoni rappresenta la prepotenza della nobiltà che, sfruttando i propri privilegi di nascita, ha costruito un sistema di oppressione dei più deboli e di corruzione di coloro cui spetterebbe il compito di far rispettare la legge.
•Con il banchetto che si svolge nel palazzotto (capitolo 5) si entra nel primo dei «palazzi del potere», con i suoi personaggi, i suoi valori, il suo linguaggio. Anche i dialoghi a tavola servono a delineare i vuoti e miseri ideali di questa classe sociale.

•Nel capitolo 6, durante l’acceso scontro verbale con fra Cristoforo, emerge il carattere brutale e immorale di don Rodrigo.

Capitolo 6: Il colloquio tra Padre Cristoforo e don Rodrigo
“In che posso ubbidirla?” disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: “vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo… la coscienza, l’onore…” “Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende.” Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire e rispose subito, con un tono sommesso: “se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. […]
“Ebbene,” disse don Rodrigo, “giacché lei crede ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore…”
“Ebbene?” riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.
“Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.”
A siffatta proposta, l’indignazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti quei bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due.
“La vostra protezione!” esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: “la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.”
“Come parli, frate?”
“Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.”
“Come! in questa casa…!”
“Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e soggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…”
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: “escimi di tra’ i piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.”
•Dopo il fallimento del suo progetto di rapire Lucia (capitoli 7 e 8) don Rodrigo, su suggerimento del cugino, escogita un modo per liberarsi di fra Cristoforo e scoprire dove si è nascosta Lucia stessa (capitolo 11).
•La notizia del mandato di cattura contro Renzo e dell’allontanamento di fra Cristoforo dà nuovo vigore ai suoi piani criminali (capitolo 18): si rivolge all’innominato per ottenere il suo aiuto per rapire Lucia dal convento di Monza, ma la repentina conversione del suo alleato e l’arrivo in paese del cardinal Federigo manda in fumo i suoi disegni. Don Rodrigo decide così di trasferirsi a Milano (capitolo 25).


•Qui contrae la peste (capitolo 33: si osservino i due momenti della descrizione, dai mali fisici al sogno rivelatore) e, tradito e derubato dal Griso, viene condotto al lazzaretto, dove riceve il perdono di Renzo (capitolo 35). Sapremo della sua morte solo nel finale quando arriverà in paese il marchese suo erede.
Capitolo 33: don Rodrigo scopre di avere la peste
Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico.
“Sto bene, ve’,” disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. “Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!… Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno… Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca… mi dà una noia…!”
“Scherzi della vernaccia,” disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. “Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.”
“Hai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta’ attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla… Porta via presto quel maledetto lume,” riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. “Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!”
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. “Largo canaglia!” gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte.
Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.
IL PERSONAGGIO DELL’INNOMINATO
•Viene descritto come un «terribile uomo», di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant’anni, anche se il suo contegno e l’atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un’energia che sarebbero straordinari in un giovane.
•L’Anonimo non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine “innominato”, dichiarando di non aver trovato documenti dell’epoca che lo citino in maniera esplicita.
•Tuttavia la sua figura è chiaramente ispirata al personaggio storico di Bernardino Visconti, un feudatario lombardo vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo.
•Sin da ragazzo ha preso parte a imprese delittuose, spinto dal gusto della sfida e dalla volontà di prevaricazione, del tutto indifferente alle conseguenze morali e materiali dei suoi atti.
•Rispettato e temuto dai suoi sottoposti, non ha né amici né rivali che riescano a tenergli testa: di questo non si è mai preoccupato, ma con il sopraggiungere della vecchiaia vive una profonda crisi spirituale che lo porterà a cambiare radicalmente vita.

•Dopo averlo citato in modo allusivo nel capitolo 18 come un personaggio sinistro a cui don Rodrigo medita di rivolgersi per riuscire nella sua impresa, Manzoni presenta l’innominato in tre momenti: una breve biografia attenta soprattutto alle scelte morali da lui compiute nel capitolo 19. Qui appare come figura crudele e allo stesso tempo affascinante di fuorilegge al di sopra di tutte le schermaglie e di tutte le convenienze.
