Dante, per modo di dire

La potenza espressiva della poesia di Dante credo sia inarrivabile. Straordinaria è la sua capacità di raccontare intere vicende, rievocare storie mitologiche, vite di personaggi, fatti storici complessi, intrighi drammatici con pochi tratti, per scorci mettendo in rilievo pochi particolari significativi e riassuntivi.

L’inferno che attraversa è una sua creazione fantastica, incompatibile con le cognizioni geofisiche che abbiamo, ma si regge sulla convinzione medievale del simbolismo che privilegia il significato rispetto al significante. Lucifero è l’anti-Trinità e il sommo male, è quindi “logico” che abbia tre teste su un corpo solo (anche lui è uno e trino) e che stia nel punto dell’universo (dantesco) più lontano dal Paradiso, il centro della Terra. Dante profeta “ha visto” ciò che descrive e lo descrive con un realismo e una profondità tale che fa si che anche noi “vediamo” con lui. E per esprimere ciò che proviamo, a distanza di sette secoli, ancora attingiamo alle sue parole incisive, ormai senza tempo. Così efficaci che non sentiamo il bisogno di trovarne altre e, senza farci caso o senza saperlo, le abbiamo trasformate in luoghi comuni, qualcuno più dotto, ma sostanzialmente tutti familiari. A Dante, cui la vita ha sottratto casa, patria ed affetti, riconosciamo almeno la paternità di questi nostri modi di dire quotidiani:   

“Far tremare le vene e i polsi” – Ancora oggi ricorriamo a questa espressione per riferirci a qualcosa che ci terrorizza profondamente. Dante la utilizza nel canto I dell’inferno, quando nei versi 87-90 chiede a Virgilio di salvarlo dalla Lupa, una delle tre fiere della selva oscura, dove il Poeta ha smarrito la strada: “Vedi la bestia per cu’io mi volsi; / aiutami da lei, famoso saggio, / ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.

“Qui si parrà la tua nobilitate”:  “Qui si dimostrerà il tuo valore”, si vedrà se sei all’altezza del compito. Dante all’inizio del II canto dell’Inferno invoca le muse e il suo (o loro) alto ingegno per affrontare un’impresa sovrumana. “ O muse, o alto ingegno, or m’aiutate / o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, /   qui si parrà la tua nobilitate”. (Canto II, vv. 7-9)

“Non mi tange”: “non mi tocca, non mi riguarda” «Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, / Che la vostra miseria non mi tange / né fiamma d’esto incendio non m’assale», leggiamo ai versi 91-92 del Canto II dell’Inferno. È Beatrice a parlare; e lo fa per rassicurare Virgilio del fatto che nulla di ciò che dovesse accadere all’Inferno potrà in alcun modo ferirla, perché lei è una creatura di Dio e per questo le miserie umane e le fiamme dell’inferno non la toccano.

 “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”: Siamo nel Canto III dell’Inferno, versi 6-9: «Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». È la scritta incisa sopra la porta dell’Inferno, che incute terrore in Dante. Virgilio, a quel punto, lo prende per mano per condurlo nel regno delle tenebre. I primi versi si riferiscono al fatto che l’Inferno è eterno come le cose create prima di esso. L’ultimo verso, ovviamente, allude al fatto che le anime dannate devono, entrando nell’Inferno, abbandonare qualsiasi speranza: la loro pena è per sempre. Oggi la frase si usa perlopiù in modo scherzoso davanti a una prova ardua o a un compito percepito come particolarmente difficile da affrontare.

L’iscrizione sulla porta dell’Inferno dantesco si è prestata e si presta a facili ironie.

Il ben dell’intelletto”: «Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c’hanno perduto il ben dell’intelletto» (Canto III dell’Inferno, versi 18-20) Virgilio presenta a Dante gli ignavi che risiedono nell’antinferno,  che hanno, appunto, perduto il ben dell’intelletto; cioè la verità, Dio, il bene supremo dell’intelligenza umana. Oggi perdere il ben dell’intelletto ha il significato di impazzire, di perdere lucidità mentale.

 “Il gran rifiuto”: «Vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto», scrive Dante ai versi 59-60 del III Canto dell’Inferno (dal quale sono stati tratti davvero numerosi modi di dire!). Il vile è Papa Celestino V, che abdicò nel 1294. Oggi si usa in riferimento alla rinuncia a una carica o a un incarico di rilievo, soprattutto se tale rifiuto è fatto in modo plateale.

 “Non ti curàr di lór, ma guarda e passa”: il detto rimanda al Canto III dell’Inferno, versi 49-51, seppure con qualche differenza: «Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Virgilio sta indicando a Dante i vili, gli ignavi, che vissero senza ideali, di cui non è rimasta nessuna traccia nel mondo; per questo, vanno semplicemente ignorati. La versione popolare del verso, inflazionata sui social, viene usata per esortare una persona a non far caso ai detrattori o a coloro che la stanno insultando, andando, appunto, oltre, senza curarsene.

 “Senza infamia e senza lode”: si impiega per riferirsi a una cosa, a un lavoro o a una persona mediocri, senza particolari qualità. È stata usata da Dante nel III canto dell’Inferno, versi 35-36, per indicare le persone che si rifiutano di prendere una posizione per pigrizia, per indifferenza o per quieto vivere (successivamente definite “ignavi” dalla critica dantesca): «coloro / che visser sanza‘nfamia e sanza lodo».

