I lavori e i cibi di ogni giorno – il mattino e la tuma

Cap. 6° /1 – La Valsangone raccontata ai ragazzi … dalla bisnonna Livia Picco

Un tempo, la gente come lavorava e che cosa mangiava?

Le famiglie erano numerose. Ciascuna persona contribuiva alle faccende secondo le sue possibilità e le sue forze. I nonni, se non erano malati a letto, eseguivano i lavori più leggeri, badavano ai bimbi in culla, mentre la mamma era in campagna, portavano le bestie al pascolo con l’aiuto di un nipotino. I ragazzi, finiti i compiti, si rendevano utili in cento modi: badavano ai fratellini, alle galline e ai conigli, sbrigavano le commissioni, rastrellavano i prati, andavano a prendere l’acqua o la tiravano su dal pozzo. Le ragazzine, oltre a questo, aiutavano in cucina, filavano e lavoravano a maglia. Rimaneva poco tempo per giocare. Il gioco anzi, era considerato una perdita di tempo.

1) MATTINO

La giornata cominciava all’alba. I galli con i chicchirichì che trapanavano il cervello, davano la sveglia. I muggiti e il trepestio degli animali tiravano giù dal letto gli adulti insonnoliti che, zoccolando zoccolando, accendevano il lume a petrolio nella cucina e nella stalla. Ah, la comodità della luce elettrica!

Una donna, intanto, presa una fascina nella legnaia, accendeva il fuoco nel caminetto o nella stufa. Adesso è facile girare la manopola del gas, ma allora si doveva combattere con la legna verde che faceva fumo, i fuscelli che si spegnevano, il latte e l’acqua per il caffè che ci mettevano un’eternità a bollire. Non bisogna pensare che allora esistessero la moka e le caffettiere elettriche. Per fare il caffè si metteva l’orzo o la cicoria abbrustolita o il surrogato detto “olandese” nell’acqua che stava bollendo in una piccola pentola. Prima della guerra si aggiungeva un cucchiaio di caffè, macinato al momento nel ‘mülicafé’ e l’aroma riempiva la cucina. Infine si toglieva la pentolina dal fuoco e si lasciava riposare il contenuto per permettere agli ingredienti di depositarsi sul fondo. Durante la guerra il caffè non si trovava più e venne a mancare perfino l’aroma. Nella stalla intanto si “governava” il bestiame che, per circa sette mesi all’anno, non si poteva portare al pascolo. Il montanaro infilava grosse bracciate di fieno nella rastrelliera. Le mucche lo tiravano giù nella greppia e lo mangiavano. Intanto un uomo (o una donna) seduto su uno sgabello, con un secchio tra le ginocchia, mungeva.

pag 57 – Mucche al pascolo, Fotografia di Chiara Spinello
pag 57 – Mungitura a mano

Le mucche avevano tutte un nome secondo la fantasia del padrone. Alcune avevano un nome geografico: Venesia, Luna, Italia, Veruna, altre un nome che si riferiva al loro mantello: Biunda, Mora, Giaia. Non mancavano altri nomi: Carina, Musca, Cita… Anche le capre e le pecore avevano un nome e perfino le galline, per non parlare dei cani e dei gatti. Le mucche rispondevano ai richiami girando la testa verso la persona che le chiamava. Ma, al pascolo, se stavano brucando il trifoglio del vicino, facevano finta di non sentire, mangiavano ad un ritmo accelerato e bisognava intervenire con il bastone o mandare il cane. Ma torniamo nella stalla. Dopo la mungitura, il contadino metteva sotto il muso delle mucche dei secchi d’acqua che esse bevevano avidamente a lunghi sorsi, poi le ‘pettinava’ con ‘brussa’ e striglia. Il padrone che non si curava del pelo irsuto e delle croste di letame, era considerato un “uomo da poco”. I vitellini, intanto, nel loro angolo si agitavano e bisognava correre ad abbeverarli con il secchio mezzo pieno di latte.

