Carestia, guerra, peste e il finale de  “I promessi sposi”

Nella ricorrenza del 240° anniversario della nascita di Alessandro Manzoni, avvenuta a Milano il 7 marzo 1785, pubblichiamo una serie di articoli come introduzione ed analisi del suo capolavoro I promessi sposi. Sono il frutto della rielaborazione del corso su questo romanzo, tenuto dalla professoressa Patrizia Truffa presso l’Università della Terza Età di Giaveno e Alta Valsangone nell’anno accademico 2023-2024.

Nella pagina di questo sito dedicata ad Alessandro Manzoni sono riportate in formato PDF le diapositive che hanno fatto da base alla trattazione della professoressa Truffa. Si trovano accanto ad approfondimenti biografici sull’autore ed i suoi familiari e a un quadro complessivo delle sue opere.

Il 1600: un protagonista de I promessi sposi

•A partire dal capitolo 28 inizia la sezione del romanzo maggiormente dedicata alla società secentesca, sotto forma di veri e propri saggi storici. Dal capitolo 30 carestia, guerra e peste sono attori principali al pari dei protagonisti in carne e ossa: un grande quadro barocco, basato sul chiaroscuro.

•Questa ambientazione storica e culturale fa sì che la storia privata di Renzo e Lucia si arricchisca e si universalizzi: sono i protagonisti del romanzo, ma al tempo stesso sono rappresentanti di quel popolo che così tanto ha dovuto subire e sopportare nel 1600.

•Il filosofo illuminista Voltaire aveva sostenuto che la carestia e la peste fossero sciagure inevitabili e naturali, «flagelli di Dio», mentre solo la guerra sarebbe rientrata tra le responsabilità dei potenti.

Manzoni invece include anche la carestia e la peste tra le responsabilità degli uomini: esse non sono punizioni divine, ma il frutto della superficialità, della scarsa lungimiranza e della trascuratezza degli esseri umani.

•Ad ognuna di queste tragedie contribuiscono sia i nobili e i potenti, sia la borghesia e il popolo.

•Più gravi sono le responsabilità dei governanti, che prima non sanno valutare la gravità di certe situazioni e poi sono incapaci di gestirle con decisioni rapide e opportune. Ma anche il popolo, irragionevole, superstizioso e ignorante, accentua le conseguenze di tali disgrazie.

•Carestia, guerra e peste sono poi in stretto rapporto tra loro: la carestia è aggravata dalla guerra e a provocare l’epidemia di peste è proprio la discesa delle truppe tedesche in Italia.

Il tema della carestia nel romanzo

•Il narratore descrive le condizioni che determinarono la grave carestia del 1629 nello Stato di Milano.

•La carestia è il primo dei flagelli a comparire nel romanzo in modo costante all’interno dei discorsi dei vari personaggi (il lavoro di Renzo che subisce la crisi; le noci per fra Fazio, troppo abbondanti secondo Agnese; la lode boriosa dell’Azzacca-garbugli per i lauti pranzi di don Rodrigo in periodo di carestia; la polenta scura e scarsa di Tonio, la povera famiglia cui Renzo fa l’elemosina dopo aver passato l’Adda…).

•Della carestia vediamo i segni evidenti già nella descrizione della campagna attraversata da padre Cristoforo all’inizio del capitolo 4:

«Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. […] Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere».

•Sono poi dedicati alla carestia i capitoli sui tumulti di San Martino (cap.11-13) le cui conseguenze vengono riprese nel capitolo 28.

•Si veniva da due anni di scarsi raccolti e la penuria di grano aveva provocato come inevitabile effetto il rincaro del grano stesso e del pane. Fenomeno spiacevole, ma «salutare» in quanto consentiva di non esaurire le scorte come sarebbe avvenuto se si fosse continuato a vendere il grano al prezzo consueto.

•Il rincaro è tuttavia attribuito, da nobili e popolo, agli incettatori e ai fornai accusati di nasconderlo per rivenderlo a prezzo maggiorato.