“Dolenti note”: Oltrepassato Minosse, giudice infernale, Dante si trova per la prima volta a contatto con dei veri dannati puniti nel secondo cerchio: «Or incomincian le dolenti note / a farmisi sentire; or son venuto / là dove molto pianto mi percuote.» (If., V, vv. 25-27). L’espressione è usata spesso per introdurre qualche notizia o comunicazione spiacevole.

 “Bella persona”: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona che mi fu tolta; / e ‘l modo ancor m’offende»: nei versi 100-102 del V canto dell’Inferno, Francesca da Rimini sta parlando del modo in cui Paolo Malatesta si era innamorato della “bella persona” di lei, poi brutalmente e prematuramente uccisa. “Bella persona” si usa oggi soprattutto in riferimento a caratteristiche interiori, più che esteriori.

Galeotto fu…”- Nella versione originale la frase termina con “‘il libro e chi lo scrisse”, oggi invece viene completata con le espressioni più varie. Ci troviamo nel famosissimo canto V dell’Inferno, dove Francesca racconta al poeta il suo infelice amore per Paolo. I due amanti si innamorarono leggendo un libro sulle imprese di Lancillotto e i cavalieri della Tavola Rotonda, dove fu proprio Galehault, a spingere la regina Ginevra  tra le braccia del bel cavaliere, tradendo così re Artù. Il libro che la coppia leggeva ha spinto l’uno tra le braccia dell’altra, come aveva fatto nel racconto cavalleresco Galeotto, che da nome proprio diventa nome comune, con procedimento antonomastico.

“Femmine da conio”: Gerione, serpente dal volto umano, ha appena depositato Dante e Virgilio nell’ottavo cerchio, della frode e dell’inganno. Nella prima bolgia ci sono i ruffiani e i seduttori e Dante riconosce Venedico Caccianemico, che aveva indotto la sorella a prostituirsi e che cerca di giustificarsi, ma interviene un demonio che lo frusta gridando «Via, / ruffian! qui non son femmine da conio». (If., XVIII, vv.  65,66) Non ci sono donne da sfruttare, da far prostituire per denaro.

“Quatto quatto”: Virgilio richiama Dante che si è nascosto tra le rocce del ponte, spaventato dai diavoli “E ’l duca mio a me: «O tu che siedi / tra li scheggion del ponte quatto quatto” (Inferno C XXI, v 88-89). 
L’espressione è diventata di uso comune per indicare chi si nasconde o si muove con circospezione per non farsi notare.

Fatti non foste a viver come bruti…”- “…ma per seguir virtute e canoscenza” (vv. 119-120, canto XXVI). È con queste parole che Ulisse incita i suoi compagni a seguirlo nella folle impresa di attraversare le colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), un tempo ritenute i confini del mondo. Oggi è un’espressione proverbiale, usata per esortare a vivere come uomini e non come bestie, seguendo la virtù e e la scienza come grandi ideali.

 “Cosa fatta capo ha”: Proverbio toscano che Dante cita nel canto XXVIII dell’inferno con le parole “capo ha cosa fatta” (v. 107). Il poeta riporta la frase attribuita a Mosca dei Lamberti, che pronunciò il celebre motto durante una riunione indetta per uccidere Buondelmonte dei Buondelmonti. La frase risoluta significa che un’azione, quando viene fatta, ha sempre un capo, ovvero un fine, uno scopo preciso, mentre l’indugiare non porta a nulla.

 “Stai fresco / stiamo freschi”: usato ironicamente, come si fa con “tutto a posto”, con significato antifrastico, cioè per dire, al contrario, che andrà tutto male, il modo di dire deriva dal verso 117 del canto XXXII dell’Inferno, «là dove i peccatori stanno freschi». Il riferimento è al lago Cocito, «un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante», come descrive Dante nei primi versi del canto, nel quale i peccatori stanno immersi in maniera proporzionale alla gravità del peccato di tradimento da loro commesso.

Il Bel Paese”: è una espressione poetica per definire l’Italia (bella per il clima, per la cultura, per il paesaggio), usata da Dante nel canto XXXIII dell’Inferno, al verso 80: «del bel paese là dove ‘l sì suona». Dante distingue l’italiano come lingua del si, con lo stesso criterio con cui individua le lingue d’oc e d’oīl nel suo trattato linguistico “De vulgari eloquentia”. La stessa espressione ricorre anche in Petrarca, in particolare nel Canzoniere, CXLVI, vv. 13-14: «il bel paese / ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe». Ancora oggi, ci si riferisce spesso all’Italia con questa espressione, che ha anche dato il nome ad un formaggio.

“Sola, soletta”: Dante e Virgilio, sbarcati in Purgatorio, vengono infastiditi dalle anime espianti, disperse da Catone Uticense, e, cercando la strada per salire, incontrano lo sguardo fiero di Sordello da Goito, solitario e sdegnoso fino a quanto non apprende di parlare con un conterraneo: “Ma vedi là un’anima che, posta / sola soletta, inverso noi riguarda: / quella ne ’nsegnerà la via più tosta” (Pg., VI, vv. 58-60) . L’espressione iterata “sola, soletta” è usata ancora oggi, con valore più intensivo che diminutivo, a volte con una sfumatura di compatimento.

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