•Commentando le rare azioni meritorie dell’innominato, Manzoni fa rilevare che in quegli anni nessuna istituzione fosse in grado di far rispettare la legge. L’assenza e l’impotenza della giustizia permettevano l’affermarsi di figure violente e prepotenti come l’innominato.
Capitolo 19: il ritratto morale dell’innominato
Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. […]
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui.[…]
Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato (di Milano). […]
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto.[…]
Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. […]
E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
•All’inizio del capitolo 20 il ritratto prosegue con la descrizione del castello dell’innominato, prima attraverso una descrizione puramente informativa, poi focalizzata sullo sguardo dell’innominato che dall’alto domina chiunque si avvicini al castello, in quella valle selvaggia e aspra, segnata dal delitto e dalla paura.

Cap. 20 Il castello dell’innominato
Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto. Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla […]
•Solo dopo il ritratto morale e la collocazione paesaggistica, Manzoni descrive in breve l’aspetto fisico dell’innominato, sempre rinviandolo ai tratti morali (capitolo 20).

Cap. 20 – L’aspetto fisico dell’innominato
«[L’innominato] gli andò incontro [a don Rodrigo], rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine».
ALTRE RIFLESSIONI SULL’INNOMINATO
•L’innominato, grazie alla sua personalità complessa e sfaccettata, è una delle figure più interessanti e riuscite del romanzo.
•Il suo intervento è decisivo nella vicenda: mandando a monte i disegni di don Rodrigo, passa dal ruolo di antagonista a quello di aiutante di Renzo e Lucia.
•L’Innominato è rappresentato fin dall’inizio, come uno di quei tragici eroi del male, i quali, appunto perché sanno essere del tutto cattivi, possono giungere a una forma di magnanimità che li redima. È a-morale, cioè indifferente ai valori morali fino a quando gli si spalanca la prospettiva della morte e di un Dio «che atterra e suscita, che affanna e consola».
•Questa è la più grande differenza rispetto a Don Rodrigo, il «vicin suo piccolo», che è «il malvagio mediocre», colui che ha quasi paura, in certi momenti, della sua stessa cattiveria e scenderebbe volentieri a compromessi per tutelare se stesso. È immorale e viola le leggi solo per fare i propri interessi.
•Dopo la conversione, mosso dal desiderio di espiare le proprie colpe, l’innominato rivolge la sua straordinaria energia alla protezione di deboli e oppressi, di cui diventa uno strenuo e instancabile difensore: dalla verticalità negativa di un «demone» alla verticalità positiva del «santo» (G.Getto).
•Manzoni trasforma la vita dell’innominato in un esempio della misericordia di Dio che sa perdonare e trarre dalla propria parte anche i più irriducibili peccatori.
LA NOTTE DELL’INNOMINATO
•La notte dell’innominato, che si svolge parallelamente a quella di Lucia, è una discesa nell’abisso e una risalita verso la speranza.
•Inizia con il turbamento provato da lui stesso di fronte alle parole di Lucia e alla inusuale «compassione» provata dal Nibbio,
•attraversa lo smarrimento di fronte ad un sentimento nuovo, che non ha mai provato e non riesce a contrastare: l’inquietudine,
•vede sorgere il rimorso per l’indole antica,
• e crescere l’angoscia per le colpe commesse.
•Ma soprattutto si fa avanti la preoccupazione per quel vuoto che incombe sul suo futuro.
•La disperazione per tutti i suoi delitti lo porta ad afferrare la pistola pronto a suicidarsi,
•ma un altro pensiero lo tormenta: l’eventualità di un’esistenza dopo la morte. Che ne sarebbe di lui? E del suo cadavere ormai privo di potere e in balia di tanti nemici?
•L’ossessione continua per tutta la notte: è una vera e propria crisi di identità in cui l’uomo vecchio è morto, ma l’uomo nuovo stenta a nascere.
•In questo contesto trapela il ricordo delle parole di Lucia («Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!») che riaccende in lui la speranza.
•Dalla speranza nasce il desiderio del bene: libererà Lucia!
Capitolo 21: La notte dell’innominato
Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai [dormire]. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. — Che sciocca curiosità da donnicciola, — pensava, — m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne? E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sè gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava invece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. — È viva costei, — pensava, — è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi…. Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via! — disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: — via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa. — E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. […]
E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
— La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare… E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo? —
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sè stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sé stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine.