•L’insensata imposizione da parte del Cancelliere Ferrer di un calmiere sul prezzo del pane e la sua successiva revoca sono la causa che scatena i tumulti di San Martino (11 novembre 1628), mentre nei giorni successivi il prezzo viene nuovamente ribassato per placare la folla.

•La gente si accaparra quanta più farina può, stipandola in casa e quindi le scorte si esauriscono rapidamente.

•Inoltre, poiché i prezzi bassi e l’apparente abbondanza, valgono solo per Milano, dalle campagne arrivano di continuo molte persone per approfittarne, aggravando ulteriormente il problema.

•A poco servono grida sempre più severe contro gli accaparratori e a poco serve mescolare la farina di grano con quella di riso che, del resto, ha un prezzo maggiore.

•Una tale situazione regge solo per un mese: a dicembre 1628 il prezzo politico viene abolito, ma le riserve di farina sono ormai esaurite. Così con la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, inizia a diffondersi la carestia.

•Il diffondersi della miseria spinge il cardinal Borromeo a intervenire con i mezzi della carità, mentre i bisognosi e i malati vengono raccolti nel lazzaretto, lo spazio che da lì a qualche mese ospiterà i malati di peste.

•La carestia continua a far sentire i suoi drammatici effetti sino al giugno del 1629, quando un raccolto abbondante pone fine a fame e miseria.

Cap. 28 – A Milano si diffonde la carestia

A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche [libere]. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto. C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.

Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. […]

Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. […]

Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato. Accanto a qualcheduno di que’ covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva scelto sei preti ne’ quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti.

Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti, s’avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose. Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose. Non c’è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, né l’aveva aspettata per commoversi. […]

Aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, “con cui,” dice, raccontando la cosa, il Ripamonti “l’erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo.” Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di riso. […]

Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione, che terminavano in istrida acute.

È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. […]

Il v[u]òto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere.

Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. “Vidi io,” scrive il Ripamonti, “nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna… Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso… Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa… Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno.” […]

I cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un’apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni, perchè le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d’insultare alla pubblica calamità. Que’ prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e chieder pace. […]

«Così passò l’inverno e la primavera. Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello».

Il giudizio di Manzoni sulla carestia

•Manzoni è interessato alla carestia sia come fenomeno storico, sia per le conseguenze sociali che produce.

•Si sofferma sulle cause naturali (stagioni sfavorevoli) che determinano la ciclica penuria di prodotti alimentari, ma soprattutto è interessato alle responsabilità umane che aggravano la situazione.

•In questa analisi critica la sua polemica è rivolta

•ai potenti, i politici e i magistrati incapaci di gestire l’emergenza e anzi la aggravano con sconsiderati provvedimenti economici (Ferrer che impone un calmiere sul pane fissato a meno della metà del prezzo del grano, costringendo i fornai alla miseria; poi lo ritira, sollevando le proteste del popolo) e con gli irragionevoli sprechi per la guerra;

•ma anche al popolo, che per ignoranza e con violenza cerca falsi responsabili (il vicario di provvisione) e impraticabili soluzioni (pane a basso prezzo per tutti).

•Manzoni era di idee liberiste in economia e quindi contrario al calmiere, cioè ad un prezzo massimo di vendita di un genere alimentare di largo consumo. (Dobbiamo precisare che anche nel ‘900 il calmiere non è mai riuscito ad eliminare la tendenza al rincaro delle merci divenute rare e in molti casi ha dato vita al fenomeno del mercato nero.)

•Manzoni parte dall’idea che in caso di penuria di una merce occorre lasciare che il prezzo aumenti, in modo che si riduca la richiesta oppure aumentare l’offerta, facendo per esempio affluire grano da regioni non colpite dalla carestia (libera circolazione delle merci).

•La prima soluzione è stata quella seguita inizialmente dalle autorità spagnole (e, per di più, tra mille contraddizioni); la seconda quella voluta dal governo veneziano che aveva acquistato grano proveniente dalla Turchia (come racconta il cugino Bortolo a Renzo nel c.17 «si fanno le cose con un po’ più di giudizio»).

•Secondo Manzoni quello veneziano è l’ideale del buongoverno.