Forse qualcuno si domanda se non fosse più sbrigativo farli poppare direttamente dalla madre. A parte il fatto che i vitellini erano molto vivaci e, una volta sciolti dalla catena, avrebbero scorrazzato per tutta la stalla e non sarebbe stato facile riportarli al loro posto, il motivo principale era che i vitelli tendevano a succhiare tutto il latte della madre, mentre c’era necessità di averne un po’ a disposizione per la famiglia, per fare la tuma o per vendere. E se il vitellino neonato non riusciva a succhiare dal secchio? Allora la persona che lo accudiva immergeva la mano nel latte e poi gli faceva succhiare un dito gocciolante. Ci voleva del tempo, ma alla fine il piccolo stomaco si riempiva.

PON 2019, tra le attività previste la visita alla Cascina Bramante di Giaveno.
Durante la visita alla cascina Bramante, l’attività più gradita ai ragazzi è stata quella di abbeverare i vitellini.

Abbeverare i vitelli non era un’operazione facile perché essi, ingordi, davano delle testate al secchio, con il pericolo di rovesciarlo e buttare il prezioso latte sulle foglie e sulla paglia. Il lavoro mattutino nella stalla non era ancora finito. C’era da portare fuori il letame solido e il liquame, rifare la lettiera degli animali con foglie secche e pulite. E ci voleva il suo tempo. Infine le signore mucche si coricavano, si mettevano a ruminare volgendo intorno occhiate tranquille. Per gli umani la giornata di fatiche era appena cominciata. I ragazzi, dopo aver aiutato nei lavori (qualcuno mungeva) dopo colazione si precipitavano a scuola, spesso lontana. Gli adulti si disperdevano al lavoro nei campi o altrove.

La tuma (tumë in coazzese)

La massaia, riordinata in fretta la cucina, messa a mollo la biancheria, entrava nella ‘crota’e si occupava del latte avanzato, tanto o poco che fosse. Le altre donne della famiglia seguivano gli uomini nei campi. Nella ‘crota’ stavano le conche (le “gàvie” o “giàvie”) ricolme di latte in riposo per far affiorare la panna. La massaia raccoglieva la “fiùr du lac”, detta semplicemente ‘fiur’, per fare il burro. Nelle vallate incuneate fra le montagne, nei villaggi arrampicati sui costoni, nelle baite e negli alpeggi, la pietanza era la tuma, mentre il re dei condimenti era il burro. Ma si fa presto a dire “tuma” (“tümë”). Per ottenere delle “tumè” come si deve, oltre all’esperienza, è necessaria quella capacità straordinaria, che si chiama arte. Le “tumè” non sono tutte uguali. Cambiano sapore nelle varie fasi della stagionatura, fino a raggiungere la perfezione del “cëvriń” di Forno di Coazze invecchiato nella pignatta (“l’ùla”). Ci sono:

  • le “tumè” dei contadini che stanno in una mano, quelle del “bёrgé” grandi come ruote di biciclette;
  • quelle confezionate con diversi tipi di latte: crudo, bollito, acido, scremato;
  • quelle fatte con il latte di mucca, di capra, di pecora, di asina oppure con il latte misto (ad esempio di mucca e di capra);
  • quelle estive e quelle invernali.