S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia… E se c’è quest’altra vita…! —
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! —
[Mentre l’innominato aspetta il giorno per liberare Lucia sente uno scampanare a festa lontano…]
LA PREGHIERA DELL’INNOMINATO
•Dopo la notte insonne del capitolo 21 seguono capitoli mossi, vivaci, fatti di dialoghi e azioni, con momenti gravi e umoristici (la mula di don Abbondio!) che coinvolgono vari personaggi .
•Nel capitolo 23 si completa la conversione dell’innominato con la confessione fatta al cardinal Federigo: prevalgono l’accoglienza benevola, il silenzio e l’abbraccio dopo il pianto liberatorio dell’innominato.

•La conclusione del capitolo 24, dopo la liberazione di Lucia, offre il motivo morale più profondo: il discorso che rivolge ai suoi è la prova della nuova serenità dell’innominato toccato dalla grazia, che non scioglie certo tutti i problemi dell’esistenza, né risolve le difficoltà e le contraddizioni quotidiane, ma consente di affrontarle con l’energia fiduciosa di chi è certo della presenza e provvidenza di Dio.
•Con uguale autorità rispetto a prima, ma con toni molto diversi egli si rivolge alla servitù e ai bravi, disponendo la fine delle iniquità e della violenza sul suo territorio.
•Chi accetterà questo cambiamento sarà accolto come figlio, altrimenti dovrà andarsene: da allora in poi ci sarà spazio solo più per la protezione dei deboli e l’aiuto ai fratelli.
•Mentre i bravi si ritirano pensierosi, l’innominato torna nella sua camera, recita alcune preghiere imparate da bambino, cade in un sonno profondo e sereno.
Capitolo 24: L’innominato dopo la conversione
L’innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: “ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora, conduce nel fondo dell’inferno. Non è un rimprovero ch’io voglia farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che v’ho da dire. Dio misericordioso m’ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l’ho già mutata: così faccia con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m’intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v’era comandato. E tenete per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non avessi mangiato per satollar l’ultimo di voi, con l’ultimo pane che mi rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia aperte. Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.” Qui finì, e tutto rimase in silenzio.
ALTRI «CATTIVI» NEL ROMANZO
•Manzoni non individua i cattivi soltanto nei personaggi principali intorno ai quali ruota la vicenda e la cui scelta di compiere il male influenza in modo sostanziale la vita degli altri protagonisti.
•Manzoni è convinto che ciascun uomo sia responsabile dei propri comportamenti e delle proprie scelte: il male compiuto ha sempre la stessa gravità morale anche se influenza solo marginalmente l’evolversi della Storia.
•Ecco perché nel romanzo compaiono molti personaggi malvagi senza possibilità di redenzione, ma a cui il narratore dedica la giusta attenzione per mettere in rilievo le loro responsabilità morali.
•Tra questi ci fermiamo sul cugino Attilio e sul Griso.
IL CUGINO CONTE ATTILIO
•È un aristocratico che risiede abitualmente a Milano e che nei capitoli iniziali del romanzo trascorre un periodo di villeggiatura ospite nel palazzotto del cugino don Rodrigo. Fin dalla prima apparizione dichiara la propria assoluta immoralità e il carattere arrogante e violento, mascherato talvolta una sorridente ironia.
•Ha in comune con i nobili del Seicento tanti difetti: boria, vanità, puntiglio, un malinteso senso dell’onore, arroganza, superficialità. In più vi aggiunge il suo temperamento di spensierato, la sua avventatezza, il suo cinismo.
•È un nobile ozioso, che vive di rendita come il cugino e che si diverte a passare il tempo tra scherzi, sciocche dispute cavalleresche e comportamenti frivoli.
•Il suo ruolo nel romanzo è sempre quello di «consigliere di nefandezze», di infamie, in cui prevale il gusto per il male degli altri: a partire dalla scommessa su Lucia, per poi continuare nell’insulsa disputa cavalleresca che oppone Attilio al podestà di Lecco, riguardante una sfida a duello. Padre Cristoforo risponde che per lui non dovrebbero mai esservi sfide o duelli, al che il conte ribatte che un mondo senza il “punto d’onore” sarebbe inimmaginabile (nonostante la sua frivolezza, infatti, Attilio si mostra molto attaccato ai suoi privilegi e particolarmente geloso dell’onore della propria famiglia).