Il secondo «flagello»: la guerra

•Sta per concludersi la stagione della carestia, quand’ecco profilarsi all’orizzonte un altro flagello: nel capitolo 28 Manzoni apre una seconda digressione storica per trattare in modo più preciso il procedere delle campagne militari che contrappongono i vari Paesi d’Europa e che coinvolgono direttamente i territori in cui si svolge il romanzo.

•Facendo riferimento costante a fonti scritte e con uno stile oggettivo tipico della relazione storica, Manzoni ci informa che l’esercito mercenario era composto da 28 mila fanti e 7 mila cavalli che scendevano dalla Valtellina per arrivare nel mantovano. Tali soldati erano attirati dalla speranza di saccheggio, considerato un supplemento della paga.

•Nel finale domina il punto di vista degli abitanti dei paesi minacciati dal temuto arrivo dei soldati imperiali.

Cap. 28 – Un nuovo flagello: i Lanzichenecchi

Intanto l’esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma non d’ultima fama, aveva ricevuto l’ordine definitivo di portarsi all’impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di Milano. La milizia, a que’ tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; né avrebbe potuto accordarsi così facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, né erano molto raffinatori in fatto di disciplina, né, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; ché soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d’abolire il saccheggio; o per lo meno, l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere.

Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.

Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall’incendio, o per tener d’occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perché non avevan nulla da perdere, o anche facevan conto d’acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi  anche di  questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto. Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti vòtate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s’intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l’esercito. Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.

•Nel capitolo 30 si chiude la sequenza dedicata alla calata dei lanzichenecchi: sembra che sia stato un «disastro passeggero» per quanto drammatico e violento. Infatti tra la prima scena del capitolo 30 (l’arrivo di don Abbondio, Perpetua e Agnese al castello dell’innominato per sfuggire ai soldati) e l’ultima (il loro ritorno al paese), passano poco più di tre settimane. Le ultime righe del capitolo annunceranno però un «nuovo terrore» ancor più grave di quello appena concluso.

•I due spazi su cui ruota il capitolo sono entrambe «stravolti», uno in senso positivo (il castello, luogo di leggendari misfatti abitato da loschi figuri, si è trasformato in rifugio sicuro per i deboli), l’altro in senso negativo (il paese diventa immagine esemplare di desolazione e violenza, soprattutto nelle case saccheggiate e devastate dei tre protagonisti, quelle case che erano simbolo di una vita di abitudini, affetti e sicurezze).

Il giudizio di Manzoni sulla guerra

•La guerra di cui si parla nel romanzo è quella nota come «guerra dei Trent’anni», nella fase che riguarda la successione al ducato di Mantova e Monferrato con il coinvolgimento di Francia e Spagna, contrapposte l’una contro l’altra a sostegno dei contendenti: Carlo Gonzaga di Nevers e Ferrante Gonzaga duca di Guastalla.

•È  presente sullo sfondo fin dai discorsi in casa di don Rodrigo (capitolo 5).

•Viene poi in primo piano con la modalità del saggio storico con cui si apre il capitolo 27 e in cui ritorna la polemica di Manzoni contro le politiche e le guerre del tempo, ispirate sempre e solo da interessi di classe e di potere che escludono l’attenzione al popolo e alle vere esigenze di giustizia e di benessere sociale.

•Come abbiamo letto nel capitolo 28, con la calata dei Lanzichenecchi la guerra diviene presente entro lo spazio dell’azione del romanzo.

•Si tratta di una delle convinzioni principali di Manzoni, cioè di come un fatto pubblico, che coinvolge la Storia ufficiale e i grandi personaggi, giunga a stravolgere, con le sue ingiustizie e violenze, la vita degli umili.

•Ciò che sorprende nella rappresentazione della guerra, in un romanzo che di fatto è pieno di morti, che non nasconde l’orrore della violenza, della tumefazione o della consunzione (si pensi alle immagini di sangue nel “duello” tra il nobile e Ludovico o, nella descrizione degli effetti della peste, al paragone tra i corpi accatastati e privi di vita e il groviglio di serpi) è l’assenza di scene di battaglia o di allestimenti militari.