Ma come si fa a trasformare il latte in formaggio? La bambina diventata bisnonna cerca di ricordare attraversando cumuli di nebbia. Si fa scaldare il latte in un paiolo, si aggiunge il caglio (“pësürë”), un liquido verdino comprato in farmacia, si lascia riposare coperto da una tela rada (“la reiròla”) che deve essere pulitissima. Alcuni facevano cagliare il latte con “lu cài”, lo stomaco degli agnelli (“briń”) e dei capretti (“ciauròt”), prelevato alla loro macellazione e poi fatto seccare appendendolo al soffitto della cucina. Il latte rimasto nello stomaco rappreso e indurito sotto forma di grumo si sfregava su una schiumarola che poi si immergeva nel latte riscaldato e rimestando lo si trasformava in cagliata (“caià”). Il caglio e il calore danno origine a una massa bianca, la cagliata e a un liquido, “la leità”. (Una bambina, una volta, invece di poche gocce, versò tutto il contenuto della boccetta nella conca. Ottenne una palla dura, fibrosa, immangiabile). A questo punto entra in scena la massaia a controllare che la cagliata sia al punto giusto, poi la impasta con le mani per spremere tutta la “leità”, la schiaccia dentro un recipiente bucherellato (la “feiséla” o “fiséla”), la sala, appoggia sopra la “feiséla” un peso e lascia tutto lì, a scolare. Il giorno dopo capovolge la “feiséla” su una tela di bucato. Ed ecco la neonata “tuma”. La massaia la cura come un bambino piccolo. Continuerà a voltarla e rivoltarla ogni giorno finché non si sia formata la crosta. Il formaggio è una delle grandi invenzioni dell’uomo che ci arriva dal più profondo dell’antichità. Il latte è un prodotto molto nutriente, ma deperisce in brevissimo tempo. Aver inventato la maniera di conservare a lungo le sue proprietà nutritive con un procedimento semplice è stato geniale! Come le ciambelle non sempre riescono col buco, così le “tume” non sempre riescono consistenti e saporite. Le cause sono molte: l’inesperienza o la distrazione di chi le confeziona, il clima umido e afoso, il vento “marìń” (il fôhn) e allora le giovani “tume” diventano amarognole, si spaccano, si sbriciolano.

Toma piemontese, guida pratica alla caseificazione, Ricerca e agricoltura schede di assistenza tecnica, Regione Piemonte 1999. La “toma piemontese” ha ottenuto la DOP (Denominazione di origine protetta) col Regolamento UE del 1° luglio 1996. Il disciplinare di produzione è dettagliatamente descritto in questo opuscolo.

Le principali sequenze della trasformazione del latte in formaggio sono tratte da Vita in alpeggio, tesina d’esame di Chiara Spinello, Istituto Alberghiero Prever di Pinerolo, 2010.

Il burro (böru in coazzese)

Una volta alla settimana nelle borgate si faceva il burro. Si sbatteva la panna nella zangola (“bürèi”),[1] finché sua maestà il Burro si degnava di separarsi dal suo liquido (“lu làit du bőru”). Dire che si degnava non è un’espressione esagerata perché sua maestà faceva spesso i capricci. In questi casi le massaie si disperavano, chiamavano i ragazzi a dare il cambio dopo una mattinata di sforzi. Era ora di mettere al fuoco la polenta. Stavano per arrivare dai campi gli affamati. Il focolare ancora spento, niente di pronto… e il burro non “granava”. I ragazzi accorrevano e, dopo qualche discussione, ce la mettevano tutta per finire al più presto. Ma batti e batti erano sempre allo stesso punto. Arrivava la nonna: “Ragazzi, bisogna battere in modo regolare, non battete giusto. Adesso provo io”. I ragazzi avrebbero già fatto volare “lu bürèi” nel torrente! La nonna batte ritmicamente per un’ora. Tira su il bastone. Ancora niente burro. Arrivano intanto i figli dal campo. La vedono in difficoltà e uno di essi abbraccia la zangola e la porta al torrente o alla fontana. Qui la immerge nell’acqua fresca fino a metà e riprende a battere. Finalmente il burro si forma: molliccio e senza carattere. Nelle giornate asciutte e ventilate la musica cambiava. Dopo un tempo breve la mamma chiama i ragazzi e grida: “Portate l’acqua!”

