Armanda ed Eleonora, a Giaveno con l’Istria nel cuore

Eleonora Manzin ed Armanda Rubbi sono due cugine, native di Valle d’Istria, accomunate dalla drammatica esperienza dell’esodo dalla natia Istria verso l’Italia. Dopo varie tappe sono approdate a Giaveno, ma con la loro identità istriana ben salda nel cuore. Anche per questo hanno sempre risposto con disponibilità e passione agli inviti dell’istituto Pascal, e delle altre scuole, a portare la loro testimonianza, soprattutto in occasione del Giorno del Ricordo.

La intervista a Eleonora Manzin, poetessa cieca che dall’esodo ha tratto ispirazione per i suoi componimenti, è stata riportata su questo sito in occasione del Giorno del Ricordo 2021. Quest’anno si aggiunge l’esperienza della cugina Armanda Rubbi (vedi il PDF), raccolta nel 2011 e presentata al concorso Regionale di Storia Contemporanea, accanto ad altre due diverse esperienze di emigrazione forzata.

Il contesto storico che ha generato l’esodo degli italiani dall’Istria è sintetizzato in questo PDF

Armanda, dall’Istria un esodo senza ritorno

LA TESTIMONIANZA  DI  ARMANDA RUBBI

Armanda Rubbi è nata il 29 gennaio 1935 a Valle d’Istria ed ha vissuto in prima persona il passaggio dell’Istria dal dominio italiano a quello jugoslavo. Rimasta orfana del padre, Leone, morto nelle foibe, è stata con la madre e la sorella tra i profughi imbarcatisi a Pola nella primavera del 1947 sul piroscafo Toscana. Dopo una sosta al “silos” di Trieste, raggiunge Torino, dove con gli altri profughi viene sistemata nelle casermette di Borgo San Paolo, dove vivrà fino al matrimonio. Poi si sposta con la famiglia a Giaveno.

 

In Istria: mutande clandestine e il papà infoibato

Sono nata a Valle d’Istria nel 1935. È una cittadina di origini romane, Castrumvallis, che sorge a pochi chilometri dal mare. Le case sono costruite in pietra d’Istria chiara ed è dominata dal Castello dei Bembo. Possedevamo terre e una casa. Verso la fine della guerra, in un clima sempre più brutto, mia madre, Maria Manzin, era solita spostarsi a Pola, paese abitato in gran parte da italiani e sotto il controllo americano, per fare visita alle zie. Per raggiungere Pola eri sottoposto al controllo di due posti di blocco: il primo jugoslavo, dove venivano effettuati ferrei controlli di ispezione, perché non era permesso portare dei beni con sé; il secondo era invece americano. Mia madre mi faceva mettere due paia di mutande, era un modo per portare qualche cosa di là. Io ho frequentato la scuola del paese fino alla quinta elementare, poi sono stata costretta a trasferirmi a Pola in casa di parenti. In una notte del 1945 dei militari slavi avevano fatto irruzione nella casa di Valle  e avevano portato via Leone Rubbi, mio padre. Dopo l’accaduto mia madre, come molte altre donne, passava intere giornate alla ricerca del marito per portargli cibo e vestiti, a Rovigno, a Pisino, a Parenzo. Tutto ciò infastidiva i militari slavi che fecero in modo di far perdere le tracce dei prigionieri. In seguito a questo comportamento non si seppe più nulla di mio padre. Io ho supposto che la morte di mio padre, in foiba, sia avvenuta il 5 maggio del ’45, perché da allora mia madre, che aveva raccolto centinaia di firme per liberarlo, non ha più potuto vederlo in carcere. Io proseguivo la scuola, una sera dell’ottobre del 1946 la mia classe, accompagnata dai rispettivi genitori, fu invitata dal maestro a partecipare ad una riunione, supervisionata da militari slavi,  al castello dei Bembo di Valle d’Istria, per decidere a chi assegnare dei sussidi per la scuola. Venne deciso di assegnare questa agevolazione anche a me, anche perché dopo la morte del padre, la situazione economica della mia famiglia non era tra le migliori. Ma mia madre intervenne rifiutando quest’aiuto, affermando che a sua figlia non era mai mancato nulla finché suo marito era in vita. Dopodiché mi prese per mano e lasciammo la riunione. Non ci fecero niente, perché mio padre era molto popolare e loro avevano la coscienza sporca. Ma a questo punto mia madre mi iscrisse alle scuole di Pola, dove da tempo aveva un alloggio, che serviva da base a chi da Valle andava a Pola. Intanto mio fratello Mario, diciassettenne, venne reclutato in un  battaglione titino, ma nel giro di poco tempo riuscì a scappare e a rifugiarsi a Pola dagli americani, successivamente partì per Torino dove venne ospitato a casa di una zia.