•Possiamo osservare che con il suo «doppio», don Rodrigo, completa la raffigurazione del male. Nel male don Rodrigo pone un impegno assoluto, totale, fatto di violenza e stupri, là dove il conte Attilio resta nell’ambito di una vaga irresponsabilità, che è occasione del male, ma senza che il personaggio si metta mai in condizione di farlo personalmente e direttamente.
•Giorgio Barberi Squarotti l’ha definito «un’anima frivola» che suscita il male senza mai compierlo direttamente, ma questo per Manzoni non è certo una scusante!
•È un personaggio che agisce in modo malvagio soprattutto con la parola, ma questo non ne riduce la responsabilità.
•L’ultimo ruolo negativo viene svolto da Attilio quando si rivolge al conte zio affinché faccia allontanare padre Cristoforo, facendo leva proprio sul concetto di “onore” che è minacciato dal frate e fornendo ovviamente allo zio una versione addomesticata della vicenda che coinvolge Rodrigo e Lucia.
•La sua morte per la peste viene menzionata all’inizio del capitolo 33, quando si dice che don Rodrigo ha pronunciato un bizzarro elogio funebre in onore del cugino durante una cena con amici a Milano.



IL GRISO
•È il capo dei bravi di don Rodrigo, al quale il signorotto affida incarichi delicati e commissiona imprese rischiose, come quella di rapire Lucia nel capitolo 8: entra in scena nel capitolo 7, quando si intrufola in casa di Lucia travestito da mendicante per guardare in giro e curiosare, senza che venga svelata la sua identità.
•Di lui non c’è una precisa descrizione fisica e del suo passato ci viene spiegato che, dopo aver assassinato un uomo in pieno giorno, si è messo sotto la protezione di don Rodrigo per cui è diventato l’esecutore di tutte le malefatte.
•”Griso” è certamente un soprannome e in dialetto lombardo significa “grigio”, con probabile allusione al carattere sinistro e tetro del personaggio.
•Viene presentato come uno dei personaggi più odiosi del romanzo, apparentemente ubbidiente e fedele, ma che in realtà recrimina di continuo contro gli ordini che gli vengono impartiti e dietro la maschera feroce nasconde un animo codardo, che fallisce nelle sue imprese e che ha paura di essere arrestato fuori dal suo territorio («can da pagliaio» lo chiama don Rodrigo).
•Non viene neppure fatto entrare nel castello dell’innominato ma deve aspettare fuori il suo padrone: anche nella gerarchia dei bravi non è certo ai primi posti!
•È il perfetto ritratto di un uomo vile e mediocre. Allora perché possiamo inserirlo tra i «cattivi»?
•Al di là dei fallimenti e della presunzione, quello che rivela appieno la sua bassezza morale e la sua piccolezza è l’ultimo gesto che compie, quello che fa di lui non solo un vile, ma un vero e proprio «malvagio».
•Accortosi che don Rodrigo è ammalato di peste, promette di chiamare un medico per curarlo, mentre in realtà si accorda con i monatti per far portare il padrone al lazzaretto e approfittare della situazione per derubarlo: l’avidità lo spinge a prendere i vestiti di don Rodrigo e a scuoterli per vedere se c’è del denaro, cosa che fa ammalare anche lui di peste (il giorno dopo si sente male, è caricato dai monatti su un carro dopo essere stato derubato a sua volta e qui muore per strada solo e abbandonato da tutti).



I COLLABORATORI DEI MALVAGI: I «VILI»
•Secondo Manzoni non esistono graduatorie di malvagità: scegliere il bene, nonostante le lusinghe del male, è un atto radicale che deve cambiare la vita di umili e potenti.
•Se proprio si vogliono fare delle distinzioni tra i personaggi «malvagi» è a livello di consapevolezza nell’agire per il male.
•In questo senso abbiamo distinto i malvagi dai «vili», che non hanno il coraggio di scegliere il bene e anche nel compiere il male si mettono al servizio di altri più violenti, scaltri e potenti di loro.
•Nessuno dei personaggi del romanzo è inquadrabile in una rigida opposizione tra bene e male e la Provvidenza si manifesta loro – anche ai potenti – come voce della coscienza, che essi possono decidere di ascoltare oppure no.