“Già fatto?” si meravigliano i ragazzi. La mamma tira fuori dal “bürèi” la massa compatta del burro, sodo nella sua morbidezza e la immerge nell’acqua per fare la toeletta al re e imperatore. Intanto mormora: “Dio sia lodato!”. Il burro doveva riposare un po’ per riaversi dallo sbattimento, poi la mamma lo confezionava in panetti. Se era destinato al mercato su di essi imprimeva il marchio del produttore con nome e cognome. Era un burro D.O.C. Data l’importanza del burro nell’alimentazione della valle, era facile trovare un “bürèi” nella case. Però non tanti ragazzi del Duemila ne hanno vista una. Era un recipiente quasi cilindrico di legno, cerchiato con fasce metalliche, con una apertura in alto in cui si versava la panna. Poi si immergeva un disco bucherellato di legno, attaccato a un bastone, più lungo della zangola, perché la parte che emergeva dal buco del coperchio serviva da impugnatura per battere la panna. Chiuso bene il coperchio (“la cupë”, sempre di legno), si poteva cominciare a battere. Terminata la lavorazione del burro, nel “bürèi” restava del liquido (“lu lac du böru” o “lai du böru”) che veniva riciclato nell’alimentazione, con la polenta o per fare il “brus”, un formaggio tanto pregiato da rivaleggiare con il “cëvriń”. 


[1] Negli alpeggi e per grandi quantità di burro si usava la “büréra”, una specie di botticella con pale interne, posizionata su un cavalletto, che veniva fatta girare azionando delle manovelle.

pag.57 – Foto di Elio Ruffino
Immagine tratta da I chi amùń n.3 2015

La gente di montagna aveva tre volte ragione di utilizzare il siero che restava. Non solo perché in montagna non si buttava via niente, neanche la bottiglietta dello sciroppo della tosse: in un modo o nell’altro poteva servire. Il siero del burro, infatti, scaldato a una certa temperatura, magari con l’aggiunta di un po’ di latte intero (con la sua panna), produce ancora dei fiocchi bianchi che la massaia raccoglie, impasta, condisce con sale e pepe e fa scolare in un sacchetto di tela, nello “storn”… Il ‘brus’ fresco ha un sapore delicato, piacevole. Stagionato nella pignatta, diventa piccante, un prodotto da intenditori, altro che formaggio di recupero! In ogni caso il “brus” si accompagna bene con la polenta, le patate lesse, il pane. Se c’è anche un bicchierotto di vino è una vera allegria! I montanari si accontentavano dell’acqua fresca, anche questa D.O.C.! Il burro era l’unico condimento nelle borgate. L’olio per l’insalata si comprava un litro alla volta, perché costava troppo. Il burro, a portata di mano e di portafoglio, è altrettanto nutriente. Ha un difetto però: diventa rancido presto. Era un grosso problema specie per i contadini che avevano una sola vacca. Per conservarlo alcuni giorni lo si teneva immerso nell’acqua fresca … non c’era il frigorifero! Le mucche non danno latte tutto l’anno, non sono “fresche” tutto l’anno. Quando sono in attesa del vitellino, non danno più latte, sono “asciutte”. E allora il padrone resta senza latte e senza burro. La necessità aguzza l’ingegno: i contadini facevano sciogliere il burro in un tegame, lo mettevano in una pignatta, lo tappavano bene e lo conservavano così per mesi. Prima della guerra ’40-’45, un vecchio contadino dell’Indiritto che viveva solo, aveva ingaggiato dei giovanotti per la fienagione. Una faticaccia tagliare il fieno con “lu dài”, la falce dal lungo manico, su quei prati in pendio e portare in salita i “trapùń”! Dopo una mattinata di dura fatica, i lavoranti trovarono a pranzo un’insalata e alcune fette di polenta. Pensarono: “Oggi stiamo freschi!” Il vecchietto faceva friggere in un tegame due manciate di patate. I giovani si scambiavano occhiate! Il loro datore di lavoro sovente aggiungeva una cucchiaiata di qualcosa preso dall’ “ula” e poi mescolava. È per non farle attaccare, pensarono i lavoranti affamati. Le patate fritte erano veramente poche e appena in tavola le divorarono. Tornarono nel prato a faticare con l’impressione di non aver mangiato. Passa un’ora, ne passa un’altra, viene l’ora della merenda e poi della cena… Nessuno sente, non dico fame, ma neppure la “vanità”, il languore di stomaco. Una magia? No. Il vecchietto aveva fritto il burro dell’“ula” con due manciate di patate per dargli il gusto. Aveva usato gli ingredienti più sostanziosi della sua “cròta”!

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.