Castel Bembo

Valle (in croato Bale, fino al 1945 Valle d’Istria), è un comune della Croazia situato nell’Istria. Conta poco più di 1000 abitanti, meno di un terzo di lingua italiana. Il paese sorge a 140 metri sul livello del mare, su di un piccolo colle non distante dalla costa adriatica.

L’esodo: da Pola a Torino

Itinerario della famiglia di Armanda Rubbi.

La decisione di partire e lasciare l’Istria ci fu praticamente imposta dagli slavi, perché non tolleravano il fatto che gli italiani avessero posizioni sociali migliori: avevamo maggiore cultura, beni e attività professionali qualificate. La partenza fu determinata da un crudele episodio: gli slavi avevano piazzato delle bombe sulla spiaggia di Pola, che normalmente era frequentata da molte persone. I militari decisero di disinnescare le bombe per far si che la gente tornasse alla spiaggia, ma quando quest’ultima fu piena innescarono nuovamente le bombe che esplodendo provocarono una grossa carneficina. Dopo l’accaduto, nel giro di tre mesi, 300.000 istriani lasciarono la loro terra alla ricerca di un posto più sicuro. Io partii con mia madre e mia sorella Romana, venimmo caricate su una nave, il piroscafo Toscana, il 9 febbraio del 1947. Il nostro futuro era molto incerto, nessuno sapeva dove quella nave ci avrebbe portati. Il viaggio fu faticoso e stremante, ma l’arrivo a Venezia fu come un bagliore di luce per tutti i passeggeri della nave. Subito dopo lo sbarco molte persone vennero caricate su dei treni. Non essendo a conoscenza della destinazione eravamo tutti molto spaventati e preoccupati, ma mia mamma Maria si teneva occupata nella lavorazione di ciabatte, dal momento che molte signore essendo scappate avevo lasciato tutto al loro paese. Il 10 febbraio del 1947 arrivammo a Torino, a Porta Nuova. Dopo essere scesi dal treno fummo invitati a salire su dei camion che ci avrebbero portati ai campi profughi.

L’esodo da POLA è diventato il simbolo della tragedia istriana

Profughi si imbarcano sul “Toscana”

Al contrario delle vicende di Fiume e del resto dell’Istria, contrassegnate da partenze individuali frammentate nel tempo, l’esodo da Pola fu un evento collettivo e preventivo organizzato dall’Italia sotto gli occhi della stampa internazionale. Per la sua concentrazione nel tempo (due mesi tra gennaio e marzo 1947) diventò il simbolo stesso della tragedia istriana. Pola venne assegnata all’amministrazione militare anglo-americana e ciò rappresentò una situazione rassicurante per il presente, ma precaria e di corto respiro. L’11 agosto 1945 si istituisce il Comitato di liberazione nazionale polese, con maggiori esponenti Franco Amoroso e l’onorevole Antonio de Berti. “L’Arena di Pola”, giornale diretto da Guido Miglia, difende la soluzione italiana di Pola, mentre all’opposto c’è “Il Nostro giornale”.
Il 22 marzo 1946 si tiene una grande manifestazione filo italiana in cui 20.000 persone scendono in piazza a difendere le tesi italiane. Nonostante tutto Parigi sembra orientarsi sull’idea francese di Pola alla Jugoslavia e, alla notizia, seguono due giorni di sciopero, in cui la popolazione di Pola si ritrova fortemente unita ma, il 3 giugno 1946, viene annunciato l’accordo sulla linea francese e il 15 settembre 1947 avverrà il passaggio formale alla sovranità jugoslava. L’idea di esodo, inizialmente suggerita come strumento di pressione, comincia a farsi strada tra le famiglie e nell’autunno del 1946, quando viene confermata definitivamente la linea francese, diventa una realtà e la comunità italiana comincia ad organizzarsi. Il 24 dicembre il Comitato di Liberazione Nazionale convoca i polesi per il rilascio del certificato di “profugo”, per ottenere in futuro assistenza dall’Italia. Il 21 marzo 1947 il piroscafo militarizzato Toscana, appartenente alla marina militare italiana, compie l’ultimo viaggio carico di esuli istriani, circa il 90 % della popolazione polese aveva lasciato la città.

La vita a Torino

La nostra famiglia si stabilì nelle Casermette di Borgo San Paolo, dove restammo per un periodo di dieci anni. Il campo profughi era suddiviso in diversi padiglioni composti da numerose camerate. Nelle camerate si poteva trovare solo il minimo indispensabile. A ogni famiglia venne assegnata una zona all’interno della camerata con un brandina per ogni componente della famiglia. Mia mamma decise di farsi assegnare solamente due brande per avere un po’ di spazio per tenere un cassettone, visto che ci contavano perfino le mattonelle! Dal momento che le diverse famiglie erano separate l’una dall’altra da grosse coperte militari appese su dei fili, la privacy era del tutto inesistente. Dopo la sistemazione mia mamma per la terza volta mi iscrisse alla quinta elementare, dopodiché frequentai per sei anni la scuola di Madre Mazzarello. Siccome le rette scolastiche erano molto costose mia mamma faticava a pagarle, ma terminati i sei anni di studio e dopo aver scoperto il mio  talento nel disegno le suore mi offrirono la possibilità di proseguire gli studi di arte gratuitamente. Mia madre ritenne inopportuna quest’offerta, affermando che con la sola vendita dei quadri non era possibile vivere. Partecipai a un corso di cucito e feci la sarta per quindici anni, anche impiegata alla Marus, di Corso Emilia. Il periodo trascorso alle Casermette lo ricordo come un periodo d’oro, in cui trascorrevo le intere giornate a giocare e divertirmi con gli amici o nel campo profughi o girando per la città e frequentando locali. Ricordo il direttore didattico Sibur, originario di Giaveno, ed il medico dottor Coa. L’unica amarezza del periodo trascorso a Torino risale al 1948 con le elezioni, perché i profughi istriani furono considerati fascisti dagli italiani dal momento che erano fuggiti dal comunismo di Tito. Dopo dieci anni ci trasferirono in zona Lucento, in una casetta di 29 mq costruita dagli americani, che, sapendo di averci venduti a Tito, forse si sentirono in dovere di aiutarci. Circa due anni dopo, nel 1959, mi sposai con un profugo di Fiume, da cui ebbi due figli. Con i soldi risparmiati dopo anni di lavoro presso la Fiat come meccanico, riuscì ad aprire un’officina a Torino. Gli affari di lavoro andavano a gonfie vele, l’attività divenne sempre più operativa, tanto da permetterci di comprare un terreno a Giaveno, come aveva fatto mia cugina Eleonora, dove costruimmo la casa dove abito ancora adesso. Sono di origine contadina e volevo il bosco e il verde a cui ero abituata a Valle, mi piace stare qui, mi manca solo il mare.

L’ampio, accurato studio di Miletto e Pischedda, “L’esodo istriano – fiumano– dalmata in Piemonte. Per un archivio della Memoria”, pubblicato sul sito dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, http://intranet.istoreto.it/esodo/, è un punto di partenza fondamentale per capire quanta parte abbia avuto il Piemonte nell’accoglienza ai profughi giuliani. Ricerche statistiche e tabelle confermano che anche in Piemonte i profughi hanno trovato disponibilità soprattutto in Torino e in altre città di grandi dimensioni, o dove vi fossero caserme o particolari disponibilità abitative. Dal sito Istoreto sono tratte alcune immagini che documentano le condizioni di vita nelle Casermette di Borgo San Paolo,  dove Armanda visse circa dieci anni.

Vita dei profughi istriani nelle casermette di Borgo San Paolo

Due domande per finire

Qual è adesso il suo rapporto con l’Italia?

A dire la verità io mi sento solo istriana. Mio padre è nato sotto l’Impero Asburgico e si è procurato una malattia per non combattere contro gli italiani, poi sono arrivati i fascisti e per noi sembrava bene, ma ci hanno trascinato al disastro. I partigiani comunisti di Tito hanno infoibato mio padre e altri mille, mi hanno portato via la terra e la casa. Gli alleati ci hanno venduti. L’Italia ci ha accolto, ma sempre con un atteggiamento di rimprovero, noi eravamo quelli fuggiti dal “paradiso di Tito” e nell’Italia del dopoguerra eravamo bollati come fascisti. Siamo gente che ha preso schiaffi da tutti, noi dell’Istria, e anche se la mia terra è rossa di bauxite, popolata di capre e battuta dal vento, la sento come la mia unica vera patria.

Come valuta il Giorno del Ricordo ?

È stato un riconoscimento tardivo, ma molto positivo. Mia sorella non ama parlare di quell’esperienza, e una mia parente rimasta in Istria una volta mi ha detto “È ora di lasciar perdere, basta rivangare”, ma secondo me è solo perché lei è rimasta e si sente colpevole verso chi ha avuto il coraggio di lasciare tutto e andarsene. Io ho molti contatti e amici tra gli altri profughi, partecipo volentieri e vado ovunque mi chiamino a parlare della mia vicenda. Ci hanno fatto sentire stranieri in patria e io voglio dire chiare le nostre ragioni.

L’Istria attuale, con i nomi in croato. Bale corrisponde a Valle d’Istria e Pula a Pola.
Un momento dell’intervista ad Armanda Rubbi, all’Istituto Pascal di Giaveno per il giorno del ricordo 2011.
Armanda Rubbi ed Eleonora Manzin – Giorno del Ricordo: 10 febbraio 2010 all’Istituto Pascal di Giaveno

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