•Il male insito nell’esistenza quotidiana rientra in un disegno divino incomprensibile per la mente umana, ma che certamente si rivelerà dotato di senso: l’enigma del male accettato con la forza della fede non elimina i dolori o i guai, ma li attenua, rende la vita accettabile già nella sua manifestazione terrena e apre la mente e il cuore umano alle prospettive dell’eterno.
•Nel romanzo numerosi sono i personaggi che collaborano alle azioni delittuose perché lo hanno sempre fatto (la vecchia serva dell’innominato), perché ne traggono vantaggi indispensabili alla loro vita (i bravi), perché l’assecondare chi compie il male procura loro privilegi e onori (don Abbondio e l’Azzecca-garbugli), perché sono inseriti in un meccanismo perverso del potere politico (il notaio criminale, la spia Ambrogio Fusella), oppure sono loro stessi ai vertici di un potere che opera in nome dell’ingiustizia e della prevaricazione (il principe padre di Gertrude, il conte zio e il padre provinciale).

Il conte zio e il padre provinciale «Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte.»
•Il vuoto morale dei due personaggi e il loro confondersi con il gruppo di appartenenza è segnalato dalla mancanza di nome proprio per entrambe i personaggi: si potrebbe dire che sono due «anonimi».
•Il conte zio non ha nessun potere diretto: appartiene solo ad uno di quei corpi ornamentali (Consiglio segreto) attraverso i quali il dispotico governo spagnolo trovava modo di accontentare la imbecille vanità del patriziato, dandole l’illusione di partecipare al governo della cosa pubblica.
•Ma se nulla è la sua autorità concreta e legale molto alta è l’influenza che sa esercitare sulle sue molte e illustri conoscenze presso le quali riscuote gran credito. È l’autorità nascosta, che lavora sott’acqua, che preme e sforza le autorità palesi, condividendo dunque la responsabilità della loro ignavia.
•Il conte zio sa che la sua forza è in questo credito: egli non ha mai niente da dire, niente da proporre (è una «scatola vuota»); ma nel far valere quel niente, nel lasciare intravvedere chissà che in quel niente, è maestro.
•Nel capitolo 18 il nipote Attilio insinua nel vecchio l’idea, a cui forse egli non sarebbe arrivato da sé, di far rimuovere da Pescarenico il padre Cristoforo.
•Ma il conte, che pure tradurrà in atto quel suggerimento, sente di dover reagire contro chi ardisce di credere che egli possa accogliere il consiglio altrui. “Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, disse un po’ crudamente il conte zio”: che passa subitamente dal confidenziale tu a quel gelido e diplomatico lei.
•Il conte zio è preoccupato del suo credito e veglia continuamente alla sua difesa, ma ha un amore anche più ombroso per il suo sangue e per il suo nome (che sono del resto la base vera anche di quel credito).
•Il suo sangue e il suo nome sono, in fondo, tutto lui: perché egli, per sé, non è niente. Il conte Attilio lo sa, e, per averlo protettore sicuro contro il padre Cristoforo, non conosce miglior mezzo che di fargli intendere che il frate non ha nessun riguardo all’alta parentela di don Rodrigo.
•E in questa difesa innanzitutto del suo sangue la vanità del conte zio si trasforma in una vera e propria ingiustizia verso un innocente: l’angustia del cervello diventa miseria di cuore e l’uomo ridicolo diventa cattivo.
•Manzoni ce lo ritrae con l’umorismo, anzi con il buon umore di chi conosce molti nobili simili a lui!
•Lo rappresenta con una connotazione comica, sottolineando, ad esempio, la sua abitudine di soffiare mentre parla e di stringere le labbra lasciando le frasi in sospeso, come se alludesse sempre a qualcosa di importante che non è possibile dire esplicitamente.
•Il padre provinciale è il superiore dell’ordine dei cappuccini del territorio in cui vive fra Cristoforo e pertanto è dotato di un potere reale.
•È un esponente di alto grado di quella classe ecclesiastica che gestisce una parte importante del potere nel 1600 e che deve quindi trovare forme di convivenza con la classe politica laica preservando le proprie prerogative e autonomie.
•Prudente e diplomatico, difende con scarsa convinzione padre Cristoforo dalle calunniose accuse del conte zio: non si cura della giustizia, tutto preoccupato dell’onore dell’ordine cui appartiene e delle offerte in denaro che potrà ricevere per ricompensa, se ‘sacrificherà’ l’innocente padre Cristoforo.
•È una figura contraddittoria, un personaggio difficile da giudicare per i critici, però Manzoni non ha dubbi nel presentarlo come figura molto negativa, lontana dai valori evangelici, che attribuisce maggiore importanza ai rapporti di forza tra le classi dominanti rispetto alla giustizia e alla carità cristiana.
•Manzoni ritiene il padre provinciale ancor più responsabile del conte zio, perché egli conosce direttamente fra Cristoforo e la sua integerrima scelta di vita.
•Altro motivo di condanna è la pratica ipocrita del doppio registro nell’uso della parola: il padre provinciale si esprime in modo cerimonioso – anche se più razionale e controllato rispetto al conte zio – nel dialogo; in modo secco e lucido, consapevole della verità, nella riflessione tra sé e sé.
•Ancora una volta nel romanzo la parola diviene strumento di inganno e falsità, in questo caso in modo ancor più condannabile perché dovrebbe uscire dalle labbra di un sacerdote che cerca e pratica la Verità: «sia il vostro parlare sì sì, no no…»,Mt 5,37.
Capitolo 19 Il “duello” tra il conte zio e il padre provinciale
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò:
– Stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero… E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***? Il provinciale fece cenno di sì. – Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico… questo soggetto… questo padre… Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo… Ma in tutte le famiglie un po’ numerose… c’è sempre qualche individuo, qualche testa… E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo… un po’ amico de’ contrasti… che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi… Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.
“Ho inteso: è un impegno – pensava intanto il provinciale: – colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna”.
– Oh! – disse poi: – mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso… esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
– Intendo benissimo; vostra paternità deve… Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze… possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo… vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose… cose… Lorenzo Tramaglino!
“Ahi!” pensò il provinciale; e disse: – questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli…
– Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie…! Son cose spinose, affari delicati… – E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: – ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se mai sua eccellenza… Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma… non so niente… e da Roma venirle…
– Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
– Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
– È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito…
– Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
– Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni…
– Se lei sa positivamente, – disse il provinciale, – che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
– Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe… Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
– Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
– Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato…
– Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare… tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato…
– Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni… pur troppo eh, padre molto reverendo?…
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, – tocca a noi, – continuò, – a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi… potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso.
“Eh già! – pensava tra sé: – vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare”.
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, – intendo benissimo, – disse il provinciale, – quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo…
È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito… mio nipote non crederei… ci son io, per questo… Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta… e allora non è più solamente mio nipote… Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze…
– Cospicue.
– Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo… è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora… anche chi è amico della pace… Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere… di trovarmi… io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi… E poi, hanno de’ parenti al secolo… e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro… mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro… Sua eccellenza… i miei signori colleghi… tutto diviene affar di corpo… tanto più con quell’altra circostanza… Lei sa come vanno queste cose.
– Veramente, – disse il padre provinciale, – il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero… Mi si richiede appunto… Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro…
– No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero… mi sono spiegato.
– Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano… Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso… L’onor dell’abito… non è cosa mia… è un deposito del quale… Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e… non dico vantarsene, trionfarne, ma…
– Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato… secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. – In quanto ai cicaloni, – riprese, – che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo… noi che prevediamo… noi che ci tocca… non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
– Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo… non per noi, ma per l’abito…
– Sicuro, sicuro; quest’è giusto… Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso… qualcosa di straordinario… è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote… Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana… per levar proprio ogni occasione…
– Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi…
– Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?
– Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
– Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, – continuava poi, alzandosi da sedere, – se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…
– Conosciamo per prova la bontà della casa, – disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
– Abbiamo spento una favilla, – disse questo, soffermandosi, – una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Chi vince nella disputa tra il conte zio e il padre provinciale?
Manzoni attribuisce la vittoria al conte zio, ma si potrebbe dire che nessuno dei due vince, perché alla fine si accordano per far sì che la famiglia del conte zio non si senta umiliata e che i cappuccini ricevano offerte economiche e protezione; ma in un certo senso si potrebbe dire che vincono tutti i due, perché i veri sconfitti sono la Verità e l’innocente Padre Cristoforo.