•Lontano dalle modalità rappresentative proprie dell’epica (eroi, battaglie, vincitori e vinti), Manzoni adotta il punto di vista dal basso (quello degli umili) che non solo comporta l’assenza di descrizioni tradizionali di scontri in armi, ma è anche lo strumento più efficace per desacralizzare la guerra e ridicolizzarne i protagonisti.

•La scelta di una prospettiva vicino agli umili gli consente dunque di segnalare la profonda distanza tra la follia di un conflitto inutile, voluto e mal gestito dai potenti, e il destino dei cittadini, ritratti con crudo realismo mentre elemosinano cibo o muoiono di stenti per le strade.

•L’infondatezza dell’intero susseguirsi di scontri appare però in tutta la sua evidenza al termine del conflitto, quando viene riconosciuto come nuovo duca proprio colui per il quale la guerra era stata intrapresa. Lo scontro delle forze ha riportato alla situazione di partenza: i Gonzaga governavano ieri e governeranno d’ora in poi!

•Lo scontro di forze nel romanzo è solo servito a portar via «senza parlare de’ soldati, un milione di persone a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte e la Toscana, e una parte della Romagna». Manzoni non è un pacifista nel senso pieno del termine (lo si vede nelle odi e nelle tragedie), però, se può arrivare a comprendere una guerra di difesa (dagli invasori) o di liberazione (dallo straniero, come le guerre risorgimentali) non può certo giustificare guerre dinastiche, inutili per i potenti, crudeli per la povera gente.

Il terzo flagello: la peste

La peste nella storia

•La peste è una malattia infettiva causata dal batterio Yersinia pestis, il cui vettore è la pulce dei ratti.

•Le epidemie di «peste» (così venivano chiamate anche se erano altri morbi) erano un male endemico in Europa fin dall’antichità, diventando oggetto di celebri trattazioni letterarie (dalla Bibbia ad Omero alle tragedie di Sofocle).

•Le più importanti testimonianze sono  sicuramente la descrizione dello storico Tucidide della peste di Atene del 430 a.C., ripresa dal poeta latino Lucrezio con un approccio filosofico e poetico (la peste risulta essere una metafora della stoltezza degli uomini e non più solo una malattia fisica).

•In periodi meno lontani la peste si era diffusa durante l’impero bizantino di Giustiniano (541-544 d.C.), propagata, a ondate, per tutta l’area mediterranea fino al 750 circa e narrata dallo storico Paolo Diacono.

•Quella che ha cambiato la storia è la cosiddetta “peste nera” che ebbe la massima diffusione dal 1347-53 e fu descritta nella cornice del Decameron di Boccaccio.

•Tornò a varie riprese: nel 1576 nel milanese e, nuovamente, nel 1630 in Italia; a Londra (1665-66) e Marsiglia (1720). L’ultima si diffuse dal 1894 all’inizio del ’900.

•Albert Camus, nel 1947, si serve di un’inesistente epidemia di peste in Algeria per condannare le conseguenze tragiche delle dittature novecentesche.

Il tema della peste ne I promessi sposi

•Manzoni motiva la pausa narrativa che durerà per due capitoli (capitoli 31 e 32): vuole ricostruire l’epidemia di peste del milanese dall’autunno del 1629 all’estate del 1630 ovviando alla mancanza di sistematicità dei cronisti del ‘600. È la più approfondita analisi storica del romanzo perché in essa denuncia le più gravi conseguenze e colpe di un’intera società.

•Manzoni pertanto opera come storiografo, basandosi esclusivamente su documenti storici autentici e riservandosi di tanto in tanto uno spazio per riflettere criticamente sui comportamenti dei protagonisti della situazione, individuando così le responsabilità materiali e morali che hanno consentito all’epidemia di diffondersi.

•Nei capitoli 33-36, invece, rimette in gioco i personaggi di fronte al terzo «flagello»

•Nel capitolo 33 descrive il sogno di don Rodrigo e la vigna di Renzo; nel cap. 34 accompagna Renzo che percorre la Milano appestata fino all’arrivo al lazzaretto.

