Uno dei primi filmati trasmessi nella rubrica A nosta moda su Giaveno TV illustrava e spiegava il gioco della trottola , in patuà “sàtula” (sotula in piemontese), tipico della Quaresima a Coazze, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale. Il boom economico e lo spopolamento montano avevano sbiadito e anche cancellato usi e costumi, lingua e tradizioni. Quando è nata, negli Anni Ottanta, A nosta moda andava in controtendenza, non solo filmava le tradizioni, ma organizzava interviste e momenti di consapevolezza e revival. Alla fine degli Anni Settanta il gioco della sàtula, quasi dimenticato, era stato riesumato, con qualche iniziativa, sporadica, ma sufficiente a risvegliare la memoria e forse la nostalgia di chi, da bambino, in Quaresima trovava un po’ di divertimento solo in questo gioco, quasi l’unico permesso nei quaranta lunghi e tristi giorni, che si vivevano allora con un’austerità oggi impensabile.
L’idea, lanciata da A nosta moda, di ricreare un momento di gioco che li aveva visti bambini trovò subito una forte adesione. Beppe du Freinài, falegname del Freinetto, garantiva la produzione delle indispensabili trottole e un ampio cortile sterrato, Dinu lu sutrur, Gian d’Bös, Vico, Germano, Felice e Cutìŋ portavano l’entusiasmo dei bambini sotto le rughe dei volti adulti, Roberto con i suoi quattordici anni e la tecnica matura significava che per la sàtula c’era un futuro. Armando Rege Gianas, lasciata l’amata cinepresa, si cimentava con la telecamera, mastodontica rispetto alle attuali. E così in un giorno grigio, ma non troppo freddo, della quaresima coazzese del 1984 in un cortile del Freinetto le sàtule sono tornate a roteare numerose, com’era consuetudine nelle strade e nelle aie di Coazze tanti anni prima.
Li satulé
L’antico mondo contadino non conosceva il “tempo libero” e il bambino diventava presto “uomo”, chiamato a lavorare prima in concomitanza con la scuola e poi a tempo pieno. Forse per questo giocare con la sàtula, anche nel tempo circoscritto della Quaresima, era considerato una perdita di tempo e il termine dialettale per indicare i giocatori, “satulé“, si è caricato di un significato bonariamente negativo. Come il “falabràch“, il “satulé” è un perdigiorno, un tipo leggero, poco affidabile.





















Il pomeriggio è stato divertente e istruttivo e il filmato una preziosa testimonianza. Il passaggio dal VHS al digitale e i 40 anni trascorsi si vedono tutti, ma si vede anche come si ricava da un pezzo di legno una sàtula, come si giocava all’aggressivo “spicàs” e al più tecnico “stechìŋ” e si sente come si parlava con disinvoltura il nostro patuà francoprovenzale.

Nei quarant’anni intercorsi tante cose sono cambiate, alcuni dei protagonisti non ci sono più, altri volenterosi, come “lu véi” Eraldo Ruffino, hanno cercato di mantenere e trasmettere la tradizione del gioco.
Chi volesse raccogliere il testimone può trovare nel filmato sia la procedura di lavorazione della sàtula, sia le tecniche di lancio, sia le regole dei giochi. La voglia di mantenere la tradizione dobbiamo invece trovarla dentro di noi.
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