•Nel capitolo 35 Renzo incontra Padre Cristoforo e assiste all’agonia di don Rodrigo; nel capitolo 36 Renzo ritrova Lucia e padre Cristoforo la scioglie dal voto. Li benedice e consegna loro il «pane del perdono». Si può dire che il romanzo finisca qui, ma all’inizio del capitolo 37, mentre Renzo esce dal lazzaretto per tornare al paese, inizia a scendere una pioggia torrenziale: la pioggia purificatrice che porta via la peste.

Il tema della peste e la descrizione del suo insorgere sono articolati in tre momenti:

primi segni e diffusione della peste nel territorio percorso dalle truppe dei lanzichenecchi: il problema viene sottovalutato, i provvedimenti sono inadeguati;

arrivo della peste a Milano, dove serpeggia con pochi ma chiari casi per alcuni mesi: il pericolo non viene riconosciuto per ignoranza collettiva;

l’epidemia dilaga, i malati vengono ricoverati nel lazzaretto: ai provvedimenti opportuni contro il contagio si preferiscono credenze superstiziose, prima fra tutte quella sugli untori.

•Il delirio collettivo indotto dalla peste si manifesta nello sfaldarsi di ogni solidarietà civile e umana: le istituzioni gravemente inadeguate a ge

stire la situazione delegano le funzioni sanitarie che dovrebbero essere di pubblica competenza ad altri (ai frati cappuccini, ma poi anche alla cieca violenza dei monatti); i comportamenti collettivi folli e malvagi (la superstiziosa speranza nel rito della processione, la credenza in venefiche malignità, la caccia all’untore); i rapporti personali e familiari inquinati dal sospetto e dall’ostilità: «la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio». Tra gli episodi più drammatici c’è il processo al barbiere Gian Giacomo Mora e tale Guglielmo Piazza, che svolgeva l’incarico di commissario di sanità. Accusati ingiustamente di aver diffuso il contagio con unguenti velenosi, vennero torturati e condannati a una morte atroce. Di questo processo, svoltosi nell’estate del 1630, Manzoni tratta nel saggio Storia della colonna infame che egli considerò direttamente collegato ai Promessi Sposi, al punto da volerlo pubblicato in appendice al romanzo nell’edizione del 1840.

Renzo attraversa Milano appestata

•Tra i capitoli in cui ricompaiono i personaggi del romanzo ho scelto di leggere due passi del capitolo 34 in cui è protagonista unico Renzo che attraversa Milano per cercare Lucia a casa di don Ferrante e donna Prassede.

•È principalmente dal suo punto di vista che viene descritta la situazione, ma intorno a lui agiscono anonimi abitanti della città, ognuno con una propria personalità e funzione. Prevale il giudizio negativo di Manzoni sulle folle popolari guidate dall’irrazionalità (si pensi alla gente inferocita che aggredisce Renzo accusandolo di essere un untore), ma accanto a queste figure negative, il romanzo offre esempi di singoli individui in cui il senso della dignità umana e della solidarietà non è stato annullato dal disfacimento portato dalla peste: è il caso del prete che consola i malati e consiglia Renzo e, soprattutto, è il caso della madre di Cecilia.

•Ma il vero protagonista di questo capitolo è la Milano colpita dalla peste. L’attenzione di Renzo (e del lettore con lui) viene attirata dall’ambiente desolato con i suoi particolari raccapriccianti (scrittura macabra nelle scelte lessicali e nelle immagini), con le sue tristi o violente situazioni, con le tante comparse che sfilano da sole o in gruppo: le stesse azioni di diffidenza, aggressività o di solidarietà traggono forza e efficacia dal luogo e dal momento eccezionale in cui avvengono.

•La Milano attraversata da Renzo è un mondo alla rovescia, dove sono stati stravolti i valori e i punti di vista: Renzo viene salvato dalla furia della folla che voleva linciarlo come untore dal  macabro carro dei monatti e la stessa commozione che coglie il lettore di fronte alla scena della madre di Cecilia deriva proprio dal fatto che la «norma» della pietà e degli affetti risulta stupefacente in una quotidianità ormai fatta di barbarie.

Capitolo 34: La peste a Milano

In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così all’ingrosso, che c’eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno, senza bulletta di sanità; ma che in vece ci s’entrava benissimo, chi appena sapesse un po’ aiutarsi e cogliere il momento. Era infatti così; e lasciando anche da parte le cause generali, per cui in que’ tempi ogni ordine era poco eseguito; lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de’ cittadini. […]

All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo:  a  quel  tocco  rispondevan  le  campane dell’altre chiese; e allora avreste  veduto  persone affacciarsi  alle finestre,  a pregare  in comune; avreste  sentito  un bisbiglio  di  voci  e  di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto.

Morti a quell’ora forse i due terzi de’ cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de’ pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d’una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa nè mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d’andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d’infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà.

I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall’altra  pasticche  odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro un po’ d’argento vivo, persuasi che avesse la virtù d’assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni. I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. […] In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile tintinnìo.

Arrivato alla cantonata della strada, ch’era una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch’entravan nelle case, monatti che n’uscivan con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: “qua, monatti!” E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: “ora, ora.” Ovvero eran pigionali [inquilini]che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie. Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, “no!” disse: “non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.” Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese.

Poi continuò: “promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.”

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi,” disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

“O Signore!” esclamò Renzo: “esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!”

I capitoli finali del romanzo: lo scioglimento della vicenda

Cap. 37 – Manzoni tira le fila delle varie vicende

•Il momento cruciale, di massima tensione, del romanzo si è già svolto nel capitolo 36 con la benedizione di padre Cristoforo, pertanto il capitolo 37 è un capitolo di ricomposizione della trama, in cui il narratore tira le fila affinché tutte le parti in sospeso si concludano in modo coerente.

•Renzo racconta ad Agnese le vicende vissute e dà sfogo alle sofferenze degli ultimi mesi.

•Lucia, dopo essere uscita dal lazzaretto e aver trascorso la quarantena a casa della vedova (mercantessa) che aveva conosciuto nel lazzaretto stesso, ritorna a casa all’inizio del c. 38.

•Tra le informazioni sul destino di vari personaggi (padre Cristoforo, Gertrude, Donna Prassede), Manzoni si sofferma su don Ferrante, marito di donna Prassede, esempio degli intellettuali secenteschi e di quella cultura polverosa e inutile che abbiamo più volte incontrato.

•Quando si era diffusa la notizia della peste don Ferrate l’aveva negata con ragionamenti “logici”, prendendo come riferimento la dottrina aristotelica e dimostrando che la peste non esisteva perché non era né una sostanza né un accidente. Di conseguenza non esisteva nemmeno il contagio. I bubboni e le febbri erano la conseguenza della congiunzione di Saturno con Giove, contro la quale non vi era alcun rimedio. Così, basandosi su queste teorie, non aveva preso nessuna precauzione contro la peste, la quale gli si attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”. È l’ultima categoria dei responsabili dell’epidemia, gli intellettuali, che non solo non hanno saputo fare del bene agli altri, ma neppure salvare se stessi.

Cap. 38 – i promessi diventano sposi

•L’elemento narrativo dell’ultimo capitolo è la celebrazione del matrimonio, che si articola però in varie situazioni:

-l’arrivo a casa di Lucia e gli incontri con Agnese e Renzo (Manzoni non li racconta);

-le resistenze di don Abbondio alla celebrazione delle nozze;

-l’arrivo e l’intervento del marchese erede di don Rodrigo;

-la soluzione dei problemi pratici (vendita delle proprietà di Renzo e Lucia) e legali (l’ordine di cattura su Renzo);

-la celebrazione delle nozze (in rapido sommario);

-il trasferimento nel bergamasco e le difficoltà incontrate nei rapporti sociali (Manzoni li sintetizza);

-la residenza definitiva in un paese vicino a Bergamo e la stabilità familiare.

Le pagine finali non offrono un semplice “lieto fine”: Manzoni presenta la realtà della vita dei due sposi dopo il matrimonio, turbata dalle maldicenze e dalle difficoltà nei rapporti umani.

•Solo passando attraverso il realismo della quotidianità, gli sposi troveranno un vero equilibrio (completano il cammino di formazione di coppia) e potranno trarre il «sugo di tutta la storia